I sostenitori del matrimonio omosessuale si appellano a più di una intenzione positiva: combattere l’emarginazione, promuovere la cultura dell’uguaglianza, favorire i legami umani. Se permettere di sposarsi solo a un uomo e a una donna fosse una forma di discriminazione, che sulla base di un pregiudizio irrazionale esclude quanti non sono conformi alla maggioranza sociale, allora non c’è dubbio che ci troveremmo davanti a una proibizione sbagliata. Parimenti, se lo scopo del matrimonio fosse soltanto quello di promuovere e di incoraggiare i legami tra le persone, allora anche il matrimonio omosessuale assolverebbe questo compito e non ci sarebbe nessun motivo di escludere né gli omosessuali né altre categorie di adulti che conducano una relazione seria. Se l’intenzione che sta dietro alla richiesta di introdurre il matrimonio omosessuale fosse di incoraggiare questo tipo di rapporto amorevole, devoto, duraturo, è chiaro che si tratterebbe di un’intenzione positiva. Il punto è che ci sono altri, più importanti, aspetti da tenere in considerazione.
In sostanza, la Chiesa si oppone al matrimonio omosessuale perché con esso si rifiuta questa definizione di matrimonio, sostituendola con un’altra che lo rende non coniugale. Messa in termini positivi, i cattolici ritengono che lo Stato debba continuare a promuovere il matrimonio tra un uomo e una donna non perché disapprovino o vogliano escludere un dato gruppo di individui ma perché: 1) «La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato» (Dichiarazione Uni- versale dei Diritti dell’uomo, 1948, art. 16); 2) al centro della famiglia c’è l’unione sessuale tra un uomo e una donna che si impegnano reciprocamente nel loro stesso interesse e per il bene dei loro figli; 3) il matrimonio tra un uomo e una donna è il contesto ideale e insostituibile in cui crescere i figli, che ne traggono benefici sotto l’aspetto psicologico ed emotivo, oltre che da molti altri punti di vista; per questo deve essere protetto e incoraggiato dallo Stato.
Questo è il quadro con cui rispondere al falso ritratto che i sostenitori del matrimonio tra persone dello stesso sesso fanno della Chiesa quando la accusano di «appoggiare la discriminazione» o di «avercela con i gay», laddove invece, come detto nel secondo capitolo, è proprio l’opposto: la Chiesa non è contro ma a favore dell’uguaglianza e dei legittimi diritti degli omosessuali in quanto persone. Ed è altrettanto errata l’idea che ci sia il ripudio morale degli atti omosessuali dietro la sua opposizione al matrimonio fra persone dello stesso sesso: la Chiesa ha appoggiato con forza e risolutezza i provvedimenti volti a porre fine alla criminalizzazione e all’emargi- nazione di questa minoranza, affinché potesse avere un ruolo a pieno titolo nella società. Perché ritiene che le persone, proprio come non devono essere etichettate per la loro fede, le loro idee o il loro genere, così non devono essere bollate per le loro inclinazioni sessuali: le persone sono prima di tutto persone, esseri umani creati a immagine di Dio, e hanno il diritto di essere rispettate come tali, a prescindere dai loro orientamenti o dalle loro azioni. È questo il senso delle famosa frase pronunciata da papa Francesco nell’intervista sull’aereo che lo riportava a Roma dal Brasile, secondo cui se una persona omosessuale «cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?»
La Chiesa però non accetta che questo principio evangelico venga invocato dallo Stato per ridefinire il matrimonio con una formula che rende irrilevante la complementarità sessuale e la capacità di generare prole. Sempre per ragionare in termini positivi, più che «contraria al diritto dei gay di sposarsi», la Chiesa è «favorevole a preservare la specialità del matrimonio tra uomo e donna». Ciò non significa affatto «discriminare». Riservare il matrimonio a un uomo e a una donna non è più discriminatorio che riservare l’accesso al trattamento pensionistico a coloro che ne abbiano i requisiti necessari.
Quando si paragonano i cattolici che si oppongono al matrimonio omosessuale ai razzisti che negli anni ’60 contestavano i matrimoni interraziali, si commette un grosso sbaglio di categoria: proprio perché il matrimonio si definisce come unione tra un uomo e una donna, ogni tentativo di limitarlo sulla base della razza o della classe sociale va contro la sua stessa natura, che prevede invece il superamento di ogni confine – di razza, classe, nazionalità – in nome di un patto d’a- more per la vita tra i due soggetti, uniti da un legame che è prima di tutto biologico. Escludere sulla base di fattori come la razza o la nazionalità è apertamente eugenista, e cercare di attribuire alla Chiesa un’idea simile è non solo sbagliato ma anche offensivo.
