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venerdì 30 novembre 2012

Avvento



Scheda sull'Avvento
L'Avvento costituisce la prima stagione dell'anno liturgico.
Secondo il rito romano, l'Avvento è il periodo di quattro domeniche, seguite dalle relative settimane, che precedono il 25 dicembre e nacque storicamente, in analogia alla quaresima rispetto alla Pasqua, come tempo di purificazione e di attesa del Natale del Signore.
Questa analogia con la quaresima, spiega il coloro viola dei paramenti liturgici, che in occasione della terza domenica di Avvento, possono essere attenuati al colore rosa, ad indicare la gioia per la festa ormai vicina.
La parola "Avvento" significa "venuta", "arrivo", e nell'antichità, anche prima del cristianesimo, era utilizzata per indicare il grande evento costituito dall'arrivo in città di un sovrano o di una grande personalità, che richiedeva imponenti preparativi.
Avvento, dunque tempo dell'attesa. La Chiesa rivive l'attesa dei profeti dell'Antico Testamento che annunciavano l'arrivo del Messia Salvatore: il Messia è già venuto, nella persona di Gesù Cristo, figlio di Dio e figlio di Maria, ma la comunità dei credenti deve mantenere ancora viva l'attesa di Lui, che se da
una parte è già presente in mezzo a noi, dall'altra deve ancora manifestare pienamente la sua gloria, quando finalmente Dio sarà tutto in tutti.

giovedì 29 novembre 2012

Laici e chiesa

 
Benedetto XVI all’apertura del convegno ecclesiale della diocesi di Roma del giugno 2009:
La Chiesa, che ha origine nel Dio trinitario, è un mistero di comunione. In quanto comunione, la Chiesa non è una realtà soltanto spirituale, ma vive nella storia, per così dire, in carne e ossa... E’ una comunione di persone che, per l'azione dello Spirito Santo, formano il Popolo di Dio, che è al tempo stesso il Corpo di Cristo…”. La Chiesa è «Popolo di Dio» e quindi composta dal Papa fino all'ultimo bambino battezzato”…
Esiste ancora la tendenza a identificare unilateralmente la Chiesa con la gerarchia, dimenticando la comune responsabilità, la comune missione del Popolo di Dio, che siamo in Cristo noi tutti. Dall'altra, persiste anche la tendenza a concepire il Popolo di Dio secondo un'idea puramente sociologica o politica, dimenticando la novità e la specificità di quel popolo che diventa popolo solo nella comunione con Cristo... Molta strada resta ancora da percorrere. Troppi battezzati non si sentono parte della comunità ecclesiale e vivono ai margini di essa, rivolgendosi alle parrocchie solo in alcune circostanze per ricevere servizi religiosi. Pochi sono ancora i laici, in proporzione al numero degli abitanti di ciascuna parrocchia che, pur professandosi cattolici, sono pronti a rendersi disponibili per lavorare nei diversi campi apostolici. Certo, non mancano le difficoltà di ordine culturale e sociale, ma, fedeli al mandato del Signore, non possiamo rassegnarci alla conservazione dell'esistente. Fiduciosi nella grazia dello Spirito, che Cristo risorto ci ha garantito, dobbiamo riprendere con rinnovata lena il cammino. Quali vie possiamo percorrere? Occorre in primo luogo rinnovare lo sforzo per una formazione più attenta e puntuale alla visione di Chiesa e questo da parte tanto dei sacerdoti quanto dei religiosi e dei laici. Capire sempre meglio che cosa è questa Chiesa, questo Popolo di Dio nel Corpo di Cristo. È necessario, al tempo stesso, migliorare l'impostazione pastorale, così che, nel rispetto delle vocazioni e dei ruoli dei consacrati e dei laici, si promuova gradualmente la corresponsabilità dell'insieme di tutti i membri del Popolo di Dio. Ciò esige un cambiamento di mentalità riguardante particolarmente i laici, passando dal considerarli «collaboratori» del clero a riconoscerli realmente «corresponsabili» dell'essere e dell'agire della Chiesa, favorendo il consolidarsi di un laicato maturo ed impegnato... Nella fede in Dio siamo uniti nel Corpo di Cristo e diventiamo tutti uniti nello stesso Corpo e così, proprio credendo profondamente, possiamo esperire anche la comunione tra di noi e superare la solitudine dell'individualismo. La Chiesa dunque non è il risultato di una somma di individui, ma un'unità fra coloro che sono nutriti dall'unica Parola di Dio e dall'unico Pane di vita” .
 

