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sabato 1 settembre 2012

Vita consacrata

VITA CONSACRATA (2 febbraio, festa della Presentazione di Gesù nel tempio)

Il 2 febbraio, festa della Presentazione di Gesù nel tempio (cioè della sua circoncisione), è la giornata della vita consacrata. E’ dunque utile approfondire questa forma di vita abbracciata in Italia da 21mila uomini e circa 80mila donne. Numeri imponenti, tuttavia in forte calo: per questo si evidenzia la “crisi” della vita consacrata, crisi numerica, ma, provvidenzialmente, non di vitalità. Fanno capo ai religiosi infatti numerose scuole e centri formativi, centri culturali (comprendenti anche case editrici, radio e tv, riviste…) e centri assistenziali per i poveri (mense, realtà di accoglienza per immigrati, tossicodipendenti, disabili…) e tante parrocchie.
Ma la crisi della vita religiosa è anche crisi di identità: si è religiosi perché chiamati a vivere in comunione con altri fratelli e sorelli. Utile è allora lo stimolo che Mario Chiaro offre per passare dalla vita comune alla comunione di vita: 
 

la vita comune rischiava di essere intesa e vissuta alla stregua di tutta una serie di atti, come la preghiera, i pasti, il lavoro manuale, che i vari membri della stessa ponevano simultaneamente mantenendo tra di loro un'equidistanza pressoché perfetta ed evitando di confrontarsi e, se necessario, di scontrarsi sulle questioni vitali della vita comunitaria. Qualcuno ha affermato che non è raro incontrare comunità dove i religiosi partecipano alla stessa Eucaristia e poi non si parlano. All'interno di un tale modello di vita religiosa ciò che contava era l'osservanza delle regole e non certo l'incontro reale tra le persone. Da qui l'esigenza di cogliere i segni di comunione che già esistono in seno a una comunità e di favorirne la crescita».
È importante incontrarsi e mettere in atto strutture di partecipazione. Vanno poi preparate le persone in grado di promuovere la comunione e la ricerca comunitaria della volontà di Dio. «Ciò è possibile unicamente se sono disposte ad accogliere l'altro anche in ciò che lo rende diverso da me. Significa mettere al centro la persona più che la struttura, moltiplicando gli spazi d'incontro e di dialogo come pure tutto quanto favorisce la comunione. In questo senso la vita fraterna potrà diventare l'antidoto nei confronti di un mondo in cui regna la lotta dell'uno contro l'altro».
Mario Chiano, Da vita comune a comunione di vita, in "Testimoni", Numero 17 del 2011
Utili alla riflessione sulla vita consacrata sono poi le indicazioni che Enzo Bianchi ha affidato in un suo libro dal titolo esplicativo “Non siamo migliori. La vita religiosa nella Chiesa, tra gli uomini” (Qiqajon, 2002). Afferma che “i monaci e i religiosi sono dei battezzati come gli altri, chiamati alla santità e alla carità come tutti i cristiani, ma nel contempo impegnati a testimoniare la radicalità del Vangelo nel celibato e nella vita comune.

Citazioni tratte dal libro di Enzo Bianchi, Non siamo migliori, 2002 Qiqajon (i titoli alle citazioni sono miei).

