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mercoledì 9 gennaio 2013

EVANGELIZZARE. Nuovi stili di evangelizzazione

Cf. E.Bianchi, Nuovi stili di evangelizzazione, San Paolo, 2012

“Evangelizzare vuol dire insegnare l’arte di vivere…
(lasciare che Gesù ci dica:)
io vi mostro la strada della vita, la strada alla felicità, anzi:
 io sono questa strada…”
(J.Ratzinger)

Nuova evangelizzazione: Giovanni Paolo II ne inizia a parlare nel 1979 e da allora diventa motivo ricorrente dei suoi interventi e parola d’ordine dell’intera Chiesa.

Paolo VI, nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi così scriveva:
Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l'evangelizzare se stessa. Comunità di credenti, comunità di speranza vissuta e partecipata, comunità d'amore fraterno, essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell'amore…
Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d'essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunziare il Vangelo.

Tra i destinatari dell’evangelizzazione sono da annoverare i cristiani stessi. Si pensi ai cosiddetti “cristiani a intermittenza”, ossia quelli che vivono la pratica cristiana non nel ritmo tradizionale scandito dalle domeniche e dai tempi liturgici, ma in occasione di eventi particolari segnati dai grandi numeri o da luoghi come i santuari.
Oppure si pensi ai “cristiani ricomincianti”, persone che, dopo aver ricevuto l’iniziazione cristiana, si sono allontanati dalla fede, e in età adulta bussano alla porta della chiesa per riscoprire le loro radici. (…). Ma non vanno dimenticati neppure i “cristiani praticanti o impegnati”, sempre esposti a un rischio assai sottile: la pretesa di annunciare agli uomini un Vangelo che essi non vivono in prima persona.

Oggi siamo in una società secolarizzata: siamo passati da epoche in cui di fatto era impossibile non credere in Dio a un’epoca culturale in cui credere in Dio è una possibilità tra le tante.
Vi si riscontrano due fenomeni prioritari: l’indifferentismo e il pluralismo religioso, dovuto soprattutto alle migrazioni di credenti di altre religioni nel nostro continente. Essi affermano, con il loro stesso esserci, che il cristianesimo può essere insignificante e che si può vivere bene anche senza di esso (...) e fa intravedere al cristianesimo la possibilità di doversi considerare una proposta tra le tante, senza titoli di superiorità né, tanto meno, di assolutezza.
Tutto ciò deve spingerci a porre domande interessanti: perché il cristianesimo ha cessato di essere interessante agli occhi di molti?
Del resto, il cristianesimo è un’offerta, non un’imposizione.
Quanto al pluralismo religioso: non si incontra mai una religione, bensì uomini e donne, tutti “creati a immagine e somiglianza di Dio”, che appartengono a determinate tradizioni religiose. In questo “camminare accanto”, in questo vivere gli uni a fianco degli altri, i cristiani non devono imboccare vie apologetiche né assumere atteggiamenti difensivi o, peggio ancora, aggressivi, ma devono saper creare spazi di vita e di accoglienza, in vista dell’edificazione di una pòlis non semplicemente multiculturale e multi religiosa, ma interculturale e interreligiosa. Qui più che mai i cristiani sono chiamati a creare spazi comunitari a partire dalla loro capacità di essere uomini e donne di comunione e a rendere le loro chiese autentiche “case e scuole di comunione[1] per tutti gli uomini.
Il cammino di evangelizzazione richiede conoscenza dell’altro e della sua fede, capacità “pentecostale” di parlare la lingua dell’altro (cf. At 2,4.11), di farsi prossimo nel senso evangelico di chi si è fatto vicino a noi fisicamente (cf. Lc 10,36-37), mostrando così di credere nell’unico Padre e di riconoscere la fraternità universale. Di fronte all’altro prima di evangelizzare occorre imparare l’alfabeto con cui rivolgersi a lui, manifestando concretamente una vicinanza e una simpatia “cordiali”.
Rimane infine aperto il problema dell’evangelizzazione (o trasmissione della fede) delle nuove generazioni appartenenti a famiglie che sono cristiane ma nelle quali sono presenti un’incapacità di trasmissione e una labilità nel rapporto con la comunità cristiana tali da impedire ogni “lascito” o eredità religiosa. Si registra “una rottura delle tradizioni” che ferisce la memoria collettiva della nostra società, con grande responsabilità del sistema educativo, familiare, scolastico e parrocchiale.
I giovani di oggi non professano un’incredulità intellettuale e neppure un’indifferenza giustificata: cercano proposte di senso, vogliono tentare un cammino che trovi senso con gli altri, non apprezzano gli a-priori e le soluzioni prefabbricate[2]. Non è riscaldando la liturgia con effetti musicali particolari e sensazionali, né convocando raduni oceanici in forma di happening che si risolverà il problema della trasmissione della fede.