Laici “corresponsabili”, ne siamo convinti?

martedì 27 novembre 2012

2012, tutte le bugie sui vaticini dei maya


di Massimo Introvigne, 5.1.12, www.labussolaquotidiana.it

MayaLa storia, tutta la storia finirà il 21 dicembre 2012, si ripete, lo assicurano i Maya. Vale la pena allora di chiederci che cosa c’è – eventualmente – di vero in questa storia che sta facendo ancora una volta il giro del mondo.
Per rispondere con una parola sola: nulla. Ammettiamo – ma vedremo in seguito che non è così – che gli antichi Maya abbiano davvero previsto la fine del mondo per il 21 dicembre 2012. Questo ci direbbe qualcosa sui Maya, ma nulla sulla fine del mondo. La cultura e le credenze dei Maya non sono “la verità”, ed è strano che qualcuno oggi le prenda come guida infallibile. Per esempio, i Maya credevano che gli dei avessero bisogno di sacrifici umani, un elemento assolutamente centrale nella loro cultura Credevano anche che migliaia di sacrifici umani avrebbero reso i loro regni invincibili ed eterni. Non è successo: i regni Maya sono stati spazzati via dalla conquista spagnola. Elementi non secondari, anzi fondamentali della visione del mondo dei Maya si sono rivelati falsi.
Inoltre, della fine del mondo nel 2012 nessuno aveva sentito parlare fino agli anni d’oro del dopo-1968 e del New Age. Antropologi accademici hanno visitato in lungo e in largo le comunità dei discendenti dei Maya in Messico e in Guatemala e non hanno trovato nessuna particolare aspettativa relativa al 2012. E si tratta di comunità che conservano moltissimi elementi della cultura Maya precolombiana.
La storia della fine del mondo nel 2012 è stata sostanzialmente inventata da un teorico del New Age nato in Messico ma cittadino statunitense, José Argüelles (1939-2011), a partire dagli anni 1970 e illustrata particolarmente nel suo volume del 1987 “Il fattore maya”. (…)

lunedì 26 novembre 2012

La fine del mondo? E' ora


di R. Cascioli e A. Gaspari,       31.12.11, www.labussolaquotidiana.it

Il 2012 è l'anno da molti indicato come quello della fine del mondo. Una credenza fasulla, ma che viene alimentata da diverse fonti e per diversi scopi, e che è diventata un tormentone. In ogni caso, quello della fine del mondo, è un argomento che interroga la nostra fede. Per questo proponiamo un capitolo ("La fine dei tempi") del libro 2012 - Catstrofismo e fine dei tempi, scritto da Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari (Piemme 2010).
Anche la Chiesa cattolica crede che la storia umana avrà una fine, che coinciderà con il ritorno definitivo di Cristo. Ma l’insegnamento della Chiesa sulla fine dei tempi è cosa ben diversa dall’ossessione moderna della fine del mondo. A cominciare dal quando, che non è una preoccupazione.
Per la Chiesa vale quanto detto da Gesù: «Non sapete né il giorno né l’ora». Potrebbe essere qualsiasi momento, per questo Gesù invita a vigilare per farsi trovare pronti. La fine dei tempi perciò, per il cristiano, si gioca in ogni istante. Non solo, essa è legata strettamente al ritorno di Gesù, alla resurrezione di tutti i corpi, come anche si prega nel Credo. Commentando la 1° Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi (4, 13-18), Benedetto XVI spiegava in una catechesi del mercoledì che il senso del messaggio di Paolo riguardo l’ultimo giorno è «semplice e profondo: alla fine saremo sempre con il Signore. È questo, al di là delle immagini, il messaggio essenziale: il nostro futuro è “essere con il Signore”; in quanto credenti, nella nostra vita noi siamo già con il Signore; il nostro futuro, la vita eterna, è già cominciata».

