Walter Kasper
Da: Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo - Chiave della vita cristiana, Queriniana 2013, pp. 268-303
Grandezza e limiti del moderno stato sociale
Gesù Cristo ha mandato i suoi discepoli e la chiesa nel mondo. La chiesa non può perciò limitarsi, con il suo messaggio della misericordia, al campo personale individuale e alla sfera intraecclesiale; non può, per così dire, ritirarsi in sacrestia, ma deve essere lievito, sale e luce del mondo (cf. Mt 5,13s.; 13,33) e impegnarsi per la vita del mondo. Essa non possiede però alcuna competenza specifica per le questioni tecniche di politica economica e sociale. Le questioni dell'ordinamento economico e sociale posseggono infatti una legittima e oggettivamente fondata autonomia; competenti in esse non sono i teologi, ma in primo luogo dei laici specificamente preparati [1].
Sarebbe naturalmente sbagliato pensare che, nel caso dell'ordinamento economico e sociale, si tratti solo di questioni oggettive tecniche; si tratta di persone, dell'organizzazione e della cultura di una vita umana, di una convivenza umana e, in molti casi, di sopravvivenza umana. Il pane per vivere è vitalmente necessario, ma l'uomo non vive di solo pane. L'uomo è qualcosa di più di quello che mangia. Egli ha bisogno di calore umano e dipende dal fatto che gli altri si comportino almeno con un po' di misericordia con lui. L'attuale predominante economicizzazione del sociale significa perciò un'amputazione e una riduzione dell'uomo. Quando ciò avviene, una società perde la sua anima e si riduce a un sistema senz'anima.
L'attuale crisi economica e finanziaria è perciò, in ultima analisi, una crisi antropologica e spirituale. Ci si preoccupa dei prezzi e ci si domanda quale sia il prezzo più conveniente, ma ci si dimentica di chiedere che cosa sia prezioso per l'uomo e per la società umana. Per impedire che questa domanda su ciò che è umanamente prezioso e degno di essere vissuto sia dimenticata, la chiesa deve inserirsi e interloquire nelle questioni economiche e sociali fondamentali, non a proprio vantaggio e a proprio interesse, ma nell'interesse degli uomini e dell'umanità della società [2].Sarebbe naturalmente sbagliato pensare che, nel caso dell'ordinamento economico e sociale, si tratti solo di questioni oggettive tecniche; si tratta di persone, dell'organizzazione e della cultura di una vita umana, di una convivenza umana e, in molti casi, di sopravvivenza umana. Il pane per vivere è vitalmente necessario, ma l'uomo non vive di solo pane. L'uomo è qualcosa di più di quello che mangia. Egli ha bisogno di calore umano e dipende dal fatto che gli altri si comportino almeno con un po' di misericordia con lui. L'attuale predominante economicizzazione del sociale significa perciò un'amputazione e una riduzione dell'uomo. Quando ciò avviene, una società perde la sua anima e si riduce a un sistema senz'anima.
D'importanza fondamentale per un giusto ordinamento sociale è la questione della giustizia. Questa consiste, secondo la classica definizione di Cicerone, nel dare a ciascuno il suo (unicuique suum) [3]. Già Agostino aveva messo in risalto l'importanza fondamentale della giustizia per la vita dello stato: «Bandita la giustizia, che altro sono i regni se non grandi associazioni di delinquenti? E le bande di delinquenti che altro sono se non piccoli regni? Si ha infatti un'associazione di uomini quando un capo comanda, è stato accettato un patto sociale, e la divisione del bottino è regolata da certe convenzioni» [4].
Mentre a proposito dell'importanza della giustizia per il giusto ordinamento della società esiste in linea di principio un largo consenso, molti muovono invece delle obiezioni per quanto riguarda l'importanza della misericordia. Essi obiettano: la misericordia è senza dubbio una virtù cristiana fondamentale, ma non ha sostanzialmente niente a che fare con la società civile. Si presuppone tacitamente che la misericordia allenti l'impegno in favore della giustizia e serva a riempire con le elemosine i buchi della rete sociale, senza organizzare in modo più giusto il sistema; attraverso aiuti spontanei puntuali la misericordia maschererebbe le ingiustizie del sistema sociale invece di cambiarlo radicalmente [5]. Questa critica non fu risparmiata nemmeno a Madre Teresa di Calcutta e al suo impegno esemplare in favore dei più poveri tra i poveri.
A una critica del genere pervenne, da una prospettiva completamente diversa, Adam Smith, il padre della teoria liberale nel campo dell'economia. Per risolvere i problemi sociali del suo tempo neppure lui volle far leva sull'amore del prossimo e su una compassione misericordiosa, ma fece ricorso al proprio interesse e alla voglia di guadagnare dell'uomo. Egli non costruì sull'altruismo, ma sull'egoismo, e confidò nel fatto che la «mano invisibile» del mercato avrebbe dato vita a un ordinamento sociale [6]. Questa fu – come mostra la miseria sociale del primo capitalismo – un'ipotesi abbastanza ingenua.
Karl Marx rovesciò su quest'armonia prestabilita tutto il proprio sarcasmo. In effetti lo spietato capitalismo originario del XIX secolo non sfociò in un ordine sociale, ma in un'indescrivibile miseria dei lavoratori nel campo dell'industria. Mentre le ipotesi ottimistiche di Adam Smith partivano da una immagine puramente individualistica, anzi egoistica dell'uomo, Marx e il marxismo partirono da un'immagine collettivistica parimenti unilaterale dell'uomo, che misconobbe la dignità inalienabile di ogni singolo essere umano, la mise nella prassi sotto i piedi e la disprezzò senza alcun riguardo. La compassione e la misericordia rimasero per strada.
Tanto il liberalismo quanto il marxismo partono, muovendo da punti di vista diversi, da un'immagine unilaterale e sbagliata dell'uomo. Con l'idea del moderno stato sociale ebbe inizio nel secolo XIX, in mezzo all'impoverimento delle masse provocato dallo sviluppo industriale, un movimento di segno opposto e di tutt'altra natura. A differenza della cura dei poveri, come quella che si era sviluppata nella chiesa già fin dai primi secoli, lo stato sociale moderno non cerca solo di soccorrere e alleviare la povertà e la miseria nel singolo caso, ma cerca di eliminare la povertà collettiva, che concepisce come un male sociale [7]. Si riconobbe una cosa: il compito di stabilire il diritto e la giustizia per ognuno e un giusto ordinamento per tutta la società non può essere svolto soltanto su base individuale, ma ha bisogno di una politica e di un ordinamento statale. L'idea fondamentale dell'economia sociale di mercato dice perciò che lo stato stabilisce un ordinamento quadro, all'interno del quale è poi possibile una libera economia di mercato [8]. Le condizioni quadro devono dare a ogni persona la possibilità di organizzare autonomamente la propria vita in un modo umanamente degno e di partecipare allo sviluppo sociale; inoltre esse devono attenuare i rischi della vita (vecchiaia, malattia, disoccupazione, incidenti) e rappresentano pertanto una specie di solidarietà istituzionalizzata.
Quest'idea dell'economia sociale di mercato ha dato buoni frutti. Essa corrisponde, in linea di principio, a regole dell'ordinamento della vita sociale che si trovano già nella Bibbia, come la dignità di ogni singolo, il compito di lavorare e di plasmare il mondo, il diritto e la tutela della proprietà privata e i doveri sociali che essa impone [9]. Perciò tale idea rappresenta un progresso in fatto di umanità, progresso che dobbiamo salvaguardare e sviluppare ulteriormente, in corrispondenza alle mutevoli situazioni, anche dal punto di vista cristiano.
È tuttavia chiaro che la moderna idea dello stato sociale urta nel frattempo, per vari motivi e sotto diversi aspetti, contro dei limiti e che perciò va ulteriormente sviluppata [10]. Per il finanziamento del sistema dell'assistenza pubblica non possiamo più partire come prima con sicurezza da tassi economici di crescita in continua ascesa; a motivo del cambiamento demografico e della durata mediamente più lunga della vita il rapporto numerico tra la parte produttiva della popolazione e quella sostentata da tale parte produttiva è notevolmente cambiato. Lo sviluppo tecnologico, che con le macchine e con l'elettronica facilita adesso molto il precedente lavoro manuale, può costare posti di lavoro e produrre disoccupazione, che, nel caso dei giovani e se di lunga durata, rappresenta un problema non solo materiale, ma umano complessivo, perché incrina il sentimento del proprio valore e può diventare una miscela sociale esplosiva.
Il problema vero e proprio scaturisce dagli attuali processi economici e finanziari di globalizzazione. Essi portano a far sì che le economie nazionali possano agire sempre meno in modo autonomo e finiscano in dipendenze globali. I tempi dello stato nazionale dell'assistenza sociale stanno per finire di fronte alla globalizzazione economica [11]. Poiché non ci sono o ci sono sistemi direttivi globali solo molto deboli rispetto a quelli di uno stato, i pesi si spostano a favore del gioco libero spesso scatenato dei mercati, concretamente a favore del capitale, per il quale contano non i valori umani e ciò che è umanamente degno, ma solo i dati economici, e perciò soprattutto i guadagni e le rendite. Il destino individuale di molte persone e anche il destino di interi popoli possono così essere messi in discussione. La grande maggioranza degli uomini è più o meno impotentemente esposta a questi sconvolgimenti e alle crisi esistenziali in tal modo condizionate.
A ciò si aggiunge il fatto che si allarga la forbice tra i paesi ricchi del Nord e i paesi poveri del Sud, tra le zone benestanti (pure al Sud), dove singoli vivono nel superfluo, e zone misere, dove molti uomini, soprattutto bambini, muoiono di fame. La suddivisione estremamente ingiusta dei beni nel mondo conduce a una massiccia pressione migratoria, che mette a dura prova il sistema economico e sociale dei paesi economicamente e socialmente sviluppati e che può, in aggiunta, metterlo anche in crisi. Tutti i tentativi di superare questa situazione estremamente ingiusta e di arrivare a un ordinamento economico mondiale in qualche modo giusto hanno finora fatto pochi passi in avanti. Ciò di cui avremmo bisogno è un'economia globale di mercato, che però presuppone una global governance [12], cosa realisticamente raggiungibile tutt'al più in forma di accordi intergovernativi, a loro volta purtroppo altrettanto difficili da realizzare.
Dall'altro lato il comportamento e le pretese in fatto di consumo, e quindi le pretese nei confronti del sistema sociale, sono cresciute nei decenni passati in una misura tale che in molti casi non hanno più potuto essere soddisfatte dal sistema economico e dalle entrate fiscali. Abbiamo perso la giusta misura, abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità e abbiamo fatto così perdere l'equilibrio al sistema sociale. Gli stati hanno dovuto contrarre dei debiti, cosa che ha portato a un loro indebitamento eccessivo e all'attuale crisi finanziaria. Perciò esiste una nuova povertà, non solo di singoli, ma anche di stati e di comuni, che non sono più in grado di finanziarsi e di fornire le necessarie prestazioni sociali. La crisi dell'indebitamento può mettere in pericolo tutto il sistema economico e sociale. In molti casi essa ha costretto a tagliare le prestazioni sociali, e la demolizione e ricostruzione dello stato sociale possono provocare nuovi problemi sociali. Inoltre l'indebitamento eccessivo sfocia in un carico fiscale che l'odierna generazione non può o non vuole sopportare e che finisce per ricadere sulle generazioni future. E così si pone il problema della giustizia generazionale.
Ciò ha comprensibilmente provocato paure e timori in molti cittadini. Essi vedono che di fronte alla globalizzazione e alle tendenze neocapitalistiche qui affioranti, in cui dei singoli si arricchiscono spesso con un'avidità sfacciata a spese di molti altri, l'idea dello stato sociale è ancora posta di fronte a nuovi compiti. In questa situazione pure la dottrina sociale della chiesa deve rispondere a nuovi interrogativi. La domanda è: Che cosa possono fare i cristiani in questa situazione per la comunità sociale e misericordiosa? Come può e come deve essere ulteriormente sviluppata la dottrina sociale cristiana? In questa situazione la misericordia cristiana può di nuovo acquistare un'importanza che vada al di là della giustizia sempre fondamentale?
Ulteriore sviluppo della dottrina sociale cristiana
Di fronte ai problemi sociali e alle gravi ingiustizie provocate nel XIX secolo dalla rivoluzione industriale, la chiesa cattolica ha sviluppato una sua dottrina sociale. A questo scopo essa poté richiamarsi alla dottrina della giustizia, che nella scia di Aristotele era stata elaborata soprattutto da Tommaso d'Aquino. Dopo precursori e antesignani come il vescovo Wilhelm Emmanuel von Ketteler di Magonza, i papi si sono posti, a partire dall'enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891), alla testa di questo movimento sociale ecclesiale cattolico. Essi hanno stigmatizzato l'ingiustizia sociale e hanno favorito lo sviluppo del moderno stato sociale [13].
Punto di partenza e fondamento della dottrina sociale della chiesa è l'immagine cristiana dell'uomo, concretamente l'incondizionata dignità di ogni singolo e di tutti gli uomini, dignità loro conferita non dalla società, ma dal Creatore e perciò sovrana e inalienabile. Essa, dal momento che è conferita comunitariamente a tutti gli uomini, include la solidarietà di tutti gli uomini. Dalla dignità di ogni persona scaturisce la pretesa di poter condurre una vita umanamente degna e di potere liberamente autodeterminarsi ín solidarietà con tutti gli altri uomini. Perciò possiamo anche dire che la libertà di ogni singolo e la comune libertà di tutti è il principio della costruzione della dottrina sociale cattolica. La risorsa più importante non è la proprietà terriera o il capitale, ma l'uomo con la sua capacità conoscitiva, la sua iniziativa e il suo lavoro creativo.
