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lunedì 26 novembre 2012

La fine del mondo? E' ora


di R. Cascioli e A. Gaspari,       31.12.11, www.labussolaquotidiana.it

Il 2012 è l'anno da molti indicato come quello della fine del mondo. Una credenza fasulla, ma che viene alimentata da diverse fonti e per diversi scopi, e che è diventata un tormentone. In ogni caso, quello della fine del mondo, è un argomento che interroga la nostra fede. Per questo proponiamo un capitolo ("La fine dei tempi") del libro 2012 - Catstrofismo e fine dei tempi, scritto da Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari (Piemme 2010).
Anche la Chiesa cattolica crede che la storia umana avrà una fine, che coinciderà con il ritorno definitivo di Cristo. Ma l’insegnamento della Chiesa sulla fine dei tempi è cosa ben diversa dall’ossessione moderna della fine del mondo. A cominciare dal quando, che non è una preoccupazione.
Per la Chiesa vale quanto detto da Gesù: «Non sapete né il giorno né l’ora». Potrebbe essere qualsiasi momento, per questo Gesù invita a vigilare per farsi trovare pronti. La fine dei tempi perciò, per il cristiano, si gioca in ogni istante. Non solo, essa è legata strettamente al ritorno di Gesù, alla resurrezione di tutti i corpi, come anche si prega nel Credo. Commentando la 1° Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi (4, 13-18), Benedetto XVI spiegava in una catechesi del mercoledì che il senso del messaggio di Paolo riguardo l’ultimo giorno è «semplice e profondo: alla fine saremo sempre con il Signore. È questo, al di là delle immagini, il messaggio essenziale: il nostro futuro è “essere con il Signore”; in quanto credenti, nella nostra vita noi siamo già con il Signore; il nostro futuro, la vita eterna, è già cominciata».
Ancora una volta vediamo che l’attesa del ritorno di Cristo, la fine dei tempi, non è una questione che riguarda un futuro più o meno prossimo, ma l’istante presente. Con delle conseguenze importanti: l’attesa del ritorno di Gesù «non dispensa dall’impegno in questo mondo, ma al contrario crea responsabilità davanti al Giudice divino circa il nostro agire in questo mondo. (...) Il Giudice che ritorna – è giudice e salvatore insieme – ci ha lasciato l’impegno di vivere in questo mondo secondo il suo modo di vivere. Ci ha consegnato i suoi talenti, perciò il nostro atteggiamento – unito alla certezza della resurrezione e della vicinanza di Cristo – è responsabilità per il mondo, per i fratelli davanti a Cristo e nello stesso tempo anche certezza della sua misericordia. (…) Siamo incaricati di lavorare perché questo mondo si apra a Cristo, sia rinnovato».
È con questa consapevolezza che si deve leggere anche l’invocazione “Vieni Signore Gesù” che, oltre a essere l’ultima parola della Bibbia, si trova anche alla fine della 1° lettera di S. Paolo ai Corinzi. «Certo, non vogliamo che adesso venga la fine del mondo. Ma, d’altra parte, vogliamo anche che finisca questo mondo ingiusto. Vogliamo anche noi che il mondo sia fondamentalmente cambiato, che incominci la civiltà dell’amore, che arrivi un mondo di giustizia, di pace, senza violenza, senza fame. Tutto questo vogliamo: e come potrebbe succedere senza la presenza di Cristo? Senza la presenza di Cristo non arriverà mai un mondo realmente giusto e rinnovato».
Non si potrebbe pensare a nulla di più lontano dalla vaga spiritualità New Age, che pone la speranza del cambiamento e della pace in una ritrovata armonia con il cosmo, che si risolve in una estraneazione dalla realtà presente.
Semmai il problema della Chiesa è quello di aver “dimenticato” la predicazione delle “cose ultime”, favorendo l’affermarsi di visioni disperate della realtà, che hanno fatto breccia anche al suo interno. Così che anche in tanti ambiti cattolici oggi si è rinunciato all’annuncio della salvezza dell’uomo per affermare la necessità di salvare un più indistinto pianeta. «L’esigenza escatologica, abbandonata dalla Chiesa» sostiene il filosofo Giorgio Agamben «ritorna in forma secolarizzata e parodia nei saperi profani, che, riscoprendo il gesto obsoleta del profeta, annunciano in ogni ambito catastrofi irreversibili. Lo stato di crisi e di eccezione permanente che i governi del mondo proclamano in ogni luogo non è che la parodia secolarizzata dell’aggiornamento incessante del Giudizio Universale nella storia della Chiesa».