sabato 24 novembre 2012

Vita eterna. L'Escatologia


ESCATOLOGIA
L'Escatologia (lett. "scienza delle cose ultime o finali") è la riflessione sulle cose ultime, cioè sulle realtà legate alla "fine dei giorni". In pratica l'escatologia è strettamente correlata con la visione della morte e dell'aldilà. L'escatologia cristiana ha a che vedere con la resurrezione dei morti, con la Vita Eterna, con il Giorno del Giudizio, con il ritorno di Cristo (Parusia).
Il Mistero Pasquale viene letto già dalla prima generazione cristiana come un fondamentale evento escatologico, che ridà la speranza ai discepoli del Risorto.
Nella tradizione catechistica della Chiesa si utilizza il termine "novissimi" (="cose ultime") per indicare quattro parole chiave del destino finale dell'uomo: morte (ultima cosa che accade in questo mondo), giudizio di Dio (ultimo giudizio che si dovrà sostenere), inferno ("stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati", CCC 1031), paradiso (sommo bene che avranno "coloro che muoiono nella grazia e nell'amicizia di Dio e che sono perfettamente purificati", CCC 1023).

Che differenza c’è tra il giudizio «universale» e il giudizio «particolare»?
Nel Catechismo della Chiesa cattolica al n. 1022 si afferma che «fin dal momento della sua morte ogni uomo riceve la retribuzione eterna in un giudizio particolare... per cui o passerà attraverso una purificazione (Purgatorio), o entrerà immediatamente nella beatitudine del cielo, oppure si dannerà immediatamente per sempre». Al n. 1038 e segg. si afferma che avvenuta la risurrezione di tutti i morti vi sarà il Giudizio finale, in cui Cristo... separerà gli uni dagli altri... e quanti fecero il male «se ne andranno al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna». Al di là del fatto che i tempi della vita eterna non sono misurabili con i criteri terreni, è certo che il giudizio finale sarà «universale» e avverrà alla fine dei tempi, mentre il giudizio particolare avrà luogo al momento della morte di ogni uomo. Se però il giudizio particolare conterrà già implicitamente la decisione sulla futura «retribuzione eterna», quindi di per sé definitiva, in cosa si potrà distinguere il Giudizio «finale» da quello «particolare»?
Risponde don Angelo Pellegrini, docente di Teologia sistematica

venerdì 23 novembre 2012

Vita eterna al cinema (Hereafter e altri)


IL FILM. HEREAFTER
Eastwood raccoglie la sfida di confrontarsi con il tema dell'aldilà 
di Gaetano Vallini,  
Ci sono film che colpiscono pur lasciando interdetti. Da una parte intrigano, raccontando belle storie e toccando le corde giuste, dall'altra inducono qualche perplessità, perché sembrano interlocutori, in qualche modo imperfetti. È il caso di Hereafter, l'ultimo lavoro di Clint Eastwood in cui s'interroga su cosa c'è dopo la morte, spingendo gli spettatori a porsi la sua stessa domanda. E la risposta suggerita - in realtà non proprio convinta e definitiva - è che la morte non è la fine di tutto, ma che esiste un luogo, una dimensione in cui si trasmigra, con la quale peraltro qualcuno riesce a stabilire un contatto sia pure flebile e transitorio. Una tesi consolatoria per chi resta e di speranza per chi se ne va. Ma a Eastwood la fede sembra non interessare. Nel suo aldilà non appare nulla di religioso o di mistico. È un luogo asettico, indefinito e indefinibile, rappresentato così come viene descritto da quanti sostengono di aver vissuto esperienze di pre morte. Nulla di più?
Il film, dai forti e accattivanti richiami dickensiani, racconta in parallelo le storie di tre persone toccate in vario modo dalla morte e che attraversano un periodo di grande solitudine. (…)

mercoledì 21 novembre 2012

La vita eterna (raccontata a scuola)