Partendo dai due punti di vista della libertà come inserimento e responsabilità sociale dell'uomo la chiesa ha favorito lo sviluppo del moderno stato sociale. Punto di partenza e fondamento della dottrina sociale della chiesa è l'immagine cristiana dell'uomo, in concreto la dignità inalienabile specifica di ogni singolo e di tutti gli uomini insieme, che non ci è conferita dalla società, ma dal Creatore. In tal modo essa si distinse sia dal capitalismo liberale sia dal comunismo, che tendeva a socializzare tutto, sia anche dal socialismo ideologico. Secondo la dottrina sociale della chiesa responsabile nei propri confronti è anzitutto il singolo; ciascuno deve però anche avere la possibilità reale di assumersi questa responsabilità nei propri confronti.
Con questi principi la chiesa non può e non vuole dedurre dal vangelo, per esempio dal discorso della montagna, un programma sociale concreto o una specie di politica cristiana. Il concilio Vaticano II ha sconfessato un simile integralismo, che è una specie di totalitarismo cristiano", così come ha sconfessato l'idea di uno stato cattolico, e ha sostenuto la legittima autonomia della politica e di tutti gli altri settori culturali civili". La dottrina sociale della chiesa non è un sistema astratto bell'e pronto e deduttivo, ma cerca piuttosto di riflettere sulle mutevoli situazioni sociali umane alla luce dei principi antropologici cristiani. In questo modo essa ha cercato, sulla base della sua concezione dell'uomo, di dare delle risposte alle sfide della situazione odierna, nata dalla industrializzazione.
Poiché nell'economia si tratta in ultima analisi dell'uomo, la legittima autonomia non significa una neutralità etica della politica e dell'economia. Lo stato non può decidere in base a punti di vista del potere e del mantenimento del potere, del successo o dell'utilità economica, ma deve orientarsi in base alla dignità dell'uomo, ai diritti umani fondamentali, al diritto, alla giustizia, al bene comune e alla pace interna ed esterna, e deve mettere in piedi un corrispondente giusto ordinamento giuridico, all'interno del quale la libera concorrenza è possibile e, per amore della libertà e del bene comune, anche necessariai6.
E qui un'importanza sempre maggiore riveste la giustizia generazionale. La generazione attuale non deve caricare le future generazioni di debiti pubblici, che essa non è disposta o non è in grado di saldare. Inoltre, attraverso la conservazione della creazione dobbiamo anche fare in modo di lasciare alle future generazioni, con un comportamento responsabile verso la natura e le sue risorse, un ambiente naturale umanamente degno di essere vissuto. Una simile giustizia verso la creazione affonda, in ultima analisi, le proprie radici nel rispetto per la creazione basato sulla fede cristiana nella creazione; i beni di questa sono affidati all'uomo, e precisamente a tutti gli uomini, affinché ne facciano uso, ma anche affinché li conservino.
Partendo dalla dignità di ogni singola persona umana e dal suo inserimento nella società, la dottrina sociale della chiesa dei papi ha giustamente messo in risalto, a partire da Leone XIII, l'esigenza della giustizia mediante i due principi complementari della sussidiarietà e della solidarietà.
La sussidiarietà prende seriamente la dignità e la responsabilità individuale della persona. L'aiuto sociale deve perciò essere tale da aiutare ad aiutarsi da soli. Esso non deve affossare e demotivare la responsabilità e la prestazione individuale, ma darle una possibilità. L'ideale non è perciò un sistema sociale burocratico che regola tutto. Il principio della sussidiarietà dice che le unità più piccole, a partire anzitutto dalla famiglia, poi le unità un po' più grandi come i comuni e le associazioni naturali o libere, devono fare e anche poter fare tutto ciò che sono in grado di fare con le loro forze. Le unità più grandi, come lo stato, devono intervenire per sostenere e regolare solo se l'unità più piccola non può più aiutarsi da sola e se tale compito è troppo gravoso per essa. L'intervento dello stato non deve consistere nel voler prendere tutto nelle proprie mani e regolare tutto centralisticamente, nel dirigere burocraticamente i singoli, l'impegno individuale e associativo spontaneo e le unità più piccole, ma deve consistere nel sostenerli e nell'appoggiarli in modo che essi siano in grado di agire sotto la propria responsabilità.
La solidarietà prende sul serio il fatto che l'uomo è un essere sociale. Essa è però anzitutto un atteggiamento e un comportamento da persona a persona; comincia a manifestarsi con chi è di volta in volta più vicino, nella famiglia, nel vicinato, nella cerchia degli amici e dei conoscenti. Il principio della vicinanza sociale significa perciò nello stesso tempo calore sociale. Inoltre la solidarietà deve caratterizzare tutta la realtà sociale nel suo insieme e sfociare in un ordinamento sociale complessivo giusto e in una solidarietà istituzionalizzata, che provvede a far sì che tutti possano partecipare in misura adeguata al benessere comune procurato con il lavoro di tutti.
Purtroppo il principio della sussidiarietà e quello della solidarietà sono stati in larga misura svuotati per quel che riguarda i rapporti col vicinato e sono stati sostituiti da un sistema burocratico centralistico che, anziché aiutare ad aiutarsi da soli, rende dipendenti e non favorisce così né la libertà né
le unità sociali naturali. Qui, in una situazione in cui i sistemi sociali urtano conto i limiti della loro capacità operativa, potrebbe essere di aiuto tornare a riflettere sulle basi della dottrina sociale della chiesa. E in merito anche l'idea cristiana della misericordia potrebbe ridiventare importante, non come alternativa, ma, nella sua cornice, come suo completamento.
In effetti le encicliche sociali dei papi, pur continuando a ribadire l'esigenza della giustizia, non si sono limitate a questo. Esse hanno di continuo ricordato che ci vogliono gli occhi dell'amore e della misericordia, per poter riconoscere tempestivamente i bisogni e le sfide sociali, e che solo l'amore imprime la spinta necessaria per affrontare efficacemente la situazione di bisogno riconosciuta e superarla'''. Inoltre, papa Giovanni Paolo II, che si è impegnato con tutte le proprie forze per i diritti umani e per la giustizia, ha riconosciuto: «L'esperienza del passato e del nostro tempo dimostra che la giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all'annientamento di se stessa, se non si consente a quella forza più profonda, che è l'amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni. È stata appunto l'esperienza storica che, fra l'altro, ha portato a formulare l'asserzione "summum ius, summa iniuria – sommo diritto, somma ingiustizia"»'8. Egli ha ripreso perciò l'idea di una «civiltà dell'amore», formulata per la prima volta da papa Paolo VI, che è poi stata fatta propria anche da papa Benedetto XVI [19].
Benedetto XVI, già nella sua prima enciclica Deus caritas est (2005), ha fatto un deciso passo in avanti, la cui importanza fondamentale è stata finora poco presa in considerazione. Egli non ha fatto della giustizia, ma dell'amore, il punto di partenza sistematico di una dottrina sociale [20]. Nella sua terza enciclica, Caritas in veritate (2009), dedicata esplicitamente alla dottrina sociale, egli ha detto espressamente che l'amore è la via maestra e il principio della dottrina sociale della chiesa [21]. L'amore è per lui il principio normativo non solo nelle microrelazioni dell'amicizia, della famiglia e dei piccoli gruppi, ma anche nelle macrorelazioni, cioè nelle associazioni sociali, economiche e politiche. In tal modo egli ha introdotto nella dottrina sociale della chiesa un'idea importante, che le farà fare dei passi in avanti.
Ovviamente il termine amore non va scambiato per un semplice sentimento, non è sinonimo di sentimentalismo. Esso è profondamente ancorato nell'essenza donata da Dio all'uomo e ha quindi una dimensione ontologica. Infatti, secondo la convinzione cristiana la vita non è il prodotto di un puro caso, ma un dono. Siamo stati creati per amore e per l'amore. Poiché la vita ha il carattere di un dono, noi viviamo del dono di una libera e immeritata dedizione di altri esseri umani. Così dicendo non intendiamo parlare solo di grandi dedizioni, ma anche dei molti piccoli segni di apprezzamento, di cui fanno parte anche il fatto di dedicare un po' di tempo e la comprensione.
L'amore come principio della giustizia sociale non sostituisce ovviamente la giustizia; al contrario, la giustizia è la misura minima di amore, mentre l'amore ne è la sovrabbondanza. L'amore non rimane indietro rispetto alla giustizia, ma si spinge al di là della giustizia dovuta all'altro. Esso non è perciò una specie di aggiunta o di appendice della giustizia. L'altro infatti dipende come persona non solo da beni materiali terreni, ma anche dal dono dell'amore. Perciò l'amore, che si spinge disinteressatamente al di là del giuridicamente dovuto, è la forma di giustizia adeguata alla persona dell'altro. Benedetto XVI parla in questo contesto della «logica del dono» [22].
In questo modo il papa riprende la critica postmoderna alla pura giustizia commutativa e fa sostanzialmente riferimento alle idee fondamentali di Paul Ricoeur e di Jean-Luc Marion [23]. Ciò mostra che l'enciclica Caritas in veritate è, con il suo ulteriore sviluppo della dottrina sociale della chiesa, perfettamente all'altezza della riflessione odierna. La questione che essa così solleva è di sapere dove una simile riflessione di fondo praticamente ci conduce. E di tale questione dobbiamo adesso occuparci.
Punto di partenza e fondamento della dottrina sociale della chiesa è l'immagine cristiana dell'uomo, concretamente l'incondizionata dignità di ogni singolo e di tutti gli uomini, dignità loro conferita non dalla società, ma dal Creatore e perciò sovrana e inalienabile. Essa, dal momento che è conferita comunitariamente a tutti gli uomini, include la solidarietà di tutti gli uomini. Dalla dignità di ogni persona scaturisce la pretesa di poter condurre una vita umanamente degna e di potere liberamente autodeterminarsi ín solidarietà con tutti gli altri uomini. Perciò possiamo anche dire che la libertà di ogni singolo e la comune libertà di tutti è il principio della costruzione della dottrina sociale cattolica. La risorsa più importante non è la proprietà terriera o il capitale, ma l'uomo con la sua capacità conoscitiva, la sua iniziativa e il suo lavoro creativo.
Partendo dai due punti di vista della libertà come inserimento e responsabilità sociale dell'uomo la chiesa ha favorito lo sviluppo del moderno stato sociale. Punto di partenza e fondamento della dottrina sociale della chiesa è l'immagine cristiana dell'uomo, in concreto la dignità inalienabile specifica di ogni singolo e di tutti gli uomini insieme, che non ci è conferita dalla società, ma dal Creatore. In tal modo essa si distinse sia dal capitalismo liberale sia dal comunismo, che tendeva a socializzare tutto, sia anche dal socialismo ideologico. Secondo la dottrina sociale della chiesa responsabile nei propri confronti è anzitutto il singolo; ciascuno deve però anche avere la possibilità reale di assumersi questa responsabilità nei propri confronti.
Con questi principi la chiesa non può e non vuole dedurre dal vangelo, per esempio dal discorso della montagna, un programma sociale concreto o una specie di politica cristiana. Il concilio Vaticano II ha sconfessato un simile integralismo, che è una specie di totalitarismo cristiano", così come ha sconfessato l'idea di uno stato cattolico, e ha sostenuto la legittima autonomia della politica e di tutti gli altri settori culturali civili". La dottrina sociale della chiesa non è un sistema astratto bell'e pronto e deduttivo, ma cerca piuttosto di riflettere sulle mutevoli situazioni sociali umane alla luce dei principi antropologici cristiani. In questo modo essa ha cercato, sulla base della sua concezione dell'uomo, di dare delle risposte alle sfide della situazione odierna, nata dalla industrializzazione.
Poiché nell'economia si tratta in ultima analisi dell'uomo, la legittima autonomia non significa una neutralità etica della politica e dell'economia. Lo stato non può decidere in base a punti di vista del potere e del mantenimento del potere, del successo o dell'utilità economica, ma deve orientarsi in base alla dignità dell'uomo, ai diritti umani fondamentali, al diritto, alla giustizia, al bene comune e alla pace interna ed esterna, e deve mettere in piedi un corrispondente giusto ordinamento giuridico, all'interno del quale la libera concorrenza è possibile e, per amore della libertà e del bene comune, anche necessariai6.
E qui un'importanza sempre maggiore riveste la giustizia generazionale. La generazione attuale non deve caricare le future generazioni di debiti pubblici, che essa non è disposta o non è in grado di saldare. Inoltre, attraverso la conservazione della creazione dobbiamo anche fare in modo di lasciare alle future generazioni, con un comportamento responsabile verso la natura e le sue risorse, un ambiente naturale umanamente degno di essere vissuto. Una simile giustizia verso la creazione affonda, in ultima analisi, le proprie radici nel rispetto per la creazione basato sulla fede cristiana nella creazione; i beni di questa sono affidati all'uomo, e precisamente a tutti gli uomini, affinché ne facciano uso, ma anche affinché li conservino.
Partendo dalla dignità di ogni singola persona umana e dal suo inserimento nella società, la dottrina sociale della chiesa dei papi ha giustamente messo in risalto, a partire da Leone XIII, l'esigenza della giustizia mediante i due principi complementari della sussidiarietà e della solidarietà.
La sussidiarietà prende seriamente la dignità e la responsabilità individuale della persona. L'aiuto sociale deve perciò essere tale da aiutare ad aiutarsi da soli. Esso non deve affossare e demotivare la responsabilità e la prestazione individuale, ma darle una possibilità. L'ideale non è perciò un sistema sociale burocratico che regola tutto. Il principio della sussidiarietà dice che le unità più piccole, a partire anzitutto dalla famiglia, poi le unità un po' più grandi come i comuni e le associazioni naturali o libere, devono fare e anche poter fare tutto ciò che sono in grado di fare con le loro forze. Le unità più grandi, come lo stato, devono intervenire per sostenere e regolare solo se l'unità più piccola non può più aiutarsi da sola e se tale compito è troppo gravoso per essa. L'intervento dello stato non deve consistere nel voler prendere tutto nelle proprie mani e regolare tutto centralisticamente, nel dirigere burocraticamente i singoli, l'impegno individuale e associativo spontaneo e le unità più piccole, ma deve consistere nel sostenerli e nell'appoggiarli in modo che essi siano in grado di agire sotto la propria responsabilità.
