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venerdì 14 marzo 2014

Misericordia e verità

di Walter Kasper, L’OSSERVATORE ROMANO, 12.3.14

In preparazione al sinodo sulla famiglia

«Il tema del processo sinodale, “Sfide pastorali sulla famiglia nel contesto della evangelizzazione”, indica con evidenza che le questioni pastorali pressanti possono essere trattate non in modo isolato, ma soltanto sulla base e nel contesto complessivo del vangelo e del compito di evangelizzare, comune a tutti i battezzati. Perciò nella discussione dovrebbero partecipare, non ultimi, cristiani che vivono in situazioni familiari e talvolta in situazioni familiari difficili». Così il cardinale Walter Kasper, presidente emerito del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, nella premessa al libro Il vangelo della famiglia (Brescia, Queriniana, 2014, pagine 78, euro 9) che contiene la sua relazione introduttiva al concistoro del 20 e 21 febbraio scorsi e due testi inediti che riportiamo quasi per intero. «La pubblicazione - spiega il cardinale sempre nella premessa - non intende anticipare la risposta del Sinodo. Essa vuole piuttosto confrontarsi con le domande e preparare basi per discuterne. A una risposta, che speriamo unanime, possiamo giungere solo attraverso la comune riflessione sul messaggio di Gesù, attraverso uno scambio - disponibile all’ascolto - di esperienze e argomentazioni, e soprattutto attraverso la comune preghiera per ricevere lo Spirito santo di Dio».


La misericordia è legata alla verità; ma anche viceversa: la verità è legata alla misericordia. La misericordia è il principio ermeneutico per interpretare la verità. Significa che la verità va fatta nella carità (Efesini, 4, 15). Secondo la comprensione cattolica, si deve interpretare la parola di Gesù nel contesto dell’intera tradizione della Chiesa. Nel nostro caso questa tradizione non è affatto così unilineare come spesso si è affermato. Ci sono questioni storiche e differenti opinioni di esperti da prendere sul serio, di cui non ci si può semplicemente sbarazzare. La Chiesa ha cercato in continuazione di trovare una via al di là di rigorismo e lassismo, vale a dire ha cercato di fare la verità nella carità. L’unicità di ogni persona è un fondamentale aspetto costitutivo dell’antropologia cristiana. Nessun essere umano è semplicemente un caso di un’essenza umana universale né può essere giudicato soltanto secondo una regola generale. Gesù non ha mai parlato di un «-ismo»: né di individualismo, né di consumismo, né di capitalismo, né di relativismo, né di pansessualismo ecc. In una parabola Gesù parla del buon pastore che lascia le novantanove pecore per andare in cerca dell’unica che si è perduta, per riportarla all’ovile. E aggiunge: «Così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione» (Luca, 15, 1-7). In altre parole: non ci sono i divorziati risposati; ci sono piuttosto situazioni molto diversificate di divorziati risposati, che si devono accuratamente distinguere. Non c’è neppure “la” situazione oggettiva, che si oppone all’ammissione alla comunione, ma ci sono molte situazioni assai differenti. Se, per esempio, una donna è stata lasciata dal marito senza sua colpa e, per amore dei figli, ha bisogno di un uomo o di un padre, cerca onestamente di vivere una vita cristiana nel secondo matrimonio contratto civilmente e in una seconda famiglia, educa cristianamente i figli e si impegna esemplarmente in parrocchia (come accade molto spesso), allora anche questo fa parte della situazione oggettiva che si distingue essenzialmente da quella che purtroppo è dato constatare assai di frequente, ossia di uno che, più o meno indifferente dal punto di vista religioso, contrae un secondo matrimonio civile e vive in esso più o meno lontano dalla Chiesa. Non si può dunque partire da un concetto della situazione oggettiva ridotta a un unico aspetto. Ci si deve piuttosto chiedere sul serio se noi crediamo realmente nel perdono dei peccati, come professiamo nel Credo, e se crediamo realmente che uno che ha commesso uno sbaglio, se ne pente e, non potendolo eliminare senza nuova colpa, fa però tutto ciò che gli è possibile, possa ottenere il perdono di Dio. E allora possiamo noi rifiutargli l’assoluzione? Sarebbe questo il comportamento del buon pastore e del samaritano misericordioso? Per questi casi singoli, è vero, la tradizione cattolica non conosce, a differenza delle Chiese ortodosse, il principio dell’oikonomìa, ma conosce il principio analogo dell’epicheia, del discernimento degli spiriti, dell’equiprobabilismo (Alfonso Maria de’ Liguori), oppure la concezione tomista della fondamentale virtù cardinale della prudenza, che applica una norma generale nella situazione concreta (cosa che, nel senso di Tommaso d’Aquino, non ha nulla a che vedere con l’etica della situazione). In breve: non c’è una soluzione generale per tutti i casi. Non si tratta “della” ammissione “dei” divorziati risposati. Occorre piuttosto prendere sul serio l’unicità di ogni singola persona e di ogni singola situazione e accuratamente distinguere e decidere, caso per caso. A tal riguardo il cammino della conversione e della penitenza, così variegato come l’ha conosciuto la Chiesa antica, non è il cammino della grande massa, ma il cammino di cristiani singoli che hanno preso realmente sul serio i sacramenti. Il beato John Henry Newman ha scritto il famoso saggio On Consulting the Faithful in Matters of Doctrin; ha mostrato che durante la crisi ariana del IV e V secolo non furono i vescovi, bensì i fedeli a conservare la fede nella Chiesa. A suo tempo, Newman è stato criticatissimo, ma così è diventato un precursore del Vaticano II, il quale ha di nuovo chiaramente messo in evidenza la dottrina del senso della fede che è donato a ogni cristiano attraverso il battesimo (Lumen gentium, 12, 35). È necessario prendere sul serio questo sensus fidei dei fedeli proprio nella nostra questione. Qui nel Concistoro siamo tutti celibi, mentre la maggior parte dei nostri fedeli vivono la fede nel vangelo della famiglia, in situazioni concrete e talvolta difficili. Noi dovremmo perciò ascoltare la loro testimonianza e anche ciò che collaboratori e collaboratrici pastorali e consulenti nella pastorale delle famiglie hanno da dirci: ed essi hanno qualcosa da dirci. Tutta la questione non può perciò essere decisa soltanto da una commissione, della quale fanno parte solo cardinali e vescovi. Ciò non esclude che l’ultima parola nel sinodo sia in accordo con il Papa. Riguardo alla nostra questione ci sono grandi aspettative nella Chiesa. Senza dubbio non possiamo rispondere a tutte le attese. Ma se ripetessimo soltanto le risposte che presumibilmente sono state già da sempre date, ciò porterebbe a una pessima delusione. Quali testimoni della speranza non possiamo lasciarci guidare da un’ermeneutica della paura. Sono necessari coraggio e soprattutto franchezza (parrēsìa) biblica. Se non lo vogliamo, piuttosto allora non dovremmo tenere alcun sinodo sul nostro tema, perché in tal caso la situazione successiva sarebbe peggiore della precedente. Nell’aprire la porta dovremmo lasciare almeno uno spiraglio per la speranza e le aspettative delle persone. E dare almeno un segnale che anche da parte nostra prendiamo sul serio le speranze, come pure le domande, le sofferenze e le lacrime di tanti cristiani seri.

