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domenica 22 novembre 2015

GENDER. Uomo, donna o GLBTQ?


Fino a pochi decenni fa era semplice distinguere l’umanità in maschi e femmine: era sufficiente prendere in considerazione gli attributi sessuali per stabilire a quale sesso si appartenesse. Il rischio tuttavia era quello di giustificare come “naturale” (cioè stabilito dalla natura) il fatto che a tale differenziazione corrispondesse anche un primato del maschile e una discriminazione delle donne (ricordiamoci ad esempio che, fino a pochi decenni fa, non potevano votare).

A partire dagli anni ’70 nasce nel mondo anglosassone un movimento di pensiero che complica notevolmente le cose con l’intento di distruggere ogni discriminazione: non si devono considerare solo le differenze fisiche e biologiche[1], ma anche quelle psicologiche e culturali di identità di “genere” o “gender” (ovvero basta eliminare la componente culturale che stabilisce come debbano comportarsi gli uomini e come le donne per lasciare libera la persona di esprimersi così come si percepisce, in accordo o meno con il proprio sesso biologico) e quelle dell’orientamento sessuale (ovvero l’attrazione sessuale verso il proprio o l’altrui sesso o per entrambi) e del comportamento sessuale (cioè il modo con cui esprimo il mio orientamento).

Ne consegue che l’essere un maschio o una femmina eterosessuale, cosa che prima si riteneva naturale e dunque l’unica lecita, è una delle tante possibilità. Posso sentirmi donna in un corpo maschile o altre possibili varianti che faranno di me un maschio o una femmina o un transessuale attratto da uomini o da donne o da animali o da oggetti… Tutto lecito, a patto di non far del male a nessuno. Da qui la sigla (già inadeguata ad esprimere ogni identità) dei GLBTQ (Gay Lesbiche Bisessuali Transessuali e Queer[2])

In questo modo tutti possono sentirsi accolti nelle loro peculiari caratteristiche e non discriminati. Per far questo si devono riconoscere a pari livello ogni forma di unione si voglia stabilire (compresa anche quella poligamica o incestuosa?) e garantire a tutti il diritto (!) ad avere figli, o naturali, o “artificiali” (in provetta o con l’utero di un’altra donna in affitto) o per adozione.

Per arrivare a tale tolleranza e libertà bisogna agire nei bambini fin dall’asilo e contrastare la consuetudine di indicare loro quali comportamenti sono più adatti per le femmine (ad esempio: giocare con le bambole, avere i capelli lunghi…) e quali per i maschi (giocare a pallone o con i soldatini, avere i capelli corti, non piangere…). Bisogna insegnare subito che è normale avere genitori omosessuali (per cui, basta parlare di mamma e papà, tutt’al più di “genitore 1” e di “genitore 2”), così come averli eterosessuali; giocare, vestirsi e comportarsi come meglio si crede; scegliere se ci sente più maschi o più femmine, se attratti dai maschi o dalle femmine, uscire da ogni categoria mostrandosi allo stesso tempo (e magari variando nel tempo) un po’ maschio e un po’ femmina (mito dell’androgino[3] che ha caratteristiche fisiche maschili e femminili allo stesso tempo, anche se più correttamente si dovrebbe parlare di ermafroditi)…

L’ideologia gender è talmente avanzata nei paesi occidentali (forse troppo poco in quelli arabi o africani) da arrivare a formulare leggi che permettano di chiedere l’arresto per chi si azzardi a pensarla diversamente: l’omofobia va’ condannata! Dunque condanniamo al carcere (o almeno a pagare multe salate) i cristiani che ancora si azzardino a dire che l’ordine naturale è costituito da maschi e femmine eterosessuali e che solo tra loro si possa parlare di una particolare unione che chiamiamo matrimonio con la possibilità di un’adozione. Guai a dire che l’omosessualità sia una devianza rispetto l’ordine naturale e che una cosa è rispettare la dignità di ogni persona altra è giustificare ogni suo comportamento. Guai a dire che avere un figlio non è un diritto (che io Stato devo tutelarti e garantirti!) come non lo è sposarsi (non posso obbligare qualcuno a farlo con te nel caso che tu non riesca a farlo da solo) o avere una villa con piscina.

Posso riconoscere in me particolari inclinazioni o tendenze sessuali, ma non è detto che siano tutte lecite, tutte buone, tutte da tutelare legislativamente da parte dello Stato. Le mie inclinazioni verso degli oggetti (feticismo) o degli animali (zoofilia), verso il sadismo o il masochismo (a condizione, ovviamente, che sia consensuale) deve essere ugualmente tutelato? Non è possibile vivere la propria inclinazione o perversione (a patto sempre che non sia lesiva di altri) senza pretendere di avere gli stessi diritti di una coppia eterosessuale? Non stiamo forse discriminando gli islamici che desiderano formare coppie poligamiche, o altre unioni che possono richiedere ampliamenti rispetto alla famiglia mononucleare? Stiamo discriminando dei fratelli che si amano e vorrebbero che il loro incesto sia legalizzato e tutelato? Stiamo arrivando a tutelare tutte queste forme in nome della tolleranza?

Pari dignità non significa essere uguali così come essere diversi non significa essere migliori o peggiori. Negare le differenze e le reciproche complementarietà non è in fondo la vera discriminazione del nostro tempo?

La Chiesa parla di “uguaglianza nella diversità”, cioè riconoscere pari dignità ad ogni essere umano, ma senza negare le diversità che ci sono tra di essi. Parla di creazione e dunque di un Creatore che ha immesso una finalità alle realtà che ha create. Parla della sessualità non solo come uno strumento di piacere (da vivere come meglio mi aggrada), ma come espressione della propria identità e soprattutto come spinta relazionale volta ad amare in pienezza chi può completare la mia vita con le sue differenze (anche fisiche, senza che debba utilizzare pertugi non appropriati) e possa dare vita (e non rimanere stabilmente sterile o debba ricorrere a metodi artificiali o di dubbia eticità), ed essere aperta agli altri (per non costruire un “egoismo a due”).