La necessità della Chiesa di tornare a parlare con chiarezza del Giudizio Universale è certamente condivisa da Benedetto XVI, che ha dedicato all’argomento anche un capitolo intero della sua seconda enciclica, la Spe Salvi: «La prospettiva del Giudizio, già dai primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin nella loro vita quotidiana come criterio secondo cui ordinare la vita presente, come richiamo alla loro coscienza e, al contempo, come speranza nella giustizia di Dio. (...) Nella conformazione degli edifici sacri cristiani, che volevano rendere visibile la vastità storica e cosmica della fede in Cristo, diventò abituale rappresentare sul lato orientale il Signore che ritorna come re – l’immagine della speranza –, sul lato occidentale, invece, il Giudizio finale come immagine della responsabilità per la nostra vita, una raffigurazione che guardava e accompagnava i fedeli proprio nel loro cammino verso la quotidianità».
Perdere questa prospettiva ha delle conseguenze tragiche nella storia: «Nell’epoca moderna il pensiero del giudizio finale sbiadisce: la fede cristiana viene individualizzata ed è orientata soprattutto verso la salvezza personale dell’anima; la riflessione sulla storia universale, invece, è in gran parte dominata dal pensiero del progresso. Il contenuto fondamentale dell’attesa del giudizio, tuttavia, non è semplicemente scomparso. Ora però assume una forma totalmente diversa. L’ateismo del XIX e del XX secolo è, secondo le sue radici e la sua finalità, un moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale. Un mondo nel quale esiste una tale misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, non può essere l’opera di un Dio buono. Il Dio che avesse la responsabilità di un simile mondo, non sarebbe un Dio giusto e ancor meno un Dio buono. È in nome della morale che bisogna contestare questo Dio. Poiché non c’è un Dio che crea giustizia, sembra che l’uomo stesso ora sia chiamato a stabilire la giustizia. Se di fronte alla sofferenza di questo mondo la protesta contro Dio è comprensibile, la pretesa che l’umanità possa e debba fare ciò che nessun Dio fa né è in grado di fare, è presuntuosa e intrinsecamente non vera. Che da tale premessa siano conseguite le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia non è un caso, ma è fondato nella falsità intrinseca di questa pretesa. Un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia è un mondo senza speranza. (...) La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza (cfr. Ef 2,12). Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa. L’immagine del giudizio finale è in primo luogo non un’immagine terrificante, ma un’immagine di speranza; per noi forse addirittura l’immagine decisiva della speranza. Ma non è forse anche un’immagine di spavento? Io direi: è un’immagine che chiama in causa la responsabilità».In effetti la possibilità della dannazione eterna, la possibilità che le cose vadano male è necessaria affinché la nostra libertà agisca per il bene. È un po’ come quando guidiamo l’automobile: la possibilità di un incidente ci mantiene concentrati nel guidare bene. Come scrisse il teologo svizzero Charles Journet, «finché vivremo, il pensiero dell’inferno ci sconvolgerà: è una spina nel nostro cuore, che ci fa tremare di fronte ai giudizi di Dio, ci fa invocare una fede più pura, ci fa supplicare perché siano forzate le nostre volontà ribelli». E chiosa il cardinale Giacomo Biffi: «L’inferno insomma è un pensiero insopportabile. Ma l’esistenza umana non ha un lieto fine immancabile, come nei vecchi film americani».La posizione cristiana è dunque fortemente realista: il cammino verso il giudizio finale, l’attesa del ritorno di Cristo, la certezza della sua compagnia, l’esperienza di un destino buono, hanno introdotto una positività nell’affronto della realtà che non dimentica nulla. È consapevole del proprio limite e della possibilità del male, ma tende al bene. Ed è per questo che si può camminare fiduciosi verso il futuro. Ciò che invece viene negato dalla cultura oggi dominante che fa invece del catastrofismo e della paura del futuro la sua carta d’identità. L’esempio più eclatante è l’orrore con cui questa ideologia ecopessimista guarda alla capacità dell’umanità di crescere e progredire, al punto da indicare l’uomo come cancro del pianeta, e richiederne la riduzione e la selezione delle nascite. Un po’ quello che prevedeva il teologo Teilhard de Chardin: «...Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità non è una catastrofe che venga dal di fuori, non è né la fame né la peste, è invece quella malattia spirituale, la più terribile, perché il più direttamente umano dei flagelli, che è la perdita del gusto di vivere».

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