La solidarietà prende sul serio il fatto che l'uomo è un essere sociale. Essa è però anzitutto un atteggiamento e un comportamento da persona a persona; comincia a manifestarsi con chi è di volta in volta più vicino, nella famiglia, nel vicinato, nella cerchia degli amici e dei conoscenti. Il principio della vicinanza sociale significa perciò nello stesso tempo calore sociale. Inoltre la solidarietà deve caratterizzare tutta la realtà sociale nel suo insieme e sfociare in un ordinamento sociale complessivo giusto e in una solidarietà istituzionalizzata, che provvede a far sì che tutti possano partecipare in misura adeguata al benessere comune procurato con il lavoro di tutti.
Purtroppo il principio della sussidiarietà e quello della solidarietà sono stati in larga misura svuotati per quel che riguarda i rapporti col vicinato e sono stati sostituiti da un sistema burocratico centralistico che, anziché aiutare ad aiutarsi da soli, rende dipendenti e non favorisce così né la libertà né
le unità sociali naturali. Qui, in una situazione in cui i sistemi sociali urtano conto i limiti della loro capacità operativa, potrebbe essere di aiuto tornare a riflettere sulle basi della dottrina sociale della chiesa. E in merito anche l'idea cristiana della misericordia potrebbe ridiventare importante, non come alternativa, ma, nella sua cornice, come suo completamento.
In effetti le encicliche sociali dei papi, pur continuando a ribadire l'esigenza della giustizia, non si sono limitate a questo. Esse hanno di continuo ricordato che ci vogliono gli occhi dell'amore e della misericordia, per poter riconoscere tempestivamente i bisogni e le sfide sociali, e che solo l'amore imprime la spinta necessaria per affrontare efficacemente la situazione di bisogno riconosciuta e superarla'''. Inoltre, papa Giovanni Paolo II, che si è impegnato con tutte le proprie forze per i diritti umani e per la giustizia, ha riconosciuto: «L'esperienza del passato e del nostro tempo dimostra che la giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all'annientamento di se stessa, se non si consente a quella forza più profonda, che è l'amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni. È stata appunto l'esperienza storica che, fra l'altro, ha portato a formulare l'asserzione "summum ius, summa iniuria – sommo diritto, somma ingiustizia"»'8. Egli ha ripreso perciò l'idea di una «civiltà dell'amore», formulata per la prima volta da papa Paolo VI, che è poi stata fatta propria anche da papa Benedetto XVI [19].
Benedetto XVI, già nella sua prima enciclica Deus caritas est (2005), ha fatto un deciso passo in avanti, la cui importanza fondamentale è stata finora poco presa in considerazione. Egli non ha fatto della giustizia, ma dell'amore, il punto di partenza sistematico di una dottrina sociale [20]. Nella sua terza enciclica, Caritas in veritate (2009), dedicata esplicitamente alla dottrina sociale, egli ha detto espressamente che l'amore è la via maestra e il principio della dottrina sociale della chiesa [21]. L'amore è per lui il principio normativo non solo nelle microrelazioni dell'amicizia, della famiglia e dei piccoli gruppi, ma anche nelle macrorelazioni, cioè nelle associazioni sociali, economiche e politiche. In tal modo egli ha introdotto nella dottrina sociale della chiesa un'idea importante, che le farà fare dei passi in avanti.
Ovviamente il termine amore non va scambiato per un semplice sentimento, non è sinonimo di sentimentalismo. Esso è profondamente ancorato nell'essenza donata da Dio all'uomo e ha quindi una dimensione ontologica. Infatti, secondo la convinzione cristiana la vita non è il prodotto di un puro caso, ma un dono. Siamo stati creati per amore e per l'amore. Poiché la vita ha il carattere di un dono, noi viviamo del dono di una libera e immeritata dedizione di altri esseri umani. Così dicendo non intendiamo parlare solo di grandi dedizioni, ma anche dei molti piccoli segni di apprezzamento, di cui fanno parte anche il fatto di dedicare un po' di tempo e la comprensione.
L'amore come principio della giustizia sociale non sostituisce ovviamente la giustizia; al contrario, la giustizia è la misura minima di amore, mentre l'amore ne è la sovrabbondanza. L'amore non rimane indietro rispetto alla giustizia, ma si spinge al di là della giustizia dovuta all'altro. Esso non è perciò una specie di aggiunta o di appendice della giustizia. L'altro infatti dipende come persona non solo da beni materiali terreni, ma anche dal dono dell'amore. Perciò l'amore, che si spinge disinteressatamente al di là del giuridicamente dovuto, è la forma di giustizia adeguata alla persona dell'altro. Benedetto XVI parla in questo contesto della «logica del dono» [22].
In questo modo il papa riprende la critica postmoderna alla pura giustizia commutativa e fa sostanzialmente riferimento alle idee fondamentali di Paul Ricoeur e di Jean-Luc Marion [23]. Ciò mostra che l'enciclica Caritas in veritate è, con il suo ulteriore sviluppo della dottrina sociale della chiesa, perfettamente all'altezza della riflessione odierna. La questione che essa così solleva è di sapere dove una simile riflessione di fondo praticamente ci conduce. E di tale questione dobbiamo adesso occuparci.
La dimensione politica dell'amore e della misericordia
Sarebbe superare di molto la mia competenza, se da quanto detto volessi cercare di trarre conseguenze concrete complete per i campi oltremodo complessi della vita sociale ed economica, per cui mi limito ad alcuni pochi accenni.
Dall'amore come principio della dottrina sociale scaturiscono anzitutto delle norme negative, che escludono modi comportamentali opposti all'amore e pertanto in ogni caso proibiti. Di tali modi fa parte soprattutto l'uccisione della vita umana. Ciò vale anche per l'assassinio e il genocidio, così come per l'uccisione della vita umana non nata e per gli aiuti prestati per suicidarsi (spesso minimalisticamente detti «aiuti attivi a morire»). E vale anche per la privazione della libertà e la schiavitù, la mutilazione, la tortura, la rapina, l'ingiustizia e l'oppressione grave, la violenza e l'abuso sessuale, l'odio degli stranieri e la discriminazione di ogni specie, la menzogna, la calunnia, la propaganda e la pubblicità menzognera, che infliggono gravi danni al corpo, alla vita o all'onore degli altri o li traggono consapevolmente in inganno. Un capitolo particolarmente triste è, accanto al commercio delle droghe, lo scandaloso commercio delle armi, attraverso cui si possono guadagnare ingenti somme di denaro per merci che non servono ad altro che a uccidere esseri umani e a distruggere beni culturali e materiali.
La più difficile è la questione della guerra. Ogni guerra è accompagnata da uccisioni, distruzioni e sofferenze pure per chi non partecipa ad azioni belliche. La guerra come tale non può essere una cosa voluta da Dio e contrasta con l'atteggiamento dell'amore. Perciò la questione se ed eventualmente come i cristiani – di fronte al comandamento dell'amore, in particolare di fronte al comandamento dell'amore dei nemici e della rinuncia alla violenza – possono attivamente partecipare ad azioni di guerra, è una questione seria [24]. Nella chiesa dei primi secoli i cristiani rifiutavano di svolgere il servizio militare; così fanno ancora oggi alcune chiese libere, le cosiddette chiese della pace (fratelli boemi, quaccheri, mennoniti). Dall'altra parte la difesa dei propri diritti umani fondamentali e di quelli di persone innocenti, in particolare di donne e di bambini, da una violenza e da un'oppressione aggressiva può essere – per quanto la cosa sembri paradossale – un atto e, in certe circostanze, un dovere dell'amore del prossimo, una volta che si sono esauriti tutti gli altri mezzi e a patto che si rispetti la proporzionalità.
La dottrina della guerra giusta (meglio: giustificata), delineata da Agostino e sviluppata da Tommaso d'Aquino, rappresenta un compromesso etico. In un mondo senza pace e spesso malvagio può essere necessario, per amore della pace, opporsi al male e sconfiggerlo. In questo senso una guerra con lo scopo di difendere la pace può essere come ultima ratio giustificata, qualora essa, dopo aver esaurito altri mezzi, serva a difendere beni umani fondamentali, limiti l'uso della forza a mezzi adeguati a questo scopo, cioè rinunci alla crudeltà, a atti di vendetta e ad altre cose del genere, e qualora sussista la fondata prospettiva che, attraverso un ricorso limitato alla guerra, le cose non peggioreranno, ma miglioreranno, cioè che si potrà arrivare a una pacificazione. Ciò vale nel senso dell'ultima ratio e con il principio della proporzionalità anche nel caso di interventi umanitari con mezzi militari.
Con lo sviluppo dei moderni sistemi di armamento, in particolare delle armi atomiche e della loro enorme forza distruttiva, si è venuta a creare una situazione nuova. La questione è di sapere se, con queste armi, sia ancora possibile rispettare le condizioni di una guerra giustificata. Senza poter in questo contesto addentrarci nelle difficili e complesse singole questioni, dobbiamo in ogni caso dire che una guerra totale, con l'annientamento di intere città o di vasti territori e della loro popolazione, va assolutamente condannata e bandita [25].
Poiché il fine non deve essere la guerra, nemmeno la cosiddetta guerra giusta, ma la pace, oggi si preferisce parlare, anziché di guerra giusta, di pace giusta. Essa non si può costruire né con le baionette né con i carri armati. La pace è opera della giustizia (Opus iustitiae pax, cf. Is 32,17). In questo senso si cerca oggi di sviluppare non un'etica della guerra, ma un'etica della pace, il cui scopo è quello di fare di tutto per rendere le guerre impossibili non solo nel singolo caso, ma strutturalmente. Da Benedetto XV in poi i papi si sono continuamente impegnati per una simile politica della pace [26]. Il concilio Vaticano II ha ripreso questa idea: «È chiaro pertanto che dobbiamo con ogni impegno sforzarci per preparare quel tempo, nel quale, mediante l'accordo delle nazioni, si potrà interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerra» [27]. Ciò conduce a praticare una politica preventiva della pace mediante l'eliminazione di ingiustizie, mediante aiuti per lo sviluppo (Paolo VI: lo sviluppo come nuovo nome della pace), mediante l'impegno per l'affermazione e la difesa dei diritti umani fondamentali, per i diritti e la protezione delle minoranze, per escogitare procedimenti giuridici atti a conciliare legittimi interessi, mediante il dialogo inter-religioso e interculturale, mediante sanzioni per potenziali aggressori e altri mezzi ancora. Presupposto per tutto ciò è un'autorità sovranazionale, che attualmente può essere soltanto l'ONU.
Questi sono passi importanti, che vanno nella direzione del comandamento di Gesù. L'amore e la misericordia possono dimostrarsi pieni di inventiva in questi processi, per trovare nel modo più pacifico possibile un ordinamento giusto e accettato da tutte le parti. Questo non può essere solo compito della politica. Anche singole personalità cristiane, gruppi e movimenti cristiani (Pax Christi, Aktion Siihnezeichen [Action Reconciliation/Service for Peace], Schwerter zu Pflugscharen[Spade in vomeri], Terre des hommes, Comunità di Sant'Egidio,ecc.) possono e devono contribuire molto ed efficacemente, anche senza un mandato politico, attraverso il dialogo, il lavoro di riconciliazione, servizi per la pace e per lo sviluppo alla pace nel mondo e dimostrare di essere degli operatori di pace (Mt 5,9).
Dall'amore come principio della dottrina sociale scaturiscono anzitutto delle norme negative, che escludono modi comportamentali opposti all'amore e pertanto in ogni caso proibiti. Di tali modi fa parte soprattutto l'uccisione della vita umana. Ciò vale anche per l'assassinio e il genocidio, così come per l'uccisione della vita umana non nata e per gli aiuti prestati per suicidarsi (spesso minimalisticamente detti «aiuti attivi a morire»). E vale anche per la privazione della libertà e la schiavitù, la mutilazione, la tortura, la rapina, l'ingiustizia e l'oppressione grave, la violenza e l'abuso sessuale, l'odio degli stranieri e la discriminazione di ogni specie, la menzogna, la calunnia, la propaganda e la pubblicità menzognera, che infliggono gravi danni al corpo, alla vita o all'onore degli altri o li traggono consapevolmente in inganno. Un capitolo particolarmente triste è, accanto al commercio delle droghe, lo scandaloso commercio delle armi, attraverso cui si possono guadagnare ingenti somme di denaro per merci che non servono ad altro che a uccidere esseri umani e a distruggere beni culturali e materiali.
La più difficile è la questione della guerra. Ogni guerra è accompagnata da uccisioni, distruzioni e sofferenze pure per chi non partecipa ad azioni belliche. La guerra come tale non può essere una cosa voluta da Dio e contrasta con l'atteggiamento dell'amore. Perciò la questione se ed eventualmente come i cristiani – di fronte al comandamento dell'amore, in particolare di fronte al comandamento dell'amore dei nemici e della rinuncia alla violenza – possono attivamente partecipare ad azioni di guerra, è una questione seria [24]. Nella chiesa dei primi secoli i cristiani rifiutavano di svolgere il servizio militare; così fanno ancora oggi alcune chiese libere, le cosiddette chiese della pace (fratelli boemi, quaccheri, mennoniti). Dall'altra parte la difesa dei propri diritti umani fondamentali e di quelli di persone innocenti, in particolare di donne e di bambini, da una violenza e da un'oppressione aggressiva può essere – per quanto la cosa sembri paradossale – un atto e, in certe circostanze, un dovere dell'amore del prossimo, una volta che si sono esauriti tutti gli altri mezzi e a patto che si rispetti la proporzionalità.
La dottrina della guerra giusta (meglio: giustificata), delineata da Agostino e sviluppata da Tommaso d'Aquino, rappresenta un compromesso etico. In un mondo senza pace e spesso malvagio può essere necessario, per amore della pace, opporsi al male e sconfiggerlo. In questo senso una guerra con lo scopo di difendere la pace può essere come ultima ratio giustificata, qualora essa, dopo aver esaurito altri mezzi, serva a difendere beni umani fondamentali, limiti l'uso della forza a mezzi adeguati a questo scopo, cioè rinunci alla crudeltà, a atti di vendetta e ad altre cose del genere, e qualora sussista la fondata prospettiva che, attraverso un ricorso limitato alla guerra, le cose non peggioreranno, ma miglioreranno, cioè che si potrà arrivare a una pacificazione. Ciò vale nel senso dell'ultima ratio e con il principio della proporzionalità anche nel caso di interventi umanitari con mezzi militari.