Non vi è invece nulla di ingiusto o di discriminante nel far riferimento a delle differenze reali ed oggettive: uguaglianza non vuol dire equivalenza. Ogni legge, di fatto, distingue. Gli Stati hanno sempre imposto delle ragionevoli restrizioni al matrimonio, per preservare l’essenza e il significato dell’istituzione: di conseguenza non possono sposarsi gli omosessuali così come non possono sposarsi i parenti stretti, i minorenni o le persone incapaci di intendere e di volere. Sempre per legge, chi contrae matrimonio deve essere in grado di assumersene gli obblighi (motivo per cui, ad esempio, è considerato impedimento la minore età) e deve farlo di sua spontanea volontà (per questo i vizi della volontà sono causa di invalidità). I coniugi devono essere due (e non un numero illimitato di persone) e devono essere un uomo e una donna. Il che esclude i bigami, le persone dello stesso sesso, la poliginia e la poliandria.
Ma se definiamo discriminatorio impedire di sposarsi alle persone dello stesso sesso, allora diventa discriminatorio escludere dal matrimonio tutte le persone che rientrano nelle altre categorie citate. Dunque, l’unico modo per evitare ogni marchio di «discriminazione» in materia resta che lo Stato cessi di riconoscere il matrimonio per legge e lo qualifichi come un fatto interamente privato. Altrimenti, fino a quando continuerà a riconoscerlo, lo Stato avrà il dovere di definirlo e di porvi delle condizioni.
Queste condizioni, finora, erano state stabilite per proteggere caratteristiche essenziali e distintive quali la monogamia e la complementarità sessuale, sintetizzabili nel termine «coniugale». Se lo Stato rinuncia a questo requisito essenziale del matrimonio, allora non vi è nessuna base per escludere (come appunto prevede ora la legge) i parenti stretti o i bigami, ed è facile prevedere che se si crea un precedente concedendo agli omosessuali di sposarsi, queste e altre categorie di persone finiranno per rivendicare lo stesso diritto.
Non stiamo agitando uno spauracchio o lanciando provocazioni retoriche: certe strade imboccano facilmente una brutta china. In Italia, un deputato è arrivato a proporre una legge che estenda la possibilità di sposarsi anche tra più persone, senza restrizioni di numero e di genere, e persino tra specie diverse, purché consenzienti. Oppure si pensi al conflitto sollevato in Canada nel 2011 da un gruppo di mormoni, che obiettarono come, avendo la Corte Suprema cambiato la definizione di matrimonio e tolto il riferimento all’unione tra un uomo e una donna in una relazione monogamica, la stessa Corte avrebbe dovuto estendere ulteriormente il concetto di matrimonio alle relazioni poligame tra uomini e donne. La Corte si pronunciò a sfavore sostenendo che il matrimonio monogamo era stato «un valore fondamentale della società occidentale fin dai tempi più remoti». Eppure, quando nel 2003 la stessa Corte decise a favore del matrimonio omoses- suale, non trovò necessario definire «valore fondamentale della società occidentale fin dai tempi più remoti» la complementarità sessuale.
Appare chiaro dunque che limitare il matrimonio alla relazione monogama tra un uomo e una donna non è un gesto discriminatorio ma di buon senso, perché siamo di fronte agli elementi fondanti del matrimonio stesso. Motivo per cui, tra l’altro, non si parla di «diritto al matrimonio fra persone dello stesso sesso» in una carta internazionale come la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Per reinquadrare la questione bisogna dunque cambiarne i termini: non parlare di «uguaglianza dei diritti» ma del concetto di matrimonio, del suo fine e dei motivi per cui è sempre stato salvaguardato legalmente. Qui non si tratta dei diritti dei gay contro i diritti degli altri, ma dello scopo del matrimonio e delle ragioni per cui lo Stato è tenuto a distinguerlo e a promuoverlo tra altre forme di unione. Si tratta di spiegare che cosa rischia concretamente di succedere, quali cioè possano essere le conseguenze per i bambini e per la società in generale, quando lo Stato ne modifica il significato, rinne- gando il trattamento preferenziale che ha sempre riservato al matrimonio in quanto «coniugale». Ha spiegato l’omosessuale francese Jean-Pierre Delaume-Myard (tra i fondatori di Homovox e tra i promotori della Manif pour tous), chiarendo il senso del suo impegno in difesa della famiglia tradizionale e contro i matrimoni gay: «Se tra vent’anni incontrassi un ragazzo o una ragazza, figlio di una coppia dello stesso sesso, non voglio che mi rimproveri di averlo privato della possibilità di avere, come ogni bambino, un padre e una madre. [...]. Il mio desiderio di avere dei figli non deve avere come conseguenza la venuta al mondo di un bambino senza l’affetto materno».
Quando si riuscirà a far cogliere questo, sarà più chiaro perché vi siano spesso molti omosessuali, credenti e non, tra i maggiori oppositori al matrimonio fra persone dello stesso sesso.
Da “Come difendere la fede, senza alzare la voce” di Austen Ivereigh, Lindau 2014
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