I monaci comprendono il mondo e le cose “altrimenti” e siccome le comprendono “altrimenti” vivono “altrimenti”
Rifondare il ministero
"…(occorre) spingere i religiosi a una continua rifondazione del loro ministero, spingerli a confrontare l'ispirazione originaria (detta con parole ambigue "carisma del fondatore") non solo con le nuove situazioni e i segni dei tempi e dei luoghi, ma anche con lo spirito delle nuove generazioni anch'esse munite, come la prima generazione, dell'unctio magistra assicurata dallo Spirito che chiama alla sequela Christi!" (p.35).
Il significato dei voti evangelici
"I voti, o meglio, la logica evangelica abbracciata dai religiosi deve plasmare e dare forma al religioso visibilmente: quelle tre libido - la libido amandi, la libido possidendi, la libido dominandi, non solo sono buone in sè ma necessarie all'edificazione di ogni persona - devono essere purificate e convertite in castità, in povertà, in sottomissione reciproca e obbedienza e mai essere un assoluto, un fine che aliena e che offende la comunità degli uomini e la koinonia dei fratelli cristiani. Come Cristo ha lottato nel deserto contro queste tentazioni, così devono fare anche tutti i cristiani tra i quali stanno i religiosi. Se c'è lotta allora c'è conversione!
La novità di vita
Gli uomini vedono in noi un cambiamento di vita? Se vedono che noi viviamo come loro, perseguendo gli stessi traguardi mondani, e che siamo incapaci di mostrare una vita "altra", perchè dovrebbero convertirsi?" (p.39).
Parlare con Dio più che di Dio
"I religiosi devono essere testimoni di un Dio al quale sappiano parlare e non di un Dio del quale soltanto parlino, un Dio che essi conoscano e frequentino assiduamente, senza distrazioni, come se vedessero l'invisibile". (p.40)
L’essenza della vita religiosa
“Ciò che caratterizza la vita religiosa è essenzialmente il celibato volontario e, accanto e connessa ad esso, la vita comune” (p.52)
Il senso del celibato
“Il celibato implica una rottura con l’ambiente di provenienza, con il padre e la madre, casa e campi… Senza questa rottura chiara e netta, non sarà possibile il radicamento della nuova famiglia, né sarà favorita la crescita umana-spirituale del singolo. E’ rottura motivata dall’amore per Cristo e finalizzata all’amore per Cristo” (p.55)
“Occorre combinare i tre concetti di celibato, continenza e castità per definire l’impegno del religioso: in una vita di celibato egli promette la continenza a causa della castità per il Regno” (p.65)
“Amare Dio con tutto se stesso significa amarlo con tutte le proprie relazioni, in esse e attraverso di esse” (p.66)
“... i tre voti classici – celibato, povertà e obbedienza- non sono fini in sé, ma mezzi per la vita comune nella carità. Il celibato infatti rende possibile una vita comune piena, impraticabile da chi è sposato, a meno da non attentare alla profondità del vincolo matrimoniale. Ed è ancora il celibato vissuto nella castità che consente alla vita comune di essere pienamente umana, seria, priva di ambiguità” (p.220)
Non siamo migliori
La vita religiosa non è migliore in assoluto, ma “per me, per noi è cosa buona ed evangelica seguire il Cristo così”(p.72)
Il senso della povertà
“Povertà innanzitutto a immagine del Cristo che, da ricco che era, si fece povero, in una lotta antiidolatrica contro la ricchezza e il possesso di beni. Povertà come condivisione di ciò che il Signore ha destinato a tutti gli uomini… E infine obbedienza come ascolto pronto del Signore, come sottomissione a fratelli e sorelle, come ascolto di chi ha un ministero di guida nella vita religiosa e nella chiesa” (p.80)
Anche la povertà ha come criterio di giudizio la vita comune perché ad essa è ordinata. Essa consiste nel sine proprio, nel non aver nulla per sé ma tenere tutto in comune, sia a livello di beni materiali che a livello di carismi spirituali”(p.221)
Come prendere una decisione
“La tradizione cenobitica è unanime nel chiedere a chi presiede la comunità di far ricorso al parere dei fratelli prima di prendere una decisione… E’ vero che in tutta la tradizione monastica la decisione ultima spetta all’abate e che non si può assumere l’opinione della maggioranza come criterio ultimo e assoluto di decisioni, ma resta altrettanto vero che ogni monaco è chiamato ad elaborare con gli altri e con l’abate una decisione… è indubbiamente essenziale che tutti vengano ascoltati, anche il più giovane e inesperto “perché spesso è al più giovane che il Signore rivela ciò che è meglio” (RB 3,3), ma questo non basta. Perché ci sia elaborazione comune di una decisione occorre innanzitutto che l’autorità esponga il problema senza già darlo per risolto, che ponga domande e non presenti soluzioni, che non si accontenti di fornire risposte ma aiuti e avvii un vero confronto, facendo appello alla creatività dei monaci e affidandosi alla loro responsabilità… non si devono temere i conflitti, ma da parte di tutti occorre vigilare a evitare le chiacchere, a non sostenere con insolenza il proprio parere, a non fare battute, ad ascoltare l’altro” (p.129-130).