Con lo sviluppo dei moderni sistemi di armamento, in particolare delle armi atomiche e della loro enorme forza distruttiva, si è venuta a creare una situazione nuova. La questione è di sapere se, con queste armi, sia ancora possibile rispettare le condizioni di una guerra giustificata. Senza poter in questo contesto addentrarci nelle difficili e complesse singole questioni, dobbiamo in ogni caso dire che una guerra totale, con l'annientamento di intere città o di vasti territori e della loro popolazione, va assolutamente condannata e bandita [25].
Poiché il fine non deve essere la guerra, nemmeno la cosiddetta guerra giusta, ma la pace, oggi si preferisce parlare, anziché di guerra giusta, di pace giusta. Essa non si può costruire né con le baionette né con i carri armati. La pace è opera della giustizia (Opus iustitiae pax, cf. Is 32,17). In questo senso si cerca oggi di sviluppare non un'etica della guerra, ma un'etica della pace, il cui scopo è quello di fare di tutto per rendere le guerre impossibili non solo nel singolo caso, ma strutturalmente. Da Benedetto XV in poi i papi si sono continuamente impegnati per una simile politica della pace [26]. Il concilio Vaticano II ha ripreso questa idea: «È chiaro pertanto che dobbiamo con ogni impegno sforzarci per preparare quel tempo, nel quale, mediante l'accordo delle nazioni, si potrà interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerra» [27]. Ciò conduce a praticare una politica preventiva della pace mediante l'eliminazione di ingiustizie, mediante aiuti per lo sviluppo (Paolo VI: lo sviluppo come nuovo nome della pace), mediante l'impegno per l'affermazione e la difesa dei diritti umani fondamentali, per i diritti e la protezione delle minoranze, per escogitare procedimenti giuridici atti a conciliare legittimi interessi, mediante il dialogo inter-religioso e interculturale, mediante sanzioni per potenziali aggressori e altri mezzi ancora. Presupposto per tutto ciò è un'autorità sovranazionale, che attualmente può essere soltanto l'ONU.
Questi sono passi importanti, che vanno nella direzione del comandamento di Gesù. L'amore e la misericordia possono dimostrarsi pieni di inventiva in questi processi, per trovare nel modo più pacifico possibile un ordinamento giusto e accettato da tutte le parti. Questo non può essere solo compito della politica. Anche singole personalità cristiane, gruppi e movimenti cristiani (Pax Christi, Aktion Siihnezeichen [Action Reconciliation/Service for Peace], Schwerter zu Pflugscharen[Spade in vomeri], Terre des hommes, Comunità di Sant'Egidio,ecc.) possono e devono contribuire molto ed efficacemente, anche senza un mandato politico, attraverso il dialogo, il lavoro di riconciliazione, servizi per la pace e per lo sviluppo alla pace nel mondo e dimostrare di essere degli operatori di pace (Mt 5,9).
L'amore e la misericordia come fonte di ispirazione e di motivazione
L'amore esclude, in senso negativo, atti e atteggiamenti riprovevoli; in senso positivo non è possibile dedurre da esso alcuna norma vincolante, concreta e dettagliata o, come spesso si dice, alcuna norma tecnica per il comportamento economico e politico. Ma è già diventato chiaro che esso può essere, sotto l'aspetto positivo, una specie di idea regolatrice, una fonte di motivazione e di ispirazione per trovare e realizzare soluzioni concrete. Il concilio Vaticano II parla di «luce e forza» [28]. Potremmo anche dire: l'amore è la condizione per poter aprire gli occhi e vedere, una forza propulsiva per una prassi e una civiltà della misericordia e della giustizia. Esso è la forza trainante della giustizia [29]. In questo senso esso può portare nell'odierna situazione critica un contributo importante per poter sviluppare ulteriormente lo stato sociale in condizioni mutate.
Cominciamo con un primo punto di vista. Anche se la "rete sociale" pesca sempre i bisogni più grandi, esistono di continuo persone che sfuggono attraverso le maglie della legge. La previdenza sociale pubblica si occupa solo dei "casi" di bisogno «previsti dalla legge». A ciò si aggiunge il fatto che la miseria assume molti e sempre nuovi volti. Perciò qualsiasi sistema sociale, per quanto ben architettato, sarà e rimarrà sempre pieno di buchi. Chi vuole risolvere burocraticamente qualsiasi situazione di bisogno deve mettere in piedi un pesante sistema burocratico che alla fine, non potendo comunque far fronte a tutte le situazioni, diventa per le sue troppe regole troppo farraginoso. Esso soffocherà sotto la massa di regolamenti la vita e abbandonerà il singolo bisognoso in balìa di un sistema burocratico anonimo, per il quale egli è alla fine solo un numero e un caso. Un sistema del genere può essere fino a un certo grado oggettivamente giusto, ma umanamente giusto esso non lo è.
Papa Benedetto XVI scrive nell'enciclica Deus caritas est: «L'amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Chi vuole sbarazzarsi dell'amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale, nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo. Lo stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può assicurare l'essenziale di cui l'uomo sofferente – ogni uomo – ha bisogno: l'amichevole dedizione personale. Non uno stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell'amore suscitato dallo Spirito di Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell'anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale. L'affermazione secondo la quale le strutture renderebbero superflue le opere di carità di fatto nasconde una concezione materialistica dell'uomo: il pregiudizio secondo cui l'uomo vivrebbe "di solo pane" (Mt 4,4; cf. Dt 8,3), convinzione che umilia l'uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano» [30].
A ciò si aggiunge un altro punto di vista. Il mondo non è mai perfetto; di continuo sorgono nuove situazioni di bisogno, di povertà e di crisi. Senza misericordia spesso non si scoprono le nuove situazioni di bisogno. Ci vogliono delle persone che percepiscono il bisogno che spesso sorge inaspettatamente e che si lasciano commuovere da esso, delle persone che hanno un cuore, che si prendono a cuore e che nel caso concreto cercano di aiutare meglio che possono. Senza una simile misericordia la base motivazionale per un ulteriore sviluppo della legislazione sociale va perduta. Perciò la nostra società, pur disponendo nel suo complesso di un sistema sociale ben funzionante, non può cavarsela senza la misericordia. Jürgen Habermas ha richiamato l'attenzione sul fatto che, di fronte agli enormi problemi cui oggi dobbiamo far fronte, viene a mancare, senza la base religiosa, l'impulso emotivo necessario per impegnarsi per un mondo migliore [31]. Possiamo perciò indicare la misericordia come il fondamento e la fonte innovativa e motivazionale della giustizia sociale.
Un esempio concreto è la questione dell'asilo politico e dell'immigrazione. Ambedue sono «segni dei tempi». L'asilo politico per persone che sono perseguitate, è un diritto dell'uomo. Vale il principio: «Ero straniero» e senza tetto «e mi avete accolto» o anche «non accolto» (Mt 25,35.43 ). Dobbiamo onestamente domandarci se l'asilo politico di molti stati, che si dicono stati di diritto, non è, di fronte a queste parole molto chiare, più che problematico, spesso addirittura scandaloso. Più difficile è la questione dell'immigrazione. Un'immigrazione illimitata è senza dubbio impossibile; essa metterebbe in ginocchio anche la nostra società, per cui ben presto neppure essa potrebbe più essere un luogo di rifugio.
Qui la politica deve intervenire e stabilire delle regole. La questione è solo di sapere come essa lo fa. L'accoglienza di stranieri corrisponde alla virtù dell'ospitalità, altamente apprezzata nell'Antico e nel Nuovo Testamento, così come in tutta la tradizione ecclesiale (Mt 25,38.41), e dobbiamo considerare uno scandalo il modo in cui noi, in Europa, spesso trattiamo persone che arrivano fra di noi spinti dalla povertà, dalla fame, dalla persecuzione e dalla discriminazione. Perciò la migrazione, in atto in tutto il mondo, pone delle domande anche a noi e pone nuove sfide alla dottrina sociale della chiesa.
A ciò si aggiunge, in terzo luogo, il fatto che esistono forme di miseria e di povertà che non possono essere espresse in numeri riguardanti il reddito pro capite necessario per soddisfare i bisogni vitali umani fondamentali. Esistono anche una miseria e una povertà psichica, una povertà in fatto di relazioni, solitudine e isolamento, una povertà culturale e una mancanza di accesso alla formazione e all'attiva partecipazione alla vita sociale e culturale, e infine una povertà spirituale che si manifesta in un vuoto interiore, nella mancanza di senso e di orientamento fino a uno stato spirituale di abbandono [32]. Queste sono situazioni di bisogno molto diffuse anche e proprio in seno a società sviluppate e benestanti, situazioni cui anche il miglior sistema sociale può rimediare solo in maniera molto condizionata. Nella maggior parte di queste situazioni l'aiuto può venire soltanto dalla dedizione e dalla relazione personale. Senza amicizia, senza comunione, senza solidarietà e anche senza misericordia non è possibile nessuna vita e nessuna società veramente umana.
In quarto luogo: il puro stato sociale corre il pericolo di fare alla fine anche della misericordia una faccenda economica. La previdenza sociale viene commercializzata e diventa a sua volta un affare in parte addirittura lucrativo. Assistiamo attualmente a questo fatto, per esempio, quando la sanità pubblica è organizzata sempre più in base a criteri puramente economici e diventa anch'essa una grande impresa economica orientata al profitto. Non diverso è il caso dell'assistenza agli anziani. Un'assistenza che si limita a dar da mangiare e a prendersi cura dell'igiene di persone anziane non soddisfa i loro bisogni umani. Uno stato sociale economicizzato e commercializzato produce una freddezza e una mancanza sociale di sentimenti, in cui non c'è più posto per lacrime versate in solitudine e in silenzio e per questioni personali profonde. Esso può procurare qualche comodità, ma non può dare quello di cui le persone hanno più bisogno, cioè persone che prestano ascolto, che si immedesimano nelle situazioni e mostrano compassione. Senza una simile empatia e – intesa nel senso originario del termine – simpatia, cioè senza compassione e partecipazione alla gioia altrui, il mondo diventa freddo e la vita può diventare insopportabile. La dedizione e la misericordia non possono essere organizzate e regolate statalmente, né possiamo fare di esse un'ideologia universale. Esse sono qualcosa di personale; è solo possibile motivare e ispirare a praticarle.
Infine, l'amore e la misericordia hanno il loro posto anzitutto nelle relazioni umane con le persone che sono più vicine. Però sono anche una condizione fondamentale per la convivenza all'interno di un popolo e tra i popoli. Dopo gli orrori della seconda guerra mondiale non furono necessari solo risarcimenti materiali, ma più importante ancora fu la necessità di arrivare a una riconciliazione profonda dei tedeschi con i francesi, con i polacchi e soprattutto con gli ebrei. Tale riconciliazione presupponeva un cambiamento di mentalità, anzi una conversione e un perdono. Papa Giovanni Paolo II disse: «Un mondo, da cui si eliminasse il perdono, sarebbe soltanto un mondo di giustizia fredda e irrispettosa, nel nome della quale ognuno rivendicherebbe i propri diritti nei confronti dell'altro; così gli egoismi di vario genere, sonnecchianti nell'uomo, potrebbero trasformare la vita e la convivenza umana in un sistema di oppressione dei più deboli da parte dei più forti, oppure in un'area di permanente lotta degli uni contro gli altri» [33].
Perciò, come ha detto Paolo VI e come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno ripetuto, occorre andare al di là di una civiltà della giustizia e costruire una «civiltà dell'amore» [34]. Qui la chiesa e i gruppi ecclesiali possono più che mai portare un contributo all'umanizzazione della società e dello stato sociale. Essi possono contribuire a dare un'anima allo stato sociale.
Cominciamo con un primo punto di vista. Anche se la "rete sociale" pesca sempre i bisogni più grandi, esistono di continuo persone che sfuggono attraverso le maglie della legge. La previdenza sociale pubblica si occupa solo dei "casi" di bisogno «previsti dalla legge». A ciò si aggiunge il fatto che la miseria assume molti e sempre nuovi volti. Perciò qualsiasi sistema sociale, per quanto ben architettato, sarà e rimarrà sempre pieno di buchi. Chi vuole risolvere burocraticamente qualsiasi situazione di bisogno deve mettere in piedi un pesante sistema burocratico che alla fine, non potendo comunque far fronte a tutte le situazioni, diventa per le sue troppe regole troppo farraginoso. Esso soffocherà sotto la massa di regolamenti la vita e abbandonerà il singolo bisognoso in balìa di un sistema burocratico anonimo, per il quale egli è alla fine solo un numero e un caso. Un sistema del genere può essere fino a un certo grado oggettivamente giusto, ma umanamente giusto esso non lo è.
Papa Benedetto XVI scrive nell'enciclica Deus caritas est: «L'amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Chi vuole sbarazzarsi dell'amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale, nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo. Lo stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può assicurare l'essenziale di cui l'uomo sofferente – ogni uomo – ha bisogno: l'amichevole dedizione personale. Non uno stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell'amore suscitato dallo Spirito di Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell'anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale. L'affermazione secondo la quale le strutture renderebbero superflue le opere di carità di fatto nasconde una concezione materialistica dell'uomo: il pregiudizio secondo cui l'uomo vivrebbe "di solo pane" (Mt 4,4; cf. Dt 8,3), convinzione che umilia l'uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano» [30].