Pag 5 Quattro passi di Walter Kasper

Le considerazioni presentate nel Concistoro sono state precedute, già da diversi anni a questa parte, da dialoghi con pastori in cura d’anime, consulenti matrimoniali e familiari, nonché con coppie e famiglie interessate. Immediatamente dopo la relazione, tali conversazioni sono spontaneamente riprese. Soprattutto confratelli religiosi vogliono sapere, per lo più molto rapidamente, che cosa essi devono o possono fare in concreto. Queste domande sono comprensibili e giustificate. Tuttavia non ci sono ricette semplici. Tanto meno si può, nella Chiesa, imporre determinate soluzioni arbitrariamente o costruendo macchinazioni minatorie. Per arrivare a una soluzione possibilmente unanime è necessario compiere molti passi. Nelle questioni riguardanti la sessualità, il matrimonio e la famiglia, il primo passo consiste innanzitutto nel diventare di nuovo capaci di parlare e nel trovare una via d’uscita dalla immobilità di un ammutolimento rassegnato di fronte alla situazione di fatto. Il semplice chiedersi che cosa sia lecito e che cosa sia invece proibito non è qui di molto aiuto. Le questioni relative a matrimonio e famiglia - tra le quali la questione dei divorziati risposati è soltanto una, sebbene sia un problema pressante - fanno parte del grande contesto entro il quale ci si interroga su come le persone possano trovare la felicità e la pienezza della loro vita. Di questo contesto fa parte, del tutto essenzialmente, il modo responsabile e gratificante di rapportarsi con il dono della sessualità, dono fatto e affidato dal Creatore agli esseri umani. La sessualità deve far uscire dal vicolo cieco e dalla solitudine di un individualismo autoreferenziale e condurre al tu di un’altra persona e al noi della comunità umana. L’isolamento della sessualità da tali relazioni globalmente umane e la sua riduzione a sesso non hanno portato alla liberazione tanto decantata, bensì alla sua banalizzazione e commercializzazione. La morte dell’amore erotico e l’invecchiamento della nostra società occidentale ne sono la conseguenza. Matrimonio e famiglia sono l’ultimo nido di resistenza contro una economicizzazione e tecnicizzazione della vita che tutto calcola freddamente e che tutto divora. Abbiamo tutte le ragioni di impegnarci il più possibile per matrimonio e famiglia, e soprattutto per accompagnare e incoraggiare i giovani su questa strada. Un secondo passo, all’interno della Chiesa, consiste in una rinnovata spiritualità pastorale, che si congeda da una gretta considerazione legalista e da un rigorismo non cristiano il quale carica le persone di pesi insopportabili, che noi stessi chierici non vogliamo portare e che neppure sapremmo portare (cfr. Matteo, 23, 4). Le Chiese orientali, con il loro principio della oikonomìa, hanno sviluppato un percorso oltre l’alternativa fra rigorismo e lassismo, dal quale noi possiamo ecumenicamente imparare. In Occidente conosciamo l’epicheia, la giustizia applicata al caso singolo, che secondo Tommaso d’Aquino è la giustizia maggiore. Nell’oikonomìa non si tratta primariamente di un principio del diritto canonico, bensì di un fondamentale atteggiamento spirituale e pastorale, il quale applica il vangelo secondo lo stile di un buon padre di famiglia, inteso come oikonómos, secondo il modello della economia divina della salvezza. Dio, nella sua economia di salvezza, ha fatto molti passi insieme con il suo popolo e nello Spirito santo ha percorso un lungo cammino con la Chiesa. Analogamente, la Chiesa deve accompagnare le persone, nel loro camminare verso il fine della vita, e dovrebbe essere qui consapevole che anche noi come pastori siamo sempre in cammino e che abbastanza spesso sbagliamo, dobbiamo cominciare di