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sabato 5 gennaio 2013

Gesù e i miracoli. Il tocco di Dio che cambia la vita


di ENZO BIANCHI,
Avvenire,  11 dicembre 2011

I vangeli testimoniano che Gesù ha incontrato un gran numero di persone afflitte da svariate malattie: menomazioni fisiche (zoppi, ciechi, sordomuti, paralitici), malattie mentali (gli «indemoniati», che designano persone afflitte di volta in volta da epilessia, isteria, schizofrenia, mali la cui origine era attribuita a un impossessamento diabolico), handicap e infermità più o meno gravi (lebbrosi, la donna emorroissa, la suocera di Pietro colpita da grande febbre). L’incontro con questa umanità sofferente, con i volti e i corpi sfigurati di tanti uomini e donne, ha costituito per Gesù una sorta di Bibbia vivente, in carne e ossa, da cui egli ha potuto ascoltare la lezione della debolezza e della sofferenza umane, ha potuto apprendere l’arte della compassione e della misericordia. (…) Gesù non ha imparato solo da ciò che lui stesso ha sofferto (cf. Eb 5,8), ma anche dalla sofferenza degli altri.
I vangeli sottolineano il fatto che Gesù cura i malati (il verbo greco therapeúein, «curare», ricorre 36 volte, mentre il verbo iâsthai, «guarire», 19 volte), e curare significa innanzitutto servire e onorare una persona, averne sollecitudine. Gesù vede nel malato una persona, ne fa emergere l’unicità e vi si relaziona con la totalità del suo essere, cogliendone la ricerca di senso, vedendolo come una creatura disposta all’apertura di fede-fiducia, desiderosa non solo di guarigione, ma di ciò che può dare pienezza alla sua vita. Al cuore degli episodi in cui Gesù è alle prese con persone malate non vi sono le tecniche di guarigione e l’attività taumaturgica o esorcistica, ma l’attitudine umana all’ascolto e all’accoglienza delle persone, vi è l’umanissima realtà dell’incontro: non vi è dunque la malattia, ma la persona umana.
Gesù non incontrava il malato in quanto malato: ciò avrebbe significato porsi in una condizione in cui l’altro veniva rinchiuso in una categoria, avrebbe significato ridurre l’altro a ciò che era solo un aspetto della sua persona. No, Gesù incontrava l’altro in quanto uomo come lui, membro dell’umanità, uguale in dignità a ogni altro uomo. E nell’incontrare e ascoltare un uomo Gesù sapeva coglierlo, questo sì, anche come una persona segnata da una particolare forma di malattia. In breve, con la sua pratica di umanità Gesù insegna che curare è in primo luogo incontrare ed entrare in relazione con un uomo o una donna. (…)
Gesù non predica rassegnazione