A ciò si aggiunge un altro punto di vista. Il mondo non è mai perfetto; di continuo sorgono nuove situazioni di bisogno, di povertà e di crisi. Senza misericordia spesso non si scoprono le nuove situazioni di bisogno. Ci vogliono delle persone che percepiscono il bisogno che spesso sorge inaspettatamente e che si lasciano commuovere da esso, delle persone che hanno un cuore, che si prendono a cuore e che nel caso concreto cercano di aiutare meglio che possono. Senza una simile misericordia la base motivazionale per un ulteriore sviluppo della legislazione sociale va perduta. Perciò la nostra società, pur disponendo nel suo complesso di un sistema sociale ben funzionante, non può cavarsela senza la misericordia. Jürgen Habermas ha richiamato l'attenzione sul fatto che, di fronte agli enormi problemi cui oggi dobbiamo far fronte, viene a mancare, senza la base religiosa, l'impulso emotivo necessario per impegnarsi per un mondo migliore [31]. Possiamo perciò indicare la misericordia come il fondamento e la fonte innovativa e motivazionale della giustizia sociale.
Un esempio concreto è la questione dell'asilo politico e dell'immigrazione. Ambedue sono «segni dei tempi». L'asilo politico per persone che sono perseguitate, è un diritto dell'uomo. Vale il principio: «Ero straniero» e senza tetto «e mi avete accolto» o anche «non accolto» (Mt 25,35.43 ). Dobbiamo onestamente domandarci se l'asilo politico di molti stati, che si dicono stati di diritto, non è, di fronte a queste parole molto chiare, più che problematico, spesso addirittura scandaloso. Più difficile è la questione dell'immigrazione. Un'immigrazione illimitata è senza dubbio impossibile; essa metterebbe in ginocchio anche la nostra società, per cui ben presto neppure essa potrebbe più essere un luogo di rifugio.
Qui la politica deve intervenire e stabilire delle regole. La questione è solo di sapere come essa lo fa. L'accoglienza di stranieri corrisponde alla virtù dell'ospitalità, altamente apprezzata nell'Antico e nel Nuovo Testamento, così come in tutta la tradizione ecclesiale (Mt 25,38.41), e dobbiamo considerare uno scandalo il modo in cui noi, in Europa, spesso trattiamo persone che arrivano fra di noi spinti dalla povertà, dalla fame, dalla persecuzione e dalla discriminazione. Perciò la migrazione, in atto in tutto il mondo, pone delle domande anche a noi e pone nuove sfide alla dottrina sociale della chiesa.
A ciò si aggiunge, in terzo luogo, il fatto che esistono forme di miseria e di povertà che non possono essere espresse in numeri riguardanti il reddito pro capite necessario per soddisfare i bisogni vitali umani fondamentali. Esistono anche una miseria e una povertà psichica, una povertà in fatto di relazioni, solitudine e isolamento, una povertà culturale e una mancanza di accesso alla formazione e all'attiva partecipazione alla vita sociale e culturale, e infine una povertà spirituale che si manifesta in un vuoto interiore, nella mancanza di senso e di orientamento fino a uno stato spirituale di abbandono [32]. Queste sono situazioni di bisogno molto diffuse anche e proprio in seno a società sviluppate e benestanti, situazioni cui anche il miglior sistema sociale può rimediare solo in maniera molto condizionata. Nella maggior parte di queste situazioni l'aiuto può venire soltanto dalla dedizione e dalla relazione personale. Senza amicizia, senza comunione, senza solidarietà e anche senza misericordia non è possibile nessuna vita e nessuna società veramente umana.
In quarto luogo: il puro stato sociale corre il pericolo di fare alla fine anche della misericordia una faccenda economica. La previdenza sociale viene commercializzata e diventa a sua volta un affare in parte addirittura lucrativo. Assistiamo attualmente a questo fatto, per esempio, quando la sanità pubblica è organizzata sempre più in base a criteri puramente economici e diventa anch'essa una grande impresa economica orientata al profitto. Non diverso è il caso dell'assistenza agli anziani. Un'assistenza che si limita a dar da mangiare e a prendersi cura dell'igiene di persone anziane non soddisfa i loro bisogni umani. Uno stato sociale economicizzato e commercializzato produce una freddezza e una mancanza sociale di sentimenti, in cui non c'è più posto per lacrime versate in solitudine e in silenzio e per questioni personali profonde. Esso può procurare qualche comodità, ma non può dare quello di cui le persone hanno più bisogno, cioè persone che prestano ascolto, che si immedesimano nelle situazioni e mostrano compassione. Senza una simile empatia e – intesa nel senso originario del termine – simpatia, cioè senza compassione e partecipazione alla gioia altrui, il mondo diventa freddo e la vita può diventare insopportabile. La dedizione e la misericordia non possono essere organizzate e regolate statalmente, né possiamo fare di esse un'ideologia universale. Esse sono qualcosa di personale; è solo possibile motivare e ispirare a praticarle.
Infine, l'amore e la misericordia hanno il loro posto anzitutto nelle relazioni umane con le persone che sono più vicine. Però sono anche una condizione fondamentale per la convivenza all'interno di un popolo e tra i popoli. Dopo gli orrori della seconda guerra mondiale non furono necessari solo risarcimenti materiali, ma più importante ancora fu la necessità di arrivare a una riconciliazione profonda dei tedeschi con i francesi, con i polacchi e soprattutto con gli ebrei. Tale riconciliazione presupponeva un cambiamento di mentalità, anzi una conversione e un perdono. Papa Giovanni Paolo II disse: «Un mondo, da cui si eliminasse il perdono, sarebbe soltanto un mondo di giustizia fredda e irrispettosa, nel nome della quale ognuno rivendicherebbe i propri diritti nei confronti dell'altro; così gli egoismi di vario genere, sonnecchianti nell'uomo, potrebbero trasformare la vita e la convivenza umana in un sistema di oppressione dei più deboli da parte dei più forti, oppure in un'area di permanente lotta degli uni contro gli altri» [33].
Perciò, come ha detto Paolo VI e come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno ripetuto, occorre andare al di là di una civiltà della giustizia e costruire una «civiltà dell'amore» [34]. Qui la chiesa e i gruppi ecclesiali possono più che mai portare un contributo all'umanizzazione della società e dello stato sociale. Essi possono contribuire a dare un'anima allo stato sociale.
Importanza sociale delle opere di misericordia
Per rendere un po' più concreto quel che abbiamo detto, possiamo ricordare ancora una volta le opere di misericordia corporale e spirituale [35]. Da esse può scaturire una forza capace di ispirare e motivare anche nel campo politico e sociale. Non è difficile porre le opere di misericordia in relazione con compiti e sfide sociali importanti, al fine di poter così riconoscere quel che il messaggio di misericordia della chiesa può significare nella situazione odierna. Tale messaggio è tutt'altro che diventato oggi superfluo [36].
Quanto alle opere di misericordia corporale si pensi, per esempio, alla già menzionata quadruplice dimensione della povertà, alla povertà individuale e strutturale, e al fatto che molte migliaia di persone, specialmente bambini, muoiono quotidianamente per carenza e mancanza di alimenti e che molti milioni di esse mancano di acqua non inquinata e potabile. Si pensi inoltre alla migrazione come segno dei tempi e quindi come sfida dei tempi, nonché al compito di accogliere stranieri, che nella loro patria sono caduti in miseria e ci chiedono di accoglierli; si pensi, in questo contesto, al compito di opporsi alla crescente paura degli stranieri e all'ostilità nei loro confronti. Si pensi inoltre al problema dei senzatetto e dei bambini di strada in molte grandi città del mondo. La richiesta di visitare malati può essere messa facilmente in relazione con l'attuale economicizzazione e conseguente anonimizzazione del sistema sanitario; la richiesta di visitare i carcerati in relazione con il compito dell'umanizzazione delle carceri.
Altrettanto attuali sono le opere di misericordia spirituale. La richiesta di istruire altri diventa attuale di fronte alla mancanza di formazione e specializzazione, che impedisce di salire nella scala sociale. La richiesta di consolare impone di stare vicino a coloro che soffrono e sono colpiti da qualche lutto. La richiesta di consigliare i dubbiosi richiama alla mente il compito della consulenza e dei servizi di consulenza; in una situazione nella quale non ci sono più criteri comuni universalmente validi e molte persone non sanno come muoversi nella complessità della vita moderna, tale compito è doppiamente attuale. La correzione dei peccatori fa prendere coscienza, tra l'altro, di strutture ingiuste e aiuta a scoprire un'ingiustizia strutturale. Il compito di sopportare le persone moleste ha molto a che fare con la tolleranza nella nostra società pluralistica. Infine l'esortazione a perdonare ci ricorda l'importanza politica del lavoro in favore della pace e della riconciliazione.
La chiesa, per potere svolgere questo servizio nella società, ha bisogno di mezzi umani, ma per questo non deve disporre di un grande apparato burocratico e non deve essere grande e potente. Essa non dipende da privilegi mondani e deve rinunciare addirittura spontaneamente ad essi [37]. Deve ed è costretta a vivere e a lavorare in questo mondo, ma non è di questo mondo (Gv 17,11.14) e non deve perciò neppure agire come agisce il mondo e secondo i suoi criteri. Dalla vita di san Giovanni Bosco sappiamo che egli cominciò molte delle sue opere con poco o nulla e che la fiducia nella provvidenza non lo ha alla fine mai deluso. La chiesa può e deve ricorrere più di altre istituzioni all'impegno volontario e non retribuito, ma in compenso altamente motivato. Come chiesa povera per i poveri essa può dispiegare, in un tempo per il resto spiritualmente povero, tanto maggiore autorità morale e una nuova forza missionaria di convinzione e di irradiamento [38]. Il regno di Dio viene nella forma di un minuscolo seme di senape, che diventa un grande albero; esso è come un pizzico di lievito, che fa fermentare tutta la massa della pasta (cf. Mt 13,31-33). Anche e proprio come piccola, ma creativa minoranza, la chiesa può esercitare un grande influsso morale, culturale e spirituale [39].
Quanto alle opere di misericordia corporale si pensi, per esempio, alla già menzionata quadruplice dimensione della povertà, alla povertà individuale e strutturale, e al fatto che molte migliaia di persone, specialmente bambini, muoiono quotidianamente per carenza e mancanza di alimenti e che molti milioni di esse mancano di acqua non inquinata e potabile. Si pensi inoltre alla migrazione come segno dei tempi e quindi come sfida dei tempi, nonché al compito di accogliere stranieri, che nella loro patria sono caduti in miseria e ci chiedono di accoglierli; si pensi, in questo contesto, al compito di opporsi alla crescente paura degli stranieri e all'ostilità nei loro confronti. Si pensi inoltre al problema dei senzatetto e dei bambini di strada in molte grandi città del mondo. La richiesta di visitare malati può essere messa facilmente in relazione con l'attuale economicizzazione e conseguente anonimizzazione del sistema sanitario; la richiesta di visitare i carcerati in relazione con il compito dell'umanizzazione delle carceri.
Altrettanto attuali sono le opere di misericordia spirituale. La richiesta di istruire altri diventa attuale di fronte alla mancanza di formazione e specializzazione, che impedisce di salire nella scala sociale. La richiesta di consolare impone di stare vicino a coloro che soffrono e sono colpiti da qualche lutto. La richiesta di consigliare i dubbiosi richiama alla mente il compito della consulenza e dei servizi di consulenza; in una situazione nella quale non ci sono più criteri comuni universalmente validi e molte persone non sanno come muoversi nella complessità della vita moderna, tale compito è doppiamente attuale. La correzione dei peccatori fa prendere coscienza, tra l'altro, di strutture ingiuste e aiuta a scoprire un'ingiustizia strutturale. Il compito di sopportare le persone moleste ha molto a che fare con la tolleranza nella nostra società pluralistica. Infine l'esortazione a perdonare ci ricorda l'importanza politica del lavoro in favore della pace e della riconciliazione.
La chiesa, per potere svolgere questo servizio nella società, ha bisogno di mezzi umani, ma per questo non deve disporre di un grande apparato burocratico e non deve essere grande e potente. Essa non dipende da privilegi mondani e deve rinunciare addirittura spontaneamente ad essi [37]. Deve ed è costretta a vivere e a lavorare in questo mondo, ma non è di questo mondo (Gv 17,11.14) e non deve perciò neppure agire come agisce il mondo e secondo i suoi criteri. Dalla vita di san Giovanni Bosco sappiamo che egli cominciò molte delle sue opere con poco o nulla e che la fiducia nella provvidenza non lo ha alla fine mai deluso. La chiesa può e deve ricorrere più di altre istituzioni all'impegno volontario e non retribuito, ma in compenso altamente motivato. Come chiesa povera per i poveri essa può dispiegare, in un tempo per il resto spiritualmente povero, tanto maggiore autorità morale e una nuova forza missionaria di convinzione e di irradiamento [38]. Il regno di Dio viene nella forma di un minuscolo seme di senape, che diventa un grande albero; esso è come un pizzico di lievito, che fa fermentare tutta la massa della pasta (cf. Mt 13,31-33). Anche e proprio come piccola, ma creativa minoranza, la chiesa può esercitare un grande influsso morale, culturale e spirituale [39].
La misericordia e la questione di Dio
I problemi concreti sono importanti, per molti uomini addirittura d'importanza vitale. Tuttavia la teologia non deve perdersi in queste complesse questioni concrete. Essa deve essere e rimanere teologia, cioè discorso su Dio, e deve mostrare come in mezzo ai problemi concreti, che dobbiamo quotidianamente affrontare, si pongono questioni fondamentali e in ultima analisi la questione di Dio. Possiamo anche dire in senso inverso: è Dio, è la sua giustizia e la sua misericordia a letteralmente incalzarci in queste questioni. E su questo vogliamo dire, a conclusione, ancora qualcosa.
Abbiamo detto che il principio strutturale della dottrina sociale della chiesa è costituito dall'inalienabile dignità e dalla libertà dell'uomo. In questo modo la dottrina sociale chiesa può partire da un principio tipico dell'età moderna e condividere la svolta dell'età moderna in direzione del soggetto, svolta che è tutt'altro che sinonimo di soggettivismo. Domandiamoci perciò: Che cos'è la libertà e che cosa significa? Sicuramente non una libertà individualistica arbitraria. Questa si rende infatti schiava, in una misura molto maggiore di quanto ne abbia coscienza, di stati d'animo e interessi momentaneamente predominanti e di impulsi emotivi. Inoltre una libertà individuale arbitraria può anche rivelarsi una libertà incendiaria politicamente pericolosa. Essa può essere fuorviata dalla propaganda e dalla pubblicità e può perciò degenerare assai velocemente in un totalitarismo aperto o mascherato.