nuovo e - grazie alla misericordia di Dio, che non ha mai fine - possiamo anche sempre ricominciare. La oikonomía non è un percorso o addirittura una via d’uscita a buon mercato. Essa fa prendere sul serio il fatto che, come Martin Lutero ha formulato proprio nella prima delle sue tesi sull’indulgenza del 1517, tutta la vita del cristiano è una penitenza, vale a dire un continuo cambiare modo di pensare e un nuovo orientamento (metánoia). Il fatto che noi spesso lo dimentichiamo e che abbiamo imperdonabilmente trascurato il sacramento della penitenza come sacramento della misericordia, è una delle più profonde ferite del cristianesimo attuale. La via penitenziale (via poenitentialis) non è perciò solo una cosa per divorziati risposati, bensì per tutti i cristiani. Solo se nella pastorale ci orientiamo di nuovo in questo modo profondo e globale, progrediremo anche nelle questioni concrete che ci stanno davanti, passo dopo passo. Un terzo passo riguarda la traduzione istituzionale di queste considerazioni antropologiche e spirituali. Sia il sacramento del matrimonio come pure il sacramento dell’eucaristia non sono soltanto una faccenda individuale privata; essi possiedono un carattere comunitario e pubblico, e perciò una dimensione giuridica. Il matrimonio celebrato in chiesa deve essere condiviso da tutta la comunità della Chiesa, concretamente della parrocchia, e il matrimonio civile sta sotto la tutela della Costituzione e dell’ordinamento giuridico dello Stato. Considerati in questo contesto più ampio, i procedimenti canonici in questioni matrimoniali hanno bisogno di un riorientamento spirituale e pastorale. Già oggi esiste un ampio consenso sul fatto che procedimenti unilateralmente amministrativi e legali, secondo il principio del tuziorismo, non rendono giustizia alla salvezza e al bene delle persone e alla loro concreta situazione di vita, spesso molto complessa. Questa è una perorazione non per una gestione più lassista e per una maggiore larghezza nelle dichiarazioni di nullità matrimoniale, bensì piuttosto per una semplificazione e accelerazione di questi procedimenti e soprattutto per situarli all’interno di colloqui pastorali e spirituali, nel contesto di una consulenza di genere pastorale e spirituale, nello spirito del buon pastore e del samaritano misericordioso. Si discute in modo controverso soprattutto un quarto passo, in riferimento a situazioni in cui una dichiarazione di nullità del primo matrimonio non è possibile o, come avviene in non pochi casi, non è desiderata perché ritenuta non onesta. La Chiesa dovrebbe incoraggiare, accompagnare e sostenere da ogni punto di vista coloro che, dopo una separazione civile, intraprendono la difficile via del restare soli. Nuove forme di Chiese domestiche possono qui essere un grande aiuto e donare una nuova possibilità di sentirsi a casa. Il cammino per rendere possibile a divorziati che si sono risposati civilmente, in situazioni concrete e dopo un periodo di riorientamento, i sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, viene percorso in casi singoli con la tolleranza o con il tacito consenso del vescovo. Questa discrepanza tra l’ordinamento ufficiale e la tacita prassi locale non è una buona nuova situazione. Anche se una casistica non è possibile e neppure auspicabile, dovrebbero valere ed essere pubblicamente dichiarati dei criteri vincolanti. Nella mia relazione ho cercato di farlo. Questo tentativo può ovviamente essere migliorato. Tuttavia la speranza di moltissime persone è giustificata: la speranza che il prossimo Sinodo, guidato dallo Spirito di Dio, dopo aver ponderato tutti i punti di vista, possa indicare un buon e comune cammino.

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