C’erano due gemellini, un maschietto e una femminuccia, così intelligenti e precoci che, ancora nel grembo della madre, parlavano già tra di loro. La bambina domandava al fratellino: “Secondo te, ci sarà una vita dopo la nascita?”. Lui rispondeva: “Non essere ridicola. Cosa ti fa pensare che ci sia qualcosa al di fuori di questo spazio angusto e buio nel quale ci troviamo? La bimba, facendosi coraggio: “Chissà, forse esiste una madre, qualcuno insomma che ci ha messi qui e che si prenderà cura di noi.”. E lui: “Vedi forse una madre tu da qualche parte? Quello che vedi è tutto quello che c’è”. Lei di nuovo: “Ma non senti anche tu a volte come una pressione sul petto che aumenta di giorno in giorno e ci spinge in avanti?”. “A pensarci bene, rispondeva lui, è vero; la sento tutto il tempo”. “Vedi, concludeva trionfante la sorellina, questo dolore non può essere per nulla. Io penso che ci sta preparando per qualcosa di più grande di questo piccolo spazio”.

Il test sulla resurrezione
di Gilberto Borghi | 17 11 2010
È una parola che manca del tutto dal vocabolario dei nostri ragazzi. E credo che questo dica molto su come sentono la vita e il suo epilogo.

martedì 20 novembre 2012

La cremazione e la dispersione delle ceneri


Il nuovo Codice di Diritto Canonico dice così: «La Chiesa raccomanda vivamente che si conservi la pia consuetudine di seppellire i corpi dei defunti; tuttavia non proibisce la cremazione a meno che questa non sia stata scelta per ragioni contrarie alla dottrina cristiana». La cremazione dunque è possibile e lecita. Non altrettanto direi la dispersione delle ceneri, che dà l’impressione di non credere alla sopravvivenza e in ogni caso è anche regolata dalla legge italiana.

La cremazione e la dispersione delle ceneri
La Chiesa ammette la cremazione dei defunti? E cosa prevede circa la dispersione delle ceneri, come sta diventando di moda?
Risponde
Silvano Sirboni
La cremazione del corpo del defunto non è di per sé contraria alla fede cristiana né contrasta la verità della risurrezione.
Se i cristiani hanno progressivamente preferito l’inumazione (dal latino humus = terra), cioè la sepoltura nella terra, è in riferimento alla sepoltura di Cristo e ad alcune immagini bibliche che presentano la vita oltre la morte come quella che nasce da un seme nascosto nella terra.
L’esplicita condanna della cremazione da parte della Chiesa risale al 1886 poiché tale prassi era stata assunta dalla massoneria in funzione anticattolica.
Superata la polemica, tenendo
conto delle nuove esigenze sociali e nel rispetto delle diverse culture, pur mantenendo la preferenza per l’inumazione, nel 1963 l’autorità ecclesiastica tolse il veto nei confronti della cremazione.

lunedì 19 novembre 2012

VIRTU’ e vizi











I vizi capitali considerati come gli opposti delle virtù nella concezione cristiana sono

Superbia  (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui).

Avarizia (desiderio irrefrenabile dei beni temporali).

Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a se stesso).

Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio).

Gola (abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo).

Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito).

Accidia (torpore malinconico, inerzia nel vivere e compiere opere di bene).
 
In sette parole il segreto per una vita buona e bella
E. G., Carmelitana di S. Teresa di Firenze

Come Gesù educa alla fede

Come Gesù educa alla fede[1]

Guardare a come Gesù educa alla fede è il modo migliore per evitare ansie, posizioni difensive, chiudendoci in una cittadella che si sente assediata e minacciata, o confidare nei metodi, in strategie astute.
In Gesù troviamo l’arte dell’incontrare l’altro, del comunicare con l’altro, del tessere con l’altro una relazione, appunto, di fiducia. E’ questo il metodo la lui usato per suscitare e stimolare la fede. Un metodo che è stile di vita di cui possiamo riscontrare le seguenti caratteristiche:

  1. Gesù, uomo credibile e affidabile: essere autorevole

La prima necessità di colui che inizia alla fede o ad essa vuole generare è quella che riscontriamo, al massimo grado, in Gesù: essere credibile, affidabile[2]. Lo vediamo in particolare nella sua coerenza tra ciò che pensava e diceva e ciò che viveva e operava. Incontrandolo, tutti percepivano che non c’era frattura tra le sue parole e i suoi gesti, i suoi sentimenti, il suo comportamento. E’ da questa sua integrità che nasce la sua autorevolezza (exousìa: Mc 1,27): non lo fa per mestiere, come chi ha solo una competenza tecnica, ma “bastava vederlo” per credere in lui.