 
Incontrando i malati, Gesù non predica mai rassegnazione, non ha atteggiamenti fatalistici, non afferma che la sofferenza avvicini maggiormente a Dio, non nutre atteggiamenti doloristici: egli sa che non la sofferenza, ma l’amore salva! Gesù
· cerca sempre di restituire al malato l’integrità della salute e della vita;
· lotta contro la malattia, dicendo di no al male che sfigura l’uomo;
· cura e cerca di guarire con tutte le sue forze.
Si sente ripetere con frequenza che occorre offrire a Dio la propria sofferenza. Che senso può avere questa espressione ritenuta altamente spirituale, ma che può essere equivoca? Dio gradisce forse l’offerta del dolore che sovente disumanizza e sfigura? Che immagine di Dio suppone un tale «gradimento»? In verità, questo consiglio spirituale deve essere chiarificato. Certamente nell’offerta di se stesso al Signore, che ogni cristiano deve fare come autentico culto spirituale (cf. Rm 12,1), sono comprese anche le sofferenze, come sono comprese le gioie. (…) Ma anche in questo dobbiamo guardare all’esempio fornito da Gesù, che non ha offerto al Padre la sua sofferenza, bensì «ha innalzato preghiere e suppliche … a Dio che poteva liberarlo dalla morte» (Eb 5,7) nell’esperienza della sua passione, vivendola nell’«amore fino alla fine» (cf. Gv 13,1), nell’amore esteso fino ai nemici. Ciò che è stato decisivo e redentivo nella passione di Gesù è stato l’amore con cui ha vissuto la sofferenza e la morte. E così ci ha insegnato che ciò  che Dio attende da noi quando attraversiamo la sofferenza e la malattia è che continuiamo a esercitarci nell’amore, accettando di essere amati e cercando di amare. Infatti noi raggiungiamo il desiderio di Dio non nell’offerta della nostra sofferenza, ma quando la nostra vita, anche nella sofferenza, diventa dono di sé nell’amore: questo è stato il cammino che Gesù ha percorso e ha aperto per quanti vogliono seguirlo.
Gesù vive la com-passione
Gesù si coinvolge profondamente con la situazione personale dei malati: la loro sofferenza viene patita da Gesù stesso, che prova com-passione per loro (cf., per es., Mc 1,41; 6,34),entra cioè in un movimento di con-sofferenza che lo coinvolge anche emotivamente. Gesù si lascia ferire dalla sofferenza degli altri, si fa prossimo al malato anche quando le precauzioni igieniche (paura di contagio) e le convenzioni religiose (timore di contrarre impurità rituale) suggerirebbero di porre una distanza tra sé e lui: è il caso dei lebbrosi, che Gesù non solo incontra strappandoli dall’isolamento e dalla solitudine a cui erano costretti, ma addirittura tocca. Gesù non guarisce senza condividere! In tal modo egli mostra che ciò che contamina non è il contatto con chi è ritenuto impuro, ma il rifiuto della misericordia, della prossimità al malato; insegna che non c’è sporcizia più grande di chi non vuole sporcarsi le mani con gli altri; svela che la comunione con Dio passa attraverso la misericordia e la compromissione con il sofferente. È vivendo in questo modo la compassione che Gesù ha narrato il «Dio misericordioso e compassionevole» (Es 34,6).
Quella vissuta da Gesù e da lui richiesta ai suoi discepoli non è la compassione nel senso di commiserazione, che è giustamente rifiutata dal sofferente come un’offesa e una lesione alla sua umanità. No, la compassione, biblicamente intesa, è il lasciarsi ferire dalla sofferenza dell’altro, è il com-patire con chi ci è accanto, è il rifiuto radicale dell’indifferenza al male. Questo senza alcun protagonismo, senza alcuna insistenza posta sul proprio «fare la carità»: è significativo a tale proposito che il verbo greco utilizzato per narrare l’atteggiamento di Gesù e del Padre da lui descritto nelle parabole (splanchnízein) indichi letteralmente «l’essere preso da, l’essere mosso a viscerale compassione», ovvero il reagire a stimoli provenienti dall’esterno. «Vedere ed essere mosso a viscerale compassione»: ecco ciò che spinge il buon samaritano, figura di Gesù, a farsi prossimo all’uomo lasciato mezzo morto dai briganti sul ciglio della strada (cf. Lc 10,33); ecco ciò che spinge il Padre prodigo d’amore a correre incontro al figlio peccatore quando quest’ultimo è ancora lontano (cf. Lc 15,20).
L’arte della relazione di Gesù: l’ascolto, il dialogo, la fede-fiducia
Una volta che Gesù si è fatto prossimo a persone toccate da situazioni di malattia, la cura che egli manifesta loro si esprime innanzitutto nel dare loro la parola, nel domandare la loro volontà, nel far emergere il loro desiderio.
Gesù si pone in ascolto, entra in dialogo ponendo domande, relazionandosi cioè al malato come a un essere simbolico e di linguaggio, una persona guidata da una intenzionalità, che è la capacità umana di attribuire senso alla vita. Al cieco Bartimeo domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51); accoglie la volontà del lebbroso e la fa sua riprendendo alla lettera le sue parole («Se vuoi, puoi purificarmi!»; «Lo voglio, sii purificato!»: Mc 1,40-41); di fronte all’uomo paralizzato non vede un paralitico, ma un essere con bisogni spirituali a cui egli risponde annunciando il perdono di Dio (cf. Mc 2,1-12). Le guarigioni avvengono sempre in un contesto dialogico e relazionale. Gesù si apre alla libertà della persona che ha davanti e, quando il malato è impossibilitato a esprimersi, egli si rivolge ai famigliari o a coloro che sono legati al malato da un rapporto d’amore. Gesù ascolta la loro sofferenza, il loro desiderio, la loro volontà: è così con la madre della bambina tormentata dal demonio (cf. Mc 7,24-30), con il padre del ragazzo epilettico (cf. Mc 9,14-27), con il centurione che lo supplica per la guarigione del suo servo (cf. Mt 8,5-13).