Una libertà, che è consapevole della propria dignità, rispetterà sempre anche la libertà dell'altro, sarà solidale con essa e si impegnerà in suo favore. La libertà non è perciò "libertà da" gli altri, ma "libertà con e per" gli altri. Essa si realizza nella giustizia, che dà a ciascuno il suo. Presuppone concretamente che tutti gli altri la rispettino. E presuppone pertanto un ordinamento della giustizia, che è nello stesso tempo un ordinamento della libertà [40].
Ma che cos'è la giustizia e che cos'è un giusto ordinamento della società? Già Aristotele ha accennato al fatto che giustizia e ingiustizia sono termini polisemantici. Da parte sua egli concepì la giustizia come un concetto proporzionale, cioè come qualcosa di mezzo tra il troppo e il troppo poco. Inoltre sapeva che la legge non può regolare tutti i molteplici casi della vita e che quindi la giustizia dipende dal bene quale valore superiore [41].
Poiché nell'età moderna si è in gran parte abbandonato il fondamento di diritto naturale della giustizia, così come esso era stato stabilito in Aristotele e nella tradizione medievale fino all'età moderna, si arrivò alle più diverse interpretazioni del concetto di giustizia [42]. Un consenso non è in vista. Molti considerano il discorso della giustizia e di una società giusta addirittura come una formula vuota e come un contenitore, che si presta a una propaganda politica populistica e che può pertanto essere malamente usato per fini di potere. Nel suo romanzo I fratelli Karamàzov Dostoevskij ha descritto eloquentemente questo pericolo nella figura del grande inquisitore e ha mostrato come gli uomini siano disposti, per poter avere del pane da mangiare, a deporre la loro libertà ai piedi del potere e a dire: «Magari fateci schiavi, ma dateci da mangiare» [43]. Una democrazia senza valori può trasformarsi assai velocemente in un totalitarismo aperto o mascherato [44].
Noto è l'assai citato detto di Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo il quale la democrazia vive di presupposti che essa non è in grado di stabilire [45]. Se tali presupposti non esistono più o, dal momento che li si considerava ovvi, sono stati dimenticati e poi rimossi, allora si arriva al relativismo oggi da parte ecclesiale assai deplorato che non conosce più alcun valore assoluto, ma decide tutto in base a un calcolo utilitaristico o a un calcolo di potere [46]. Il potenziale esplosivo di un simile relativismo è la sua pericolosa trasformazione in un totalitarismo molto più pericoloso. Infatti, se dopo la fine della metafisica, da molti proclamata, non esiste più alcuna verità né alcun valore assoluto, capaci di guidare e orientare l'azione politica, allora anche le idee politiche democratiche più nobili sono in fondo non solo prive di fondamento, ma sono anche prive di orientamento e possono essere abusate populisticamente. Allora la tolleranza può facilmente trasformarsi in intolleranza verso chiunque osi sostenere un'idea divergente da quella della maggioranza. Di segni, che vanno in questa pericolosa direzione, non ne mancano.
È perciò bene partire ancora una volta dal concetto generale di giustizia, secondo il quale la giustizia è quel modo di comportarsi che dà a ciascuno il suo, unicuique suum. La questione allora diventa: Che cosa è il suo che spetta a ciascuno? Di fronte a questa domanda gli spiriti si dividono; essa provoca di continuo discussioni politiche. La via di mezzo tra il troppo e il troppo poco, proposta da Aristotele, non può essere infatti definita una volta per tutte, ma va di continuo cercata e, dal momento che essa è condizionata da interessi, il più delle volte cercata e individuata in maniera controversiale. E qui si può arrivare a opinioni e a prese di posizione divergenti anche tra cristiani.
Non appena si affronta a fondo questa questione, viene subito da domandarsi: L'uomo come uomo di che cosa ha bisogno e che cosa può rivendicare come suo, per poter vivere in modo umanamente degno e cioè anche autodeterminandosi in massa? Per questo egli ha ovviamente bisogno di pane da mangiare e di una misura adeguata di beni materiali. Di quanti ne abbia bisogno, se di pochi o di molti, è una questione di continuo agitata e anche diversamente risolta a seconda delle circostanze. Ciò che però molto spesso si dimentica in una simile discussione è che ciò che spetta all'uomo come uomo non consiste e non può consistere solo in beni materiali. Niente sarebbe così deleterio come il fatto che, dopo la fine e il fallimento del marxismo ideologico, prendessero piede un individualismo e un ordinamento consumistico del benessere e della società, che cercano la felicità dell'uomo soltanto nel consumo materiale. In questo modo il materialismo comunista marxista sarebbe sostituito dal materialismo consumistico; l'uno come l'altro misconoscono e disprezzano la vera dignità dell'uomo e conducono entrambi in modi diversi a una sua cosificazione.
Ciò che spetta all'uomo come uomo, e cioè come essere libero, è soprattutto il riconoscimento della sua dignità umana. Ciò che spetta all'uomo sulla base della sua dignità è il rispetto personale, l'accettazione personale e la dedizione personale. In questo senso possiamo concepire la giustizia come la misura minima dell'amore e l'amore come la misura piena della giustizia [47].
L'incondizionato, che con la fine della metafisica, spesso proclamata, ci è in larga misura venuto a mancare ed è andato in larga misura perduto, può di nuovo sorgere davanti ai nostri occhi nell'incontro con l'alterità dell'altro e con l'incondizionato riconoscimento dovuto all'altro [48]. Nell'incontro interumano si manifesta qualcosa di assoluto, che esclude ogni relativismo di fondo. Concretamente questo significa che la richiesta di giustizia, concretamente mai determinabile in modo del tutto chiaro, va interpretata alla luce dell'amore e della sua pretesa incondizionata e va praticamente superata nella dedizione amorevole e misericordiosa all'altro.
Noi esseri umani siamo naturalmente fatti di materiale scadente e possediamo una propensione inestinguibile al male (Kant) [49]. Anche tutte le nostre relazioni interumane ne sono inficiate. Non possiamo e non dobbiamo perciò partire da una situazione ideale di incontro. Tutte le nostre relazioni sono turbate e appesantite da un'ingiustizia a noi precedente, per così dire ereditata, da noi sperimentata come fatta da noi stessi. Qui, per amore della sopravvivenza di una relazione, così come di tutta una società, può essere necessario perdonare violazioni gravi e passate della giustizia e riconciliarsi di nuovo. Solo attraverso una simile riconciliazione è infatti possibile spezzare il circolo vizioso della colpa e della ritorsione e, quindi, di una nuova colpa, porre un nuovo inizio e aprire le porte a un nuovo futuro. Perciò la giustizia vive anche del perdono, della riconciliazione e della misericordia che, come abbiamo visto, è caratterizzata dal fatto di dischiudere, in una situazione priva di vie di uscita, una via di uscita verso un nuovo futuro.
Ma che succede nel caso di un simile perdono e riconciliazione? Essi fanno fondamentalmente qualcosa di per sé impossibile; perdonano quel che dal punto di vista della giustizia non è perdonabile. Un assassinio, una guerra assassina e ovviamente un genocidio sono imperdonabili. Il perdono di un simile atto imperdonabile, che in fondo non può essere perdonato, urta contro la giustizia che cerca di stabilire un equilibrio. Ma proprio mentre agisce contro l'esigenza della giustizia commutativa, esso diventa il fondamento e il punto di partenza di una nuova convivenza giusta e riconciliata [50].
Già Gesù fu accusato di rimettere i peccati e si vide domandare con quale potere lo facesse. I suoi avversari erano addirittura nel giusto, quando gli obiettarono che una cosa del genere la può fare soltanto Dio (Mc 2,5-7). Come persone possiamo aiutare un altro a vivere con la sua colpa, ma non possiamo perdonarlo. Il perdono è un nuovo inizio creatore non realizzabile intramondanamente. Quando perdoniamo e ci riconciliamo, facciamo "qualcosa" che non possiamo "fare", qualcosa di cui piuttosto non disponiamo e che ci deve essere donato. Nel dono della riconciliazione, nel quale ci viene di nuovo donata la vita comune nella giustizia, rimandiamo a "qualcosa" che ci trascende, doniamo all'altro "qualcosa" che non "abbiamo", anticipiamo e ci protendiamo consciamente o inconsciamente verso qualcosa che si chiama teologicamente grazia e che la Scrittura dice misericordia infinita di Dio.
In questo mondo non può in fondo essere soddisfatta la richiesta di giustizia, né vedere la luce la misericordia disposta al perdono. La giustizia perfetta potrebbe essere stabilita solo con un sistema violento, che poi potrebbe essere a sua volta solo un cattivo sistema. Chi vuole creare il cielo in terra, non installa su di essa il cielo, come nel frattempo purtroppo ben sappiamo dall'amara esperienza di sistemi totalitari, ma installa l'inferno. Ciò vale del resto anche a proposito dei perfezionisti ecclesiali, che vogliono stabilire con la forza una chiesa dei puri (Kaθapoí, catari). Le aberrazioni del movimento dei catari, da un lato, e quelle dell'Inquisizione, dall'altro, dovrebbero essere un ammonimento perenne.
Tutto questo è tutt'altro che un argomento per non fare nulla nella società e nella chiesa. Al contrario, dobbiamo assolutamente cercare di arginare, nei limiti dell'umanamente possibile, l'ingiustizia e il male, dobbiamo nei limiti del possibile aiutare la giustizia e la misericordia ad affermarsi nella società e nella chiesa. Ovunque possiamo farlo, dobbiamo cercare di fare brillare un raggio del calore della misericordia nelle situazioni di bisogno fisico e spirituale e accendere così una luce dell'amore, che infonde speranza.
Nel nostro mondo non esistono però solo ingiustizie spietate, non esiste solo un perfezionismo spietato, ma esiste anche uno spietato attaccamento a questa terra. Generalmente oggi non cerchiamo più di consolarci con l'idea dell'aldilà, ma cerchiamo al contrario di consolarci con una ricerca della felicità su questa terra. Tale ricerca vuole la giustizia perfetta e la misericordia piena, cioè la felicità perfetta già adesso, vuole tutto e subito. Così la vita diventa sempre più frenetica, esigente, faticosa e stressante. Non lavoriamo solo come bestie, ma ci divertiamo anche a più non posso; dall'altro esigiamo nell'amore il cielo in terra e gli avanziamo perciò impietosamente delle richieste che esso non può soddisfare [51].
Di fronte all'ingiustizia mai pienamente eliminabile e di fronte alla misericordia e all'amore mai pienamente praticabili in questo mondo, rimane alla fine in molti casi solo l'appello alla misericordia di Dio. Solo essa può garantire che alla fine l'assassino non trionferà sulla sua vittima innocente e che alla fine tutti vedranno riconosciuto il loro diritto e sarà fatta giustizia a tutti. Solo la speranza nella giustizia escatologica e nella riconciliazione escatologica al momento della risurrezione dei morti rende la vita in questo mondo realmente vivibile e degna di essere vissuta. Essa infonde serenità sotto forma di una impazienza paziente e di una pazienza impaziente [52].
Di fronte a una disperazione pericolosa o ad un istupidimento consumistico non rimane in fondo altro che vedere il mondo e la vita nella luce della speranza in una giustizia perfetta e in una riconciliazione definitiva e reggersi su di essa. Perciò l'invocazione Kyrie eleison non potrà mai essere ridotta al silenzio in questo mondo e continuerà sempre a risuonare. Il fatto che questa invocazione possa e debba risuonare anche pubblicamente fa parte dell'eredità culturale dell'umanità; fa parte di una cultura della giustizia, della misericordia e della filantropia di una società veramente libera.
Abbiamo detto che il principio strutturale della dottrina sociale della chiesa è costituito dall'inalienabile dignità e dalla libertà dell'uomo. In questo modo la dottrina sociale chiesa può partire da un principio tipico dell'età moderna e condividere la svolta dell'età moderna in direzione del soggetto, svolta che è tutt'altro che sinonimo di soggettivismo. Domandiamoci perciò: Che cos'è la libertà e che cosa significa? Sicuramente non una libertà individualistica arbitraria. Questa si rende infatti schiava, in una misura molto maggiore di quanto ne abbia coscienza, di stati d'animo e interessi momentaneamente predominanti e di impulsi emotivi. Inoltre una libertà individuale arbitraria può anche rivelarsi una libertà incendiaria politicamente pericolosa. Essa può essere fuorviata dalla propaganda e dalla pubblicità e può perciò degenerare assai velocemente in un totalitarismo aperto o mascherato.
Una libertà, che è consapevole della propria dignità, rispetterà sempre anche la libertà dell'altro, sarà solidale con essa e si impegnerà in suo favore. La libertà non è perciò "libertà da" gli altri, ma "libertà con e per" gli altri. Essa si realizza nella giustizia, che dà a ciascuno il suo. Presuppone concretamente che tutti gli altri la rispettino. E presuppone pertanto un ordinamento della giustizia, che è nello stesso tempo un ordinamento della libertà [40].
Ma che cos'è la giustizia e che cos'è un giusto ordinamento della società? Già Aristotele ha accennato al fatto che giustizia e ingiustizia sono termini polisemantici. Da parte sua egli concepì la giustizia come un concetto proporzionale, cioè come qualcosa di mezzo tra il troppo e il troppo poco. Inoltre sapeva che la legge non può regolare tutti i molteplici casi della vita e che quindi la giustizia dipende dal bene quale valore superiore [41].
Poiché nell'età moderna si è in gran parte abbandonato il fondamento di diritto naturale della giustizia, così come esso era stato stabilito in Aristotele e nella tradizione medievale fino all'età moderna, si arrivò alle più diverse interpretazioni del concetto di giustizia [42]. Un consenso non è in vista. Molti considerano il discorso della giustizia e di una società giusta addirittura come una formula vuota e come un contenitore, che si presta a una propaganda politica populistica e che può pertanto essere malamente usato per fini di potere. Nel suo romanzo I fratelli Karamàzov Dostoevskij ha descritto eloquentemente questo pericolo nella figura del grande inquisitore e ha mostrato come gli uomini siano disposti, per poter avere del pane da mangiare, a deporre la loro libertà ai piedi del potere e a dire: «Magari fateci schiavi, ma dateci da mangiare» [43]. Una democrazia senza valori può trasformarsi assai velocemente in un totalitarismo aperto o mascherato [44].