Morte o rifondazione
“O ci si avvia inesorabilmente verso il declino, oppure si ha una rifondazione della comunità, possibile però solo con uno slancio nuovo dovuto a una radicalizzazione evangelica della vocazione… di eterno c’è solo Cristo e nella vita religiosa occorre imparare l’ars moriendi e accettare il declino, magari fino all’estinzione; tuttavia resta sempre possibile un ritorno alle fonti, una rianimazione della vita spirituale, un adattamento non mondano, un autentico aggiornamento evangelico capace di discernere l’oggi di Dio per la congregazione, di consentire in pienezza la sequela di Cristo e di garantire una presenza eloquente nella compagnia degli uomini” (p.201-202).
La vita comune
“Non basta essere sottomessi tutti insieme ad una unica autorità; non basta condividere i pasti, gli orari, i locali, le preghiere perché ci sia vita comune: una comunità religiosa è qualcosa di diverso da una caserma o un collegio… Per la koinonia occorre l’amore degli uni per gli altri, un amore che abbia la possibilità di esprimersi, di manifestarsi” (p.223)
“Amare è una cosa difficile, richiede una scuola, non viene da sé. Eppure o la vita religiosa è un apprendistato alla relazione, all’affetto verso l’altro, oppure non si arriva a vivere una vita comune autenticamente cristiana. Occorre esercitarsi a questo, abituarsi all’incontro con l’altro, all’uso della misericordia, della pazienza, del perdono; occorre saper far posto all’altro non solo nella propria vita esteriore ma anche e innanzitutto nel proprio pensare, nella preghiera, nel dialogo ” (p.224)
“La vita comune dev’essere sempre rinnovata, sempre ricondotta al “fervore primitivo”: in questo sta il significato profondo della riscoperta del carisma del fondatore. Non si tratta né di fare opera di archeologia spirituale o di custodia di musei, e nemmeno, per antitesi, di lanciarsi in ardite e sovente arbitrarie attualizzazioni, ma di risalire al fervore evangelico che ha ispirato e animato le origini di una vita comunitaria, di un ordine, di una congregazione. In ogni vocazione cristiana e quindi in ogni vita comune è essenziale rinnovare lo zelo, rianimare il fervore, altrimenti è inevitabile – per quanto glorioso possa essere il passato – diventare “sale che ha perso il sapore”. Bisogna incessantemente riattizzare il fuoco, la carità fraterna, l’amore perché il grande pericolo nella vita comune è quello segnalato già da Gesù: il raffreddarsi della carità” (p.224-225)
“…la comunicazione sana nella comunità religiosa è resa problematica dalla compresenza di giovani e di anziani, dal rapporto con chi presiede, con l’autorità, e dal problema del numero: quando è troppo esiguo, rischia di rendere asfittica e pesante la vita insieme, quando è esorbitante non consente più una reale vita fraterna” (p.234).
“…chi ha attualmente una responsabilità di guida di una comunità (dovrà) pensare non solo a gestire il presente, ma a preparare un monastero per quanti oggi hanno tra i venti e i trent’anni, i quali dovranno a loro volta guidare le comunità in anni presumibilmente ancora più difficili. E questo occhio vigile sulla “comunità che sarà” mentre si guida la “comunità che è” deve illuminare le riflessioni non solo a livello di costruzioni, di economia e di strutture, ma anche e soprattutto a livello spirituale”(p.269).
“Nel contesto culturale odierno, e in particolar modo nel mondo giovanile, tutto deve essere giustificato, tutto deve avere una sua giustificazione nel presente e in prospettiva futura, non ci si può appellare semplicemente al passato, al si è sempre fatto così” (p.276)
“Giovanni Paolo II arrivò a dire: “Tutta la fecondità della vita religiosa dipende dalla qualità della vita fraterna, in comune!”, e che “la vita religiosa sarà tanto più significativa quanto più riuscirà a costruire comunità fraterne” in cui si cerchi Dio e si cerchi di fare esperienza di Dio proprio attraverso la vita comune” (p.296).
“Come mai, mentre Tommaso d’Aquino pensava che neppure il papa potesse dispensare dai voti solenni, oggi è così facile abbandonare la professione fatta? Se come il sì nel matrimonio la professione religiosa è un consentimento libero che pretende di impegnare il tempo, se è una risposta a una chiamata provata attraverso un lungo discernimento, se la comunità cristiana è testimone dell’esistenza di questo dono e della risposta pubblica e liturgica data, allora come si può sciogliere quest’alleanza? Noi crediamo che qui la competenza della chiesa sia la stessa che per il matrimonio, altrimenti quella fedeltà richiesta agli sposi di fatto è contraddetta da una prassi diversa usata per i religiosi. Se la vita religiosa con il carisma del celibato e la vita familiare con il sacramento del matrimonio sono le due vie di santificazione complementari ed entrambe immagini dell’unione fedele tra Cristo e la chiesa, allora andrebbero ripensate accanto e non più l’una contro l’altra, non più una in preminenza sull’altra, ma entrambe segnate dalla stessa esigenza di fedeltà” (p.299).

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