Nei suoi incontri con i malati Gesù fa sempre appello alle risorse interiori della persona che ha di fronte: e così la guarigione, quando si verifica, avviene sempre in un quadro relazionale in cui Gesù desta e fa sorgere la fede della persona, cioè la sua capacità di fiducia e affidamento, la sua volontà di vita e di relazione. Si può pensare, ancora una volta, alla prassi con cui Gesù avvicina e cura i lebbrosi, veri paria della società del suo tempo, marchiati a fuoco da uno stigma che li escludeva dalla famiglia e dai rapporti affettivi e sessuali, dalla vita sociale, dalla comunità religiosa e dalla pratica cultuale. Nei rapporti con i lebbrosi Gesù mette in atto un atteggiamento socievole che lo porta a incontrare chi era relegato fuori dai centri abitati, a toccare gli «intoccabili», a considerare persone quelli che, agli occhi di tutti, erano colpiti da maledizione e dal castigo divino, a intrattenere relazioni con chi era condannato all’isolamento (cf. Mc 1,40-45; Mt 8,1-4; Lc 5,12-18). Oppure, si pensi all’incontro di Gesù con il cosiddetto «indemoniato di Gerasa» (cf. Mc 5,1-20). Nei suoi confronti Gesù attua un paziente ascolto, intrattiene un dialogo, cerca un incontro personale e così gli trasmette fiducia e autostima. Grazie alla relazione, colui che prima era violento, autolesionista, incurante di sé, nudo, muta a tal punto che alla fine lo si può vedere «seduto, vestito e sano di mente» (Mc 5,15). A quest’uomo Gesù offre anche un’indicazione di futuro, restituendolo a se stesso, al suo ambiente famigliare e sociale e consegnandogli un compito da realizzare: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te» (Mc 5,19).
In sintesi, se è vero che «la fede nasce dall’ascolto» (Rm 10,17), Gesù ha mostrato la verità di questa affermazione a livello antropologico: con la sua pratica di umanità è stato capace di risvegliare l’umanità dei malati, ascoltandoli, ponendo in loro fiducia e valorizzando la loro fiducia. Ecco perché, quando restituiva alla vita in pienezza le persone malate, le congedava confessando, quasi con stupita gratitudine: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 5,34 e par.; 10,52; Lc 7,50; 17,19; 18,42).
Le guarigioni operate da Gesù, segno della salvezza
La guarigione  operata da Gesù nel corpo e nello spirito delle persone malate è segno della salvezza, che è liberazione definitiva dal male e dalla morte: la potenza dei suoi atti di guarigione è infatti la potenza stessa dell’evento pasquale, che agisce grazie a un indebolimento di Gesù, a una sua perdita di forza, insomma a una sua morte.
Significativamente, i racconti di guarigione lasciano trasparire la lunghezza e la fatica di tali interventi di Gesù: non si tratta di interventi magici, ma di incontri personali, che costano tempo ed energie fisiche e psichiche per condurre colui che sragiona a entrare in una relazione umanizzata (cf. ancora Mc 5,1-20), che chiedono a Gesù di informarsi e di avere ragguagli sulla malattia del ragazzo epilettico per poter intervenire (cf. Mc 9,14-29), che esigono la ripetizione di gesti terapeutici (come nel caso della guarigione del cieco di Betsaida: cf. Mc 8,22-26), che gli sottraggono energie (come nell’episodio della guarigione dell’emorroissa: cf. Mc 5,25-34). Nella debolezza umana di Gesù agisce la potenza di Dio: Gesù guarisce grazie a una morte e a una resurrezione. Ogni guarigione rinvia dunque all’evento salvifico definitivo che è la resurrezione: dietro ogni guarigione si staglia la sagoma della croce e della sua paradossale potenza vivificante.
L’evangelista Marco mostra questa realtà con particolare finezza quando, per narrare la guarigione del ragazzo epilettico, usa la terminologia con cui il kérygma cristiano proclamava la morte e resurrezione di Cristo:
Il ragazzo divenne come morto (nekrós), sicché molti dicevano: «È morto» (apéthanen). Ma Gesù, presa la sua mano, lo fece rialzare (égheiren) ed egli stette in piedi (anéste). (Mc 9,26-27)
Conclusione
Nel grande affresco sul giudizio finale Gesù proclama, tra l’altro: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt25,36). Questa affermazione è normalmente intesa nel senso che la visita al malato è un incontro misterioso eppure reale con il Cristo presente nel malato: nel bisognoso c’è Cristo, e chi serve il bisognoso serve Cristo, ne sia consapevole o meno. Ora, questa verità decisiva su cui si giocherà il giudizio alla fine dei tempi va intesa con intelligenza: meglio cioè, paradossalmente, non sapere che amando l’altro si ama Cristo, piuttosto che cadere nella perversione di amare le persone malate allo scopo di amare Cristo…
Credo però che, alla luce del cammino percorso, queste parole di Gesù possano essere intese anche in un altro modo: è Cristo  che ci visita nel malato, proprio perché è lui che ha preso su di sé una volta per sempre tutte le nostre sofferenze e le nostre malattie. È lui, il guaritore ferito, il crocifisso risorto, che può insegnarci ad amare e ad accettare di essere amati anche nell’ora della nostra massima debolezza. Per Cristo, con lui e in lui, «che ha com-patito le nostre debolezze» (cf. Eb 4,15), ogni nostra malattia può essere vissuta come un cammino di comunione; così «anche la notte del dolore si apre alla luce pasquale del [Cristo] crocifisso e risorto».

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