Noto è l'assai citato detto di Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo il quale la democrazia vive di presupposti che essa non è in grado di stabilire [45]. Se tali presupposti non esistono più o, dal momento che li si considerava ovvi, sono stati dimenticati e poi rimossi, allora si arriva al relativismo oggi da parte ecclesiale assai deplorato che non conosce più alcun valore assoluto, ma decide tutto in base a un calcolo utilitaristico o a un calcolo di potere [46]. Il potenziale esplosivo di un simile relativismo è la sua pericolosa trasformazione in un totalitarismo molto più pericoloso. Infatti, se dopo la fine della metafisica, da molti proclamata, non esiste più alcuna verità né alcun valore assoluto, capaci di guidare e orientare l'azione politica, allora anche le idee politiche democratiche più nobili sono in fondo non solo prive di fondamento, ma sono anche prive di orientamento e possono essere abusate populisticamente. Allora la tolleranza può facilmente trasformarsi in intolleranza verso chiunque osi sostenere un'idea divergente da quella della maggioranza. Di segni, che vanno in questa pericolosa direzione, non ne mancano.
È perciò bene partire ancora una volta dal concetto generale di giustizia, secondo il quale la giustizia è quel modo di comportarsi che dà a ciascuno il suo, unicuique suum. La questione allora diventa: Che cosa è il suo che spetta a ciascuno? Di fronte a questa domanda gli spiriti si dividono; essa provoca di continuo discussioni politiche. La via di mezzo tra il troppo e il troppo poco, proposta da Aristotele, non può essere infatti definita una volta per tutte, ma va di continuo cercata e, dal momento che essa è condizionata da interessi, il più delle volte cercata e individuata in maniera controversiale. E qui si può arrivare a opinioni e a prese di posizione divergenti anche tra cristiani.
Non appena si affronta a fondo questa questione, viene subito da domandarsi: L'uomo come uomo di che cosa ha bisogno e che cosa può rivendicare come suo, per poter vivere in modo umanamente degno e cioè anche autodeterminandosi in massa? Per questo egli ha ovviamente bisogno di pane da mangiare e di una misura adeguata di beni materiali. Di quanti ne abbia bisogno, se di pochi o di molti, è una questione di continuo agitata e anche diversamente risolta a seconda delle circostanze. Ciò che però molto spesso si dimentica in una simile discussione è che ciò che spetta all'uomo come uomo non consiste e non può consistere solo in beni materiali. Niente sarebbe così deleterio come il fatto che, dopo la fine e il fallimento del marxismo ideologico, prendessero piede un individualismo e un ordinamento consumistico del benessere e della società, che cercano la felicità dell'uomo soltanto nel consumo materiale. In questo modo il materialismo comunista marxista sarebbe sostituito dal materialismo consumistico; l'uno come l'altro misconoscono e disprezzano la vera dignità dell'uomo e conducono entrambi in modi diversi a una sua cosificazione.
Ciò che spetta all'uomo come uomo, e cioè come essere libero, è soprattutto il riconoscimento della sua dignità umana. Ciò che spetta all'uomo sulla base della sua dignità è il rispetto personale, l'accettazione personale e la dedizione personale. In questo senso possiamo concepire la giustizia come la misura minima dell'amore e l'amore come la misura piena della giustizia [47].
L'incondizionato, che con la fine della metafisica, spesso proclamata, ci è in larga misura venuto a mancare ed è andato in larga misura perduto, può di nuovo sorgere davanti ai nostri occhi nell'incontro con l'alterità dell'altro e con l'incondizionato riconoscimento dovuto all'altro [48]. Nell'incontro interumano si manifesta qualcosa di assoluto, che esclude ogni relativismo di fondo. Concretamente questo significa che la richiesta di giustizia, concretamente mai determinabile in modo del tutto chiaro, va interpretata alla luce dell'amore e della sua pretesa incondizionata e va praticamente superata nella dedizione amorevole e misericordiosa all'altro.
Noi esseri umani siamo naturalmente fatti di materiale scadente e possediamo una propensione inestinguibile al male (Kant) [49]. Anche tutte le nostre relazioni interumane ne sono inficiate. Non possiamo e non dobbiamo perciò partire da una situazione ideale di incontro. Tutte le nostre relazioni sono turbate e appesantite da un'ingiustizia a noi precedente, per così dire ereditata, da noi sperimentata come fatta da noi stessi. Qui, per amore della sopravvivenza di una relazione, così come di tutta una società, può essere necessario perdonare violazioni gravi e passate della giustizia e riconciliarsi di nuovo. Solo attraverso una simile riconciliazione è infatti possibile spezzare il circolo vizioso della colpa e della ritorsione e, quindi, di una nuova colpa, porre un nuovo inizio e aprire le porte a un nuovo futuro. Perciò la giustizia vive anche del perdono, della riconciliazione e della misericordia che, come abbiamo visto, è caratterizzata dal fatto di dischiudere, in una situazione priva di vie di uscita, una via di uscita verso un nuovo futuro.
Ma che succede nel caso di un simile perdono e riconciliazione? Essi fanno fondamentalmente qualcosa di per sé impossibile; perdonano quel che dal punto di vista della giustizia non è perdonabile. Un assassinio, una guerra assassina e ovviamente un genocidio sono imperdonabili. Il perdono di un simile atto imperdonabile, che in fondo non può essere perdonato, urta contro la giustizia che cerca di stabilire un equilibrio. Ma proprio mentre agisce contro l'esigenza della giustizia commutativa, esso diventa il fondamento e il punto di partenza di una nuova convivenza giusta e riconciliata [50].
Già Gesù fu accusato di rimettere i peccati e si vide domandare con quale potere lo facesse. I suoi avversari erano addirittura nel giusto, quando gli obiettarono che una cosa del genere la può fare soltanto Dio (Mc 2,5-7). Come persone possiamo aiutare un altro a vivere con la sua colpa, ma non possiamo perdonarlo. Il perdono è un nuovo inizio creatore non realizzabile intramondanamente. Quando perdoniamo e ci riconciliamo, facciamo "qualcosa" che non possiamo "fare", qualcosa di cui piuttosto non disponiamo e che ci deve essere donato. Nel dono della riconciliazione, nel quale ci viene di nuovo donata la vita comune nella giustizia, rimandiamo a "qualcosa" che ci trascende, doniamo all'altro "qualcosa" che non "abbiamo", anticipiamo e ci protendiamo consciamente o inconsciamente verso qualcosa che si chiama teologicamente grazia e che la Scrittura dice misericordia infinita di Dio.
In questo mondo non può in fondo essere soddisfatta la richiesta di giustizia, né vedere la luce la misericordia disposta al perdono. La giustizia perfetta potrebbe essere stabilita solo con un sistema violento, che poi potrebbe essere a sua volta solo un cattivo sistema. Chi vuole creare il cielo in terra, non installa su di essa il cielo, come nel frattempo purtroppo ben sappiamo dall'amara esperienza di sistemi totalitari, ma installa l'inferno. Ciò vale del resto anche a proposito dei perfezionisti ecclesiali, che vogliono stabilire con la forza una chiesa dei puri (Kaθapoí, catari). Le aberrazioni del movimento dei catari, da un lato, e quelle dell'Inquisizione, dall'altro, dovrebbero essere un ammonimento perenne.
Tutto questo è tutt'altro che un argomento per non fare nulla nella società e nella chiesa. Al contrario, dobbiamo assolutamente cercare di arginare, nei limiti dell'umanamente possibile, l'ingiustizia e il male, dobbiamo nei limiti del possibile aiutare la giustizia e la misericordia ad affermarsi nella società e nella chiesa. Ovunque possiamo farlo, dobbiamo cercare di fare brillare un raggio del calore della misericordia nelle situazioni di bisogno fisico e spirituale e accendere così una luce dell'amore, che infonde speranza.
Nel nostro mondo non esistono però solo ingiustizie spietate, non esiste solo un perfezionismo spietato, ma esiste anche uno spietato attaccamento a questa terra. Generalmente oggi non cerchiamo più di consolarci con l'idea dell'aldilà, ma cerchiamo al contrario di consolarci con una ricerca della felicità su questa terra. Tale ricerca vuole la giustizia perfetta e la misericordia piena, cioè la felicità perfetta già adesso, vuole tutto e subito. Così la vita diventa sempre più frenetica, esigente, faticosa e stressante. Non lavoriamo solo come bestie, ma ci divertiamo anche a più non posso; dall'altro esigiamo nell'amore il cielo in terra e gli avanziamo perciò impietosamente delle richieste che esso non può soddisfare [51].
Di fronte all'ingiustizia mai pienamente eliminabile e di fronte alla misericordia e all'amore mai pienamente praticabili in questo mondo, rimane alla fine in molti casi solo l'appello alla misericordia di Dio. Solo essa può garantire che alla fine l'assassino non trionferà sulla sua vittima innocente e che alla fine tutti vedranno riconosciuto il loro diritto e sarà fatta giustizia a tutti. Solo la speranza nella giustizia escatologica e nella riconciliazione escatologica al momento della risurrezione dei morti rende la vita in questo mondo realmente vivibile e degna di essere vissuta. Essa infonde serenità sotto forma di una impazienza paziente e di una pazienza impaziente [52].
Di fronte a una disperazione pericolosa o ad un istupidimento consumistico non rimane in fondo altro che vedere il mondo e la vita nella luce della speranza in una giustizia perfetta e in una riconciliazione definitiva e reggersi su di essa. Perciò l'invocazione Kyrie eleison non potrà mai essere ridotta al silenzio in questo mondo e continuerà sempre a risuonare. Il fatto che questa invocazione possa e debba risuonare anche pubblicamente fa parte dell'eredità culturale dell'umanità; fa parte di una cultura della giustizia, della misericordia e della filantropia di una società veramente libera.
(Da: Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo - Chiave della vita cristiana, Queriniana 2013, pp. 268-303)
NOTE
1 LG 36s.; GS 36; 42; 56; 76; AA 7 .
2 Cf. Kompendium der Soziallehre der Kirche, a cura del Pontificio Consiglio della giustizia e la pace, Freiburg i. Br. 2006 [ed. it., Compendio della dottrina sociale della chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004]. Esposizioni classiche: O. VON NELL-BREUNING, Gerechtigkeit und Freiheit. Grundzüge katholischer Soziallehre, Wien 1980; J. HÒFFNER, Christliche Gesellschaftslehre, a cura di L. Roos, Kevelaer 1997 [trad. it., dell'ottava ed. del 1983: La dottrina sociale cristiana, San Paolo, Cinisello B. 19956]. Esposizioni più recenti dalla prospettiva della svolta antropologica: W. KORFF,Sozialethik, in LThK3 9,767-777; R. MARX, Das Kapital. Ein Plädoyer für den Menschen, München 2008 [trad. it., Il capitale. Una critica cristiana alle ragioni del mercato, Rizzoli, Milano 2009].
3 CICERONE, De legibus 1, 6, 19. Cf TOMMASO D'AQUINO,Summa theologiae II/II, q. 58, a. 1. Sulla problematica del concetto di giustizia vedi più avanti n. 42.
4 AGOSTINO, De civitate Dei IV, 4 [trad. it., in Opere di sant'Agostino 5/1, Città Nuova, Roma 1978].
5 Al riguardo cf. G. WINGREN, Barmherzigkeit IV, in TRE 5, 233-238.
6 Cf. R MARX, Das Kapital, cit., 72s. [trad. it. cit.].
7 F.X. KAUFMANN, Herausforderungen des Sozialstaates, Frankfurt a. M. 1997; ID., Varianten des Wohlfahrtsstaates. Der deutsche Sozialstaat im internationalen Vergleich, Frankfurt a. M. 2003; ID., Sozialpolitik und Sozialstaat. Soziologische Analysen, Wiesbaden 2005.
8 Nomi autorevoli nel campo della teoria: W. Eucken, W. Röpke, A. Rüstow, A. Müller-Armack, L. Erhard ecc.; cf. A. ANZENBACHER, Soziale Marktwirtschaft, in LThIC 9, 759-761.
9 Cf sopra cap. 3.6.
10 J. HABERMAS, Die Krise des Wohlfahrtsstaates und die Erschöpfungutopischer Energien, in Zeitdiagnosen, Frankfurt a. M. 2003, 27-49 [trad. it., La nuova oscurità. Crisi dello stato sociale ed esaurimento delle utopie, Edizioni Lavoro, Roma 1998]; ID., Glauben und Wissen, ibid., 249-262 [trad. it. cit.]; W. OCKENFELS, Was kommt nach dem Kapitalismus?, Augsburg 2001.
11 R. MARX, Das Kapital, cit., 16ss. [trad. it. cit.]
12 Questa richiesta controversa e indubbiamente anche non realistica è avanzata dal Pontificio Consiglio della giustizia e della pace nella Nota per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale, dove si chiede che venga costituita un'autorità pubblica con competenza universale (2011).
13 Texte zur katholischen Soziallehre. Die sozialen Rundschreiben der Papste und andere kirchliche Dokumente, a cura di O. v. Nell-Breuning e J. Schasching, Kevelaer 1989'; K. HILPERT, Sozialenzykliken, in LthK3 9, 763-765.
14 O. VON NELL-BREUNING, Integralismus, in LThK2 5, 717s.
15 GS 36; cf. sopra n. 1.
16 GS 73s.
17 LEONE XIII, Rerum novarum (1891), 45; Pio XI,Quadragesimo anno (15.05.1931), 88; 137 [in Acta Apostolicae Sedis 23 (1931) 177-228].
18 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Dives in misericordia(30.11.1980) 12, in Enchiridion Vaticanum 7, Dehoniane, Bologna 1982, 926.