Secondo Carlo Maria Martini si deve seguire il criterio del “di più” (magis): occorre cioè “assicurare il massimo di condizioni favorevoli concretamente possibili. Quando è data la possibilità di scegliere, occorre scegliere il meglio”. E il meglio, per quanto riguarda l’adozione, consiste in “una famiglia composta da un uomo e una donna che abbiano saggezza e maturità”[4].

Un bambino accede al mondo per tramite della differenza sessuale: ci vogliono un maschio e una femmina affinché nasca un bambino, e questo anche nel caso di un bambino che venga cresciuto da una coppia omosessuale. Il bambino che nasce gode già di un’identità psico-fisica, data dall’uomo e dalla donna che l’hanno concepito, come pure già gode di una comunicazione affettiva intensa, perlomeno con colei che lo ha portato in grembo, trattandosi non di incubatrice, ma di una donna vivente. Che i genitori da cui nasce il figlio siano i medesimi che lo cresceranno non è lo stesso che se fossero altri. Che i genitori che crescono il figlio siano gli stessi lungo il corso del tempo non è lo stesso che se cambiassero. L’univocità delle figure genitoriali è in linea di principio migliore della loro molteplicità, se si tiene conto del fatto che ogni variazione delle figure genitoriali non è senza trauma e comporta comunque un ri-adattamento del bambino[5].

Ha fatto scalpore la diatriba scoppiata nel marzo scorso tra Dolce & Gabbana, stilisti gay dichiarati, e Elton John che oltre ad essere un gay dichiarato, è anche “sposato” con un altro uomo con cui condivide due figli “sintetici” nati da una madre surrogata grazie alla fecondazione artificiale. Questa la dichiarazione di Domenico Dolce che ha fatto infuriare sir Elton John che ha subito invocato il boicottaggio dei loro prodotti (con l’hashtag #BoycottDolceGabbana):

«Non l’abbiamo inventata mica noi la famiglia. L’ha resa icona la Sacra famiglia, ma non c’è religione, non c’è stato sociale che tenga: tu nasci e hai un padre e una madre. O almeno dovrebbe essere così, per questo non mi convincono quelli che io chiamo figli della chimica, i bambini sintetici. Uteri in affitto, semi scelti da un catalogo. E poi vai a spiegare a questi bambini chi è la madre. Procreare deve essere un atto d’amore, oggi neanche gli psichiatri sono pronti ad affrontare gli effetti di queste sperimentazioni», ha detto Domenico Dolce in un’intervista a Panorama. E ancora: «La vita ha un suo percorso naturale, ci sono cose che non vanno modificate. E una di queste è la famiglia».

La replica della star inglese:

«Ma come si permettono di definire i miei figli “bambini sintetici”. Il loro è un pensiero antico, per nulla al passo coi tempi, proprio come la loro moda. Non indosserò mai più un vestito di Dolce & Gabbana». Il post ha ricevuto in poco tempo oltre 3mila like e migliaia di commenti solidali[6].

Altro caso, senza uguale scalpore: agosto 2014, una coppia di australiani che si è recata in Thailandia per avere un figlio con l’utero in affitto si rifiuta di prendere entrambi i gemelli concepiti perché uno è affetto da sindrome di Down.

Il caso del piccolo Gammy, che oggi ha sei mesi, ha fatto il giro del mondo con la madre surrogata che ha chiesto aiuto perché gli venga salvata la vita. Gammy, infatti, è attualmente ricoverato in ospedale per un’infezione polmonare.

La madre surrogata, Pattharamon Chanbua, ha dichiarato di aver accettato il “lavoro” per guadagnare i circa 12 mila euro promessi. Con questi «avrei potuto mantenere i miei due figli e pagare i debiti». Al settimo mese, però, è stata contattata dall’agenzia che ha organizzato la maternità surrogata: «Mi hanno chiamata e mi hanno detto che i genitori volevano che abortissi perché il bambino aveva la sindrome di Down. Io non lo sapevo ma ho detto loro che non l’avrei fatto». Secondo la donna di 21 anni la coppia australiana è stata un mese in Thailandia dopo la nascita dei gemelli ma si è rifiutata di prendere con sé Gammy, tenendo solo la gemellina sana.

Il caso ha aperto molti interrogativi sulla pratica della maternità surrogata. La madre, che ha deciso di tenere il bambino, ha dichiarato: «Mi sento in colpa per Gammy. Non è colpa sua. Perché lui deve essere abbandonato mentre sua sorella no?»[7].




[1] Che sono allo stesso tempo genetiche (ogni nostra cellula è distinta in maschile, xy o femminile xx), somatiche e celebrali, essendo anche il nostro modo di pensare, di ragionare, di amare differente.
[2] Il Queer, letteralmente “strano, stravagante”, fuori dai canoni, indica una persona che non vuole essere incanalata in una particolare categoria sessuale. Un esempio tratto dal mondo dello spettacolo: il Festival della canzone europea ha premiato nel maggio 2014 l’austriaco Tom Neuwirth, in arte Conchita Wurst, apparso per l’occasione nelle “vesti” di donna barbuta, di travestito con la barba. L’ambiguità e l’indeterminazione del genere sessuale diviene lo strumento per superare ogni identità naturalmente costituita.
[4] Cit. in A. Fumagalli, La questione gender, Queriniana 2015, p.89.
[5] Id.

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