mercoledì 7 agosto 2013

Donne innamorate di Dio

© 2013 Edizioni QiqajonIl Sole 24 Ore, 4 agosto 2013
di GIANFRANCO RAVASI
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LISA CREMASCHI
 Donne di comunione
Vite di monache d'oriente e d'occidente
Incastonato nella mente di molti c'è lo stereotipo di un cristianesimo antifemminile. Come tutti i luoghi comuni, anche questo pregiudizio ha una sua verità che non regge, però, in equilibrio al confronto con l'altro piatto ove troviamo la vivace presenza della donna come protagonista. Non si dimentichi, infatti, che il Cristo risorto appare innanzitutto a un gruppo di donne - una classe "inferiore" nello statuto sociale dell'antico Vicino Oriente - affidando loro l'incarico di "evangelizzare" gli apostoli maschi, tant'è vero che l'antica tradizione cristiana orientale non esiterà a chiamare Maria Maddalena «apostola degli apostoli». Lo stesso san Paolo giunge al punto di definire, nel finale della Lettera ai Romani, una tale Giunia «apostola» con suo marito Andronico (16,7), accanto a una piccola folla di altre donne, a partire dalla «diaconessa» Febe, per continuare con Prisca, Maria, Trifena, Trifosa, «la carissima Pèrside», la madre di Rufo, finendo con Pàtroba, Giulia, la sorella di Nereo e Olimpas. Si provi poi a scorrere le altre Lettere paoline per sfatare il mito di un Paolo misogino, fermamente convinto invece della pari dignità dei due sessi agli occhi della fede: «Non c'è più né giudeo né greco, non c'è schiavo né libero, non c'è maschio e femmina perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Galati 3, 28). Certo, il contesto socio-culturale non era quello odierno, né nell'orizzonte giudaico, né in quello grecoromano. Basti solo evocare la sconcertante preghiera mattutina suggerita dal Talmud babilonese all'ebreo maschio perché ringrazi Dio di non averlo fatto nascere né pagano, né donna, né ignorante. E, tanto per scegliere fior da fiore nell'altro settore, quello classico, un raffinato autore latino come Aulo Gellio (II sec.), nelle sue popolarissime Notti Attiche, era lapidario: Mulier, malum necessarium!
L'obiezione, però, potrebbe essere questa: come si è comportato il cristianesimo successivo nei confronti della donna? Una delle risposte sorprendenti - senza per questo cancellare le oscurità e le necessarie autocritiche ci viene offerta da una monaca di oggi, Lisa Cremaschi della comunità di Bose (Biella), che apre il sipario sulle sue colleghe dei primi secoli, vere e proprie matriarche o madri della Chiesa da accostare a patriarchi e padri della cristianità. Di esse l'autrice offre un'antologia di testimonianze o memorie, che vanno dalle origini fino alla sorella di san Benedetto, Scolastica, alle soglie del VI secolo, una donna celebrata da un papa, san Gregorio Magno, che le riserverà questo straordinario epitaffio: «poté di più colei che amò di più».
In questa ideale galleria di donne innamorate di Dio sfilano figure non di rado emozionanti, a cominciare dalla prima ricordata, Macrina, sorella di un altro grande Gregorio santo, il vescovo di Nissa in Cappadocia, che ne scrisse la biografia, e di un altro importante personaggio di quella Chiesa, san Basilio. «Con te anche la notte era illuminata come il giorno», la piangeranno le sue compagne monache sul letto di morte, donne aristocratiche ed ex-schiave che vivevano assieme a lei nella tenuta familiare di Macrina, trasformata in oasi spirituale. E poi c'è Sincletica, celebrata negli Acta sanctorum come «la perla ignorata da molti», una patrizia di Alessandria d'Egitto, ritiratasi avita contemplativa in un «sepolcro», ossia in uno dei tanti edifici funerari egizi orientati verso il Nilo. Potente nel suo ritratto biografico abbozzato da un altro grande della cristianità alessandrina, sant'Atanasio, la rappresentazione del suo crepuscolo nel disfacimento fisico: divenuta un agnello sacrificale afono come il Servo messianico cantato dal profeta Isaia (53,7), fissa lo sguardo sull'Invisibile perché «le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne».
E poi c'è il curioso (ma non unico) caso - dai contorni leggendari, ma dalla sostanza storica - di Maria «travestita» da uomo fino ad assumere il nome di «Marino» per poter entrare in monastero col padre vedovo, divenuto monaco. Parlavamo di matrice storica perché un concilio locale celebrato a Gangra (Turchia) nel 345 aveva emesso questo anatema contro una prassi tutt'altro che insolita: «Se una donna, per presunta ascesi, si taglia i capelli... e, al posto del consueto abito femminile, indossa quello maschile, sia anatema!». La provocazione di Maria-Marino, seguita da altre donne, riflette indirettamente il contesto maschile allora dominante a cui non si riusciva a proporre da parte femminile altra alternativa se non la sua imitazione. A questo proposito Lisa Cremaschi nell'introduzione alla sua antologia giustamente s'interroga: «Cercare la parità di diritti con l'uomo negando l'alterità è una via di liberazione per la donna? Non è forse soltanto un'ulteriore affermazione dell'inferiorità della donna che per potersi realizzare dovrebbe imitare la "superiorità" dell'uomo, diventare ciò che non è, negando la propria alterità?». È un po' in questa luce, prescindendo dalle questioni strettamente teologiche, che si dovrebbe impostare a livello generale la spinosa questione del dibattito sul sacerdozio femminile e, più in generale, quello del rapporto uomo-donna e della teoria del gender.
Lasciato alle spalle ormai da tempo (ma a livello pratico è proprio così?) il paradigma della "subordinazione" della donna all'uomo, così come il suo antipodo radicale femminista, si potrebbe andare oltre la rigida parità spesso artificiosa (le «quote rosa»...) e imboccare una via più "simbolica", cioè unificatrice, quella della reciprocità nell'equivalenza e nella differenza. È, dunque, indispensabile una metamorfosi, superando appunto sia il modello di inferiorità/complementarità, sia quello dell'astratta parità/identità, per sfociare in una reciprocità relazionale sulla base dell'equivalenza.
A questo esito aiutano anche le altre fisionomie femminili raccolte da Lisa Cremaschi: dalle «bibliste» Marcella e Paola, le nobildonne romane discepole e amiche di san Girolamo, il celebre traduttore latino delle Sacre Scritture, fino alla bellissima Melania la Giovane (così denominata per distinguerla dalla più radicale nonna Melania), ricca, affascinante, colta, appartenente all'alta società romana, coniugata contro la sua volontà a un cugino che con lei prenderà i voti monastici. Lasciamo ai lettori di seguire le avventure umane e spirituali di Melania attraverso la narrazione del suo segretario Geronzio, un nome liberamente evocato nel poemetto Gerontion di Eliot (1920