  1. Gesù, uomo che si è “spogliato” per entrare in dialogo (si abbassa alla situazione concreata della persona che incontra): essere sullo stesso piano dell’altro

domenica 18 novembre 2012

E’ giusto battezzare i neonati?

Quante volte mi è capitato di ascoltare l’obiezione, sempre più comune, circa il Battesimo dei bambini: non è giusto imporre al neonato una religione che non ha scelto lui, deciderà da grande se e cosa credere!
“Su questo non c’è dubbio”, ho sempre risposto, facendo notare come ai battezzati non venga tolta né la libertà religiosa né la responsabilità delle proprie scelte. Il rito celebrato in tenerissima età non risparmia affatto dal compiere opzioni consapevoli in età matura.
Alla stessa domanda ha risposto tempo addietro Benedetto XVI:

“La vita stessa ci viene data necessariamente senza consenso previo, ci viene donata così e non possiamo decidere prima: sì o no, voglio vivere o no”. Di conseguenza, potremmo anche chiederci: è giusto donare la vita in questo mondo senza avere avuto il consen­so dell’interessato, senza avergli chiesto:vuoi vivere o no? Risponde Benedetto: “Io di­rei: è possibile ed è giusto soltanto se, con la vita, possiamo dare anche la garanzia che la vita, con tutti i problemi del mon­do, sia buona, che sia be­ne vivere, che ci sia una garanzia che questa vita sia buona, sia protetta da Dio e che sia un vero do­no”. Altrimenti, chi ha il diritto di mettere al mondo un essere umano, vincolandolo a non pochi elementi che non ha certo potuto scegliere?
“Solo l’anticipazione del senso – ha concluso – giustifica l’an­ticipazione della vita”. Solo la certezza che la vita sia un bene in sé legittima il dono di essa. Lo stesso vale per il Battesimo: la coscienza che esso sia un bene in sé per chi lo riceve non solo assolve i genitori dall’accusa di lesa libertà, ma li giudicherebbe se ne privassero coloro che amano così tanto.

sabato 17 novembre 2012

Felicità. I comportamenti "felicitanti" (una ricerca)



«Ci lamentiamo sempre, ma ce la passiamo piuttosto bene», ci spiega il sociologo Enrico Finzi. Il segreto? Le nostre radici cristiane. L’arte di coltivare piccoli e grandi piaceri.

Italiani, una notizia. Di più, una buona notizia: «La felicità è di questo mondo» e, a quanto pare, soprattutto per noi. Lo afferma la ricerca pubblicata da Enrico Finzi, con il titolo Come siamo felici. L’arte di godersi la vita che il mondo ci invidia (Sperling&Kupfer).

«Tutte le ricerche», dice Finzi, «mostrano che il 70 per cento degli italiani è scontento. La gente dice che la vita è peggiorata, il Paese va a picco e così via. Se uno studia con attenzione, però, scopre che gli italiani sono spesso capaci di trovare soddisfazione esistenziale nelle pieghe della vita. C’è infelicità pubblica ma poi il 39 per cento si dichiara molto felice e il 20 per cento discretamente felice. Siamo ben oltre la maggioranza, come si vede».

Enrico Finzi chiama "comportamenti felicitanti" «quelle attività che contribuiscono a dare appagamento agli italiani»: ne elenca 47. Eccone alcuni.

Chiacchierare - È un’arte tipicamente italiana, uno degli strumenti chiave per costruire, mantenere e spesso rinforzare quel mondo di relazioni "calde" che sono per molti il pilastro portante della felicità individuale e sociale.

Stare con gli altri - Coloro che vivono soli hanno il 30 per cento di probabilità in meno della media di dichiararsi felici. Anche coloro che hanno liberamente scelto di restare single non risultano più felici della media, malgrado elenchino i numerosi vantaggi della loro condizione.

Essere cordiali - Non parliamo di buona educazione e cortesia, che pure l’84 per cento degli adulti giudica importanti. Ciò che è davvero "felicitante" è la cordialità, quel di più di calore che contribuisce a incrementare la soddisfazione esistenziale.