Perché evangelizzare
Perché Dio si è fatto uomo? “Per salvarci”, ripete l’occidente; “perché l’uomo diventi Dio”, afferma l’oriente. Ma in realtà potremmo dire che Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi veramente uomo: uomo come Dio l’ha voluto e creato, uomo la cui immagine è il Figlio, uomo che è salvato dal male e dalla morte, uomo che partecipa della stessa vita, anzi della stessa natura divina (cf. 2Pt 1,4).
L’evangelizzazione, allora, è l’annuncio di un uomo, Gesù Cristo, che ha narrato Dio (cf. Gv 1,18): proprio quest’uomo, come noi in tutto eccetto che nel peccato, indica strade che diano senso, per una umanizzazione vera e piena.
Solo chi ha una ragione per cui vale la pena di donare, di spendere la vita, fino a morire, ha anche una ragione per vivere. E Gesù questa ragione l’aveva: l’amore per i fratelli, il servizio agli uomini. E questa ragione ci apre alla speranza: la morte che vince tutti è stata vinta in Gesù Cristo. Perché “l’amore è forte come la morte” (Ct 8,6), è più forte della morte (cf. 1Cor 13,8): solo l’amore può vincere la morte, e l’amore di Dio, espresso e vissuto da Gesù, ha riportato questa vittoria definitiva.

Il contenuto dell’evangelizzazione (è Gesù Cristo)
Viviamo in un mondo sempre più secolarizzato e tuttavia, paradossalmente, attraversato dal “religioso”, cioè da una aspirazione religiosa diffusa e fragile, che spesso appare più effervescente che profonda. Proprio per questo si è istaurato un vero e proprio mercato con offerta seducente delle varie vie religiose, in cui è possibile usufruire di una sorta di “menu delle religioni”. Ma non ci si illuda: questa effervescenza inquieta del religioso non è affatto più favorevole al cristianesimo di quanto lo sia la secolarizzazione: si tratta infatti di una religiosità che fugge la responsabilità nella storia, la relazione personale con un Dio personale, la comunione nella confessione di un Dio Padre.

E’ una questione anche di stile: non si può annunciare un Gesù che racconta Dio nella mitezza, nell’umiltà, nella misericordia, e farlo con stile arrogante, con toni forti o addirittura con atteggiamento che appartengono alla militanza mondana!
Paolo VI ci ricorda come il cristiano deve “guardare al mondo con immensa simpatia perché, se anche il mondo si sente estraneo al cristianesimo, il cristianesimo non si sente estraneo al mondo…qualunque sia l’atteggiamento del mondo verso di esso”.

Dobbiamo ricordare a tutti che la vita cristiana è buona, bella e beata:
-          la vita cristiana è “buona”: abitata dalla carità, dal fare il bene, dall’amore gratuito che giunge ad abbracciare anche il nemico, una vita di servizio tra gli uomini, soprattutto i più poveri, gli ultimi, le vittime della storia, coloro con i quali Cristo stesso ha voluto identificarsi.
-          La vita cristiana è umanamente bella, arricchita dalla gioia dell’amicizia, circondata dall’armonia della creazione e illuminata da uno sguardo di amore sulle realtà più concrete di ogni esistenza umana.
-          La vita cristiana è una vita felice, beata. Certo, non in senso mondano, ma felice nel senso vero, profondo, perché la felicità è la risposta alla ricerca umana di senso.


[1] Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 43
[2] Cf. A.Matteo, Il cammino del giovane, Qiqajon, 2012

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