19 PAOLO VI, Allocuzione a conclusione dell'anno santo 1975, 145; Messaggio per la giornata mondiale della pace 1977; GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Dives in misericordia (30.11.1980) 14, in Enchiridion Vaticanum 7, cit., 937-949; GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Centesimus annus(01.05.1991) 10, in Enchiridion Vaticanum 13, Dehoniane, Bologna 66-265; Messaggio per la giornata mondiale della pace 2004; BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate(29.06.2009) 33, in Enchiridion Vaticanum 26, Dehoniane, Bologna 2012, 723-724.
20 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Deus caritas est(25.12.2005), seconda parte, in Enchiridion Vaticanum 23, Dehoniane, Bologna 2008, 1569-1602.
21 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate(29.06.2009) 2 e 6, in Enchiridion Vaticanum 26, cit., 681-682.686.
22 Ibid., 34; 37.
23 Cf sopra cap. 2.1. (Concezioni filosofiche).
24 Al riguardo GS 77-84; Kompendium der Soziallehre der Kirche, a cura del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, Freiburg i. Br. 2006, 500s. [ed. it. cit.].
25 GS 80.
26 BENEDETTO XV, Pacem, Dei munus pulcherrimum (1920) [in Acta Apostolicae Sedis 12 (23.05.1920) 209-218]; Pio XII, Ad Petri Cathedram (1959) [in Acta Apostolicae Sedis 51 (29.06.1959) 497-531]; GIOVANNI XXIII, Pacem in terris(11.04.1963) [in Acta Apostolicae Sedis 55 (1963) 257-304]; PAOLO VI, Lettera enciclica Populorum progressio (26.03.1967), in Enchiridion Vaticanum 2, Dehoniane, Bologna 1979, 1046-1132; Giovanni Paolo II, tra l'altro, nei messaggi per la giornata mondiale della pace.
27 GS 82.
28 GS 42s.
29 R. MARX, Das Kapital, cit., 143 [trad. it. cit.].
30 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Deus caritas est(25.12.2005) 28b, in Enchiridion Vaticanum 23, cit., 1584.
31 J. HABERMAS, Die Krise des Wohlfahrtsstaates und die Erschöpfung utopischer Energien, cit. [trad. it. cit.]; ID., Glauben und Wissen, cit. [trad. it. cit.]; W. OCKENFELS, Was kommt nach dem Kapitalismus?, cit.
32 P.M. ZULEHNER, Gott ist gröβer als unser Herz (1 Joh 3,20). Eine Pastoral des Erbarmens, Ostfildern 2006, 74.
33 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Dives in misericordia(30.11.1980) 14, in Enchiridion Vaticanum 7, cit., 944.
34 Cf sopra n. 19.
35 Cf sopra cap. 6.3.
36 Al riguardo maggiori dettagli in P.M. ZULEHNER, Gott ist gröβer als unser Herz, cit., 70-152.
37 GS 76.
38 W. KASPER, Katholische Kirche, Freiburg i. Br. 2011, 65s.482s. [trad. it., Chiesa cattolica. Essenza — Realtà — Missione, Queriniana, Brescia 2012, 63s.543s.].
39 Ibid., 65s. [trad. it., 63s.]
40 Sul problema teologico dell'istituzione cf. M. KEHL, Kirche als Institution. Zur theologischen Begründung des institutionellen Charakters der Kirche in der neueren deutschsprachigen katholischen Ekklesiologie, Frankfurt a. M. 1976.
41 ARISTOTELE, Etica Nicomachea V, 1229a ss.
42 J. PIEPER, Über die Tugenden Klugheit, Gerechtigkeit, Tapferkeit, Maβ, München 2004; 0. RAWLS, Eine Theorie der Gerechtigkeit, Frankfurt a. M. 1975 [trad. it., Teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 19862]; ID., Gerechtigkeit als Fairness. Eine Neuentwurf, Frankfurt a. M. 20072; O. HÒFFE,Gerechtigkeit. Eine philosophische Einführung, Miinchen 20073.
43 F. DOSTOEVSKI, Die Brüder Karamasoff, München 1977, 401-432, qui 412 [ed. it., I Fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1954, I, 373-398, qui 382].
44 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Centesimus annus(01.05.1991) 46, in Enchiridion Vaticanum 13, Dehoniane, Bologna 1995, 220-224. Cf anche il discorso tenuto da Benedetto XVI davanti al Bundestag tedesco il 22 settembre 2011, La verità del nostro oggi, in Il Regno - documenti, 17/2011, 513-516.
45 E.-W. BÖCKENFÖRDE, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation, in Recht, Staat, Freiheit, Frankfurt a. M. 1991, 112.
46 Sul problema del relativismo cf. W. KASPER, Katholische Kirche, cit., 42.494 n. 47 [trad. it., 36, n. 47].
47 Così nella scia di Paolo VI e Giovanni Paolo B, BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate(29.06.2009) 6, in Enchiridion Vaticanum 26, cit., 686.
48 Cf sopra cap. 2.1 [Concezioni filosofiche].
49 Cf ibid.
50 Cf ibid.
51 P.M. ZULEHNER, Gott ist gröβer als unser Herz, cit., 22-30.
52 Sulla serenità cf. sopra cap. 5.7 [Speranza di misericordia di fronte alla sofferenza innocente].
2 Cf. Kompendium der Soziallehre der Kirche, a cura del Pontificio Consiglio della giustizia e la pace, Freiburg i. Br. 2006 [ed. it., Compendio della dottrina sociale della chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004]. Esposizioni classiche: O. VON NELL-BREUNING, Gerechtigkeit und Freiheit. Grundzüge katholischer Soziallehre, Wien 1980; J. HÒFFNER, Christliche Gesellschaftslehre, a cura di L. Roos, Kevelaer 1997 [trad. it., dell'ottava ed. del 1983: La dottrina sociale cristiana, San Paolo, Cinisello B. 19956]. Esposizioni più recenti dalla prospettiva della svolta antropologica: W. KORFF,Sozialethik, in LThK3 9,767-777; R. MARX, Das Kapital. Ein Plädoyer für den Menschen, München 2008 [trad. it., Il capitale. Una critica cristiana alle ragioni del mercato, Rizzoli, Milano 2009].
3 CICERONE, De legibus 1, 6, 19. Cf TOMMASO D'AQUINO,Summa theologiae II/II, q. 58, a. 1. Sulla problematica del concetto di giustizia vedi più avanti n. 42.
4 AGOSTINO, De civitate Dei IV, 4 [trad. it., in Opere di sant'Agostino 5/1, Città Nuova, Roma 1978].
5 Al riguardo cf. G. WINGREN, Barmherzigkeit IV, in TRE 5, 233-238.
6 Cf. R MARX, Das Kapital, cit., 72s. [trad. it. cit.].
7 F.X. KAUFMANN, Herausforderungen des Sozialstaates, Frankfurt a. M. 1997; ID., Varianten des Wohlfahrtsstaates. Der deutsche Sozialstaat im internationalen Vergleich, Frankfurt a. M. 2003; ID., Sozialpolitik und Sozialstaat. Soziologische Analysen, Wiesbaden 2005.
8 Nomi autorevoli nel campo della teoria: W. Eucken, W. Röpke, A. Rüstow, A. Müller-Armack, L. Erhard ecc.; cf. A. ANZENBACHER, Soziale Marktwirtschaft, in LThIC 9, 759-761.
9 Cf sopra cap. 3.6.
10 J. HABERMAS, Die Krise des Wohlfahrtsstaates und die Erschöpfungutopischer Energien, in Zeitdiagnosen, Frankfurt a. M. 2003, 27-49 [trad. it., La nuova oscurità. Crisi dello stato sociale ed esaurimento delle utopie, Edizioni Lavoro, Roma 1998]; ID., Glauben und Wissen, ibid., 249-262 [trad. it. cit.]; W. OCKENFELS, Was kommt nach dem Kapitalismus?, Augsburg 2001.
11 R. MARX, Das Kapital, cit., 16ss. [trad. it. cit.]
12 Questa richiesta controversa e indubbiamente anche non realistica è avanzata dal Pontificio Consiglio della giustizia e della pace nella Nota per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale, dove si chiede che venga costituita un'autorità pubblica con competenza universale (2011).
13 Texte zur katholischen Soziallehre. Die sozialen Rundschreiben der Papste und andere kirchliche Dokumente, a cura di O. v. Nell-Breuning e J. Schasching, Kevelaer 1989'; K. HILPERT, Sozialenzykliken, in LthK3 9, 763-765.
14 O. VON NELL-BREUNING, Integralismus, in LThK2 5, 717s.
15 GS 36; cf. sopra n. 1.
16 GS 73s.
17 LEONE XIII, Rerum novarum (1891), 45; Pio XI,Quadragesimo anno (15.05.1931), 88; 137 [in Acta Apostolicae Sedis 23 (1931) 177-228].
18 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Dives in misericordia(30.11.1980) 12, in Enchiridion Vaticanum 7, Dehoniane, Bologna 1982, 926.
19 PAOLO VI, Allocuzione a conclusione dell'anno santo 1975, 145; Messaggio per la giornata mondiale della pace 1977; GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Dives in misericordia (30.11.1980) 14, in Enchiridion Vaticanum 7, cit., 937-949; GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Centesimus annus(01.05.1991) 10, in Enchiridion Vaticanum 13, Dehoniane, Bologna 66-265; Messaggio per la giornata mondiale della pace 2004; BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate(29.06.2009) 33, in Enchiridion Vaticanum 26, Dehoniane, Bologna 2012, 723-724.
20 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Deus caritas est(25.12.2005), seconda parte, in Enchiridion Vaticanum 23, Dehoniane, Bologna 2008, 1569-1602.
21 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate(29.06.2009) 2 e 6, in Enchiridion Vaticanum 26, cit., 681-682.686.
22 Ibid., 34; 37.
23 Cf sopra cap. 2.1. (Concezioni filosofiche).
24 Al riguardo GS 77-84; Kompendium der Soziallehre der Kirche, a cura del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, Freiburg i. Br. 2006, 500s. [ed. it. cit.].
25 GS 80.
26 BENEDETTO XV, Pacem, Dei munus pulcherrimum (1920) [in Acta Apostolicae Sedis 12 (23.05.1920) 209-218]; Pio XII, Ad Petri Cathedram (1959) [in Acta Apostolicae Sedis 51 (29.06.1959) 497-531]; GIOVANNI XXIII, Pacem in terris(11.04.1963) [in Acta Apostolicae Sedis 55 (1963) 257-304]; PAOLO VI, Lettera enciclica Populorum progressio (26.03.1967), in Enchiridion Vaticanum 2, Dehoniane, Bologna 1979, 1046-1132; Giovanni Paolo II, tra l'altro, nei messaggi per la giornata mondiale della pace.
27 GS 82.
28 GS 42s.
29 R. MARX, Das Kapital, cit., 143 [trad. it. cit.].
30 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Deus caritas est(25.12.2005) 28b, in Enchiridion Vaticanum 23, cit., 1584.
31 J. HABERMAS, Die Krise des Wohlfahrtsstaates und die Erschöpfung utopischer Energien, cit. [trad. it. cit.]; ID., Glauben und Wissen, cit. [trad. it. cit.]; W. OCKENFELS, Was kommt nach dem Kapitalismus?, cit.
32 P.M. ZULEHNER, Gott ist gröβer als unser Herz (1 Joh 3,20). Eine Pastoral des Erbarmens, Ostfildern 2006, 74.
33 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Dives in misericordia(30.11.1980) 14, in Enchiridion Vaticanum 7, cit., 944.
34 Cf sopra n. 19.
35 Cf sopra cap. 6.3.
36 Al riguardo maggiori dettagli in P.M. ZULEHNER, Gott ist gröβer als unser Herz, cit., 70-152.
37 GS 76.
38 W. KASPER, Katholische Kirche, Freiburg i. Br. 2011, 65s.482s. [trad. it., Chiesa cattolica. Essenza — Realtà — Missione, Queriniana, Brescia 2012, 63s.543s.].
39 Ibid., 65s. [trad. it., 63s.]
40 Sul problema teologico dell'istituzione cf. M. KEHL, Kirche als Institution. Zur theologischen Begründung des institutionellen Charakters der Kirche in der neueren deutschsprachigen katholischen Ekklesiologie, Frankfurt a. M. 1976.
41 ARISTOTELE, Etica Nicomachea V, 1229a ss.
42 J. PIEPER, Über die Tugenden Klugheit, Gerechtigkeit, Tapferkeit, Maβ, München 2004; 0. RAWLS, Eine Theorie der Gerechtigkeit, Frankfurt a. M. 1975 [trad. it., Teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 19862]; ID., Gerechtigkeit als Fairness. Eine Neuentwurf, Frankfurt a. M. 20072; O. HÒFFE,Gerechtigkeit. Eine philosophische Einführung, Miinchen 20073.
43 F. DOSTOEVSKI, Die Brüder Karamasoff, München 1977, 401-432, qui 412 [ed. it., I Fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1954, I, 373-398, qui 382].
44 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Centesimus annus(01.05.1991) 46, in Enchiridion Vaticanum 13, Dehoniane, Bologna 1995, 220-224. Cf anche il discorso tenuto da Benedetto XVI davanti al Bundestag tedesco il 22 settembre 2011, La verità del nostro oggi, in Il Regno - documenti, 17/2011, 513-516.
45 E.-W. BÖCKENFÖRDE, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation, in Recht, Staat, Freiheit, Frankfurt a. M. 1991, 112.
46 Sul problema del relativismo cf. W. KASPER, Katholische Kirche, cit., 42.494 n. 47 [trad. it., 36, n. 47].
47 Così nella scia di Paolo VI e Giovanni Paolo B, BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate(29.06.2009) 6, in Enchiridion Vaticanum 26, cit., 686.
48 Cf sopra cap. 2.1 [Concezioni filosofiche].
49 Cf ibid.
50 Cf ibid.
51 P.M. ZULEHNER, Gott ist gröβer als unser Herz, cit., 22-30.
52 Sulla serenità cf. sopra cap. 5.7 [Speranza di misericordia di fronte alla sofferenza innocente].
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