A volte ritornano, direbbe Stephen King. Parliamo della schiera degli orgogliosi laici di Repubblica ossessionati dal cristianesimo. Pensiamo, ad esempio, alla coppia Augias-Flores D’arcais, autori di molteplici libri scandalistici intenti a convincere della falsità delle origini del cristianesimo, resuscitando le tesi degli oppositori pagani dei primi secoli.
In questi giorni è riemerso anche Eugenio Scalfari, un altro fanatico del laicismo che ha trascorso la sua vita a parlare di religione. In un articolo per l’Espresso ha elogiato l’ultimo libro dello scrittore e regista Emmanuel Carrère,Il Regno (Adelphi 2015), una rivisitazione romanzata delle origini del cristianesimo. Un altro non studioso, dunque, oltretutto distrutto dalla critica: Gesù viene paragonato a Che Guevara e sono talmente tante le sciocchezze scritte che perfino chi ha recensito il libro ha ammesso di aver «fatto un po’ fatica, a finirlo» (senza contare, tra un commento e l’altro sull’evangelista Giovanni, la descrizione dettagliata del suo video pornografico preferito). Luigi Walt, ricercatore a Ratisbona, ha sottolineato la «distanza di Carrère da un approccio realmente critico, e dunque storico, al problema delle origini cristiane». «Una specie di sufflé moscio e insipido» è stato definito da un altro recensore.
Quella di Paolo come il vero fondatore del cristianesimo è una tesi vecchissima, avanzata dagli anticristiani con il preciso scopo di convincere che il cristianesimo è una religione nata “a tavolino”, del tutto aliena alla predicazione di Gesù (la sosteneva anche Nietzsche e perfino Alfred Rosenberg, l’ideologo nazista di Hitler). Oggi è forse la convinzione più diffusa tra gli scettici appassionati del cristianesimo (nessuno studiosi vero, ovviamente), tanto che perfino Benedetto XVI ne ha parlato: «L’importanza che Paolo conferisce alla Tradizione viva della Chiesa, che trasmette alle sue comunità, dimostra quanto sia errata la visione di chi attribuisce a Paolo l’invenzione del cristianesimo: prima di evangelizzare Gesù Cristo, il suo Signore, egli l’ha incontrato sulla strada di Damasco e lo ha frequentato nella Chiesa, osservandone la vita nei Dodici e in coloro che lo hanno seguito per le strade della Galilea».
Il prof. Romano Penna, biblista e già ordinario di Origini Cristiane presso la Pontificia Università Lateranense, ha spiegato: «Il tema di Paolo come “secondo fondatore del cristianesimo” è piuttosto trito, anche se ha avuto una certa presa nel Novecento in ambito luterano. Si tratta di una concezione che però bypassa un elemento importante, cioè che tra Gesù e Paolo non c’è una continuità “gomito a gomito”. Paolo è “gomito a gomito” con la Chiesa di Gerusalemme e con le Chiese, al plurale, della Giudea. Lui stesso dice: “Io vi ho trasmesso quel che anche io ho ricevuto”. Quello che voglio dire è che c’è una fede delle origini che è assolutamente pre-paolina, la sua originalità ermeneutica elabora il dato della fede, che è anteriore a lui. Per questo quella contrapposizione non ha, alla fine, nessun senso. Si tratta di un giudizio affrettato, semplificatorio, superficiale». Il contributo innovativo di Paolo, in altre parole, è davvero minimo rispetto alle convinzioni dei primi discepoli. Lo stesso ha spiegato il già citato Luigi Walt, docente di Nuovo Testamento presso l’Università di Ratisbona: «La contrapposizione netta tra Gesù e Paolo, innanzitutto, risulta essere uno dei tanti miti dell’esegesi storica otto-novecentesca […], l’idea servì a slegare Paolo, inteso come simbolo di una Chiesa istituzionale, visibile, gerarchica, dall’eredità di un Gesù percepito come maestro inoffensivo (e frainteso) di morale. In breve, essa fu il risultato di un a priori ideologico, non di un’indagine storica rigorosa. Paolo non agì come un outsider, non piombò dal nulla in mezzo ai primi seguaci di Gesù, né le sue posizioni possono essere valutate come del tutto originali e solitarie». Esistono infatti «altri documenti del cristianesimo nascente, in maniera del tutto indipendente dall’apostolo, sembrano condividerne alcune linee ideali. L’importanza di Paolo, in altri termini, non va esagerata, nel suo immediato contesto di azione. Si faceva allusione, tempo addietro, alla necessità di considerare gli elementi pre-paolini in Paolo: ebbene, un’indagine in tal senso toglie immediatamente la terra sotto i piedi a chiunque voglia attribuire all’apostolo il ruolo di “autentico fondatore” del cristianesimo».
Molto simile il giudizio di Giorgio Jossa, professore di Storia del Cristianesimo e Storia della Chiesa Antica presso l’Università degli Studi di Napoli e la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale: «affermazioni relative alla persona di Gesù, che una volta venivano attribuite a Paolo sulla base di una sua provenienza dalla diaspora greca, possono essere già sorte prima di lui, non soltanto nella comunità di Antiochia ma anche in quella di Gerusalemme, e nella stessa componente aramaica di questa comunità. […] Paolo si colloca allora non all’inizio, ma al termine di uno sviluppo teologico che è stato in realtà incredibilmente rapido» (G. Jossa, Il cristianesimo ha tradito Gesù?, Carocci 2008, p. 115). Rainer Riesner, professore emerito di Nuovo Testamento presso l’Università Dortmund, ha anch’egli fatto notare che gli insegnamenti di Paolo «non erano frutto del suo pensiero, bensì della tradizione», della «comunità originaria che si era raccolta intorno all’apostolo Pietro a Gerusalemme». Si potrebbe andare avanti per giorni citando il pensiero degli studiosi (quelli veri, non i giornalisti di Repubblica) che hanno risposto alla tesi ottocentesca che vede Paolo il “vero” fondatore del cristianesimo. Molto chiaro, lo citiamo per ultimo, il giudizio di Heinrich Schlier, importante biblista che partecipò alla stesura della traduzione ufficiale della Bibbia: «cinque anni dopo la morte di Gesù esisteva in Siria una formulazione, già relativamente fissata e tramandata in greco, dei fatti di salvezza della morte e resurrezione di Gesù: ed è proprio quella che Paolo riprende»nella sua prima lettera, quella ai Corinzi. «Essa è alla base di ogni lettera paolina e di ogni fonte evangelica scritta» (H. Schlier, Il tempo della Chiesa. Saggi esegetici EDB 1981, p. 345-346).
Eugenio Scalfari descrive inoltre Paolo come vero leader della Chiesa primitiva in opposizione a Pietro (ammette che, comunque, quest’ultimo è ritenuto dai discepoli l’autorità principale della chiesa primitiva): sarebbe stato Paolo a convincere i primi cristiani a diffondere il cristianesimo tra i pagani. Eppure negli Atti degli Apostoli, basati su tradizioni che circolavano negli anni 50 e anni 30 dunque a ridosso della morte di Gesù, si legge che è Pietro che, inspirato dallo Spirito Santo, decide di aprire la missione anche verso i pagani, incontrandoli e battezzandoli per primo dopo aver detto: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga» (At 10,34). Come ha spiegato il prof. Fabrizio Fabbrini, ordinario di Storia romana all’Università di Siena e di Storia del cristianesimo alla Pontificia Università: «Credo che si commetta un errore quando, parlando dei primi decenni del cristianesimo, si contrappone una linea “petrina” a una “paolina” quale differenziazione tra una Chiesa giudaica e una Chiesa aperta ai Gentili. L’impostazione teologica di Pietro (si vedano le sue bellissime Lettere) è caratterizzata dallo stesso universalismo di Paolo, la sua azione missionaria è altrettanto intensa ed ampia. Ed è Pietro che per primo si apre alla predicazione verso i Gentili (= pagani), dato che la conversione del centurione Cornelio è precedente a tutta l’azione paolina; e si legga negli Atti degli apostoli (At 11,1-18) la difesa che Pietro fa a Gerusalemme, dinanzi agli apostoli scandalizzati, della necessità della conversione dei pagani. È questa la prima teologia del “cristianesimo delle genti”, quella esposta da Pietro, il capo della Chiesa universale: il quale può dunque chiamarsi, esattamente come Paolo, “Apostolo delle genti”».
Infine, rispondendo alla convinzione di Scalfari che Pietro concepiva la comunità cristiana come una setta dell’ebraismo, basterebbe leggere le sue parole riportate negli Atti degli Apostoli per trovare moltissimi “voi” e “noi” quando si rivolge agli ebrei, concependo chiaramente una differenziazione. Senza considerare che la base di ciò che predicava -Dio incarnatosi in uomo, crocifisso e risorto-, era assolutamente inconcepibile per l’ebraismo. I discepoli di Cristo erano in gran parte ebrei che riconobbero in Gesù il Messia annunciato da sempre nell’Antico Testamento, inevitabilmente si produsse una divisione rispetto agli ebrei che non lo riconobbero. Per questo, ha spiegato Eric Noffke, presidente della Società Biblica in Italia, «a cominciare dal Nazareno fino ad arrivare agli apostoli e ai loro discepoli, la nuova fede in Gesù è andata gradualmente costruendosi come una religione completamente nuova rispetto al giudaismo». Lo stesso Gesù, infatti, «aveva radicalizzato vari aspetti della fede ebraica, soprattutto l’attesa del Regno di Dio, predicato come una realtà in lui presente e operante […]. Gesù fu maestro, ma fu anche riconosciuto come il Messia atteso, nonostante che la sua predicazione e la sua morte in croce dovessero essere spiegate sovente contro la tradizione messianica mediogiudaica. Paolo, dunque, lungi dal tradire il Gesù profeta del Regno, fu di lui un discepolo fedele e un predicatore instancabile di quanto Dio aveva operato per suo tramite» (E. Noffke, Protestantesimo n.67, Claudiana Editrice 2012, pp. 125-141).
Essendo una tesi ancora molto diffusa, abbiamo sentito il bisogno di una risposta così esaustiva, al di là che sia stata formulata da Eugenio Scalfari. Il quale avrebbe dovuto essersi già accorto da tempo di non avere la competenza né la capacità necessaria per occuparsi di queste cose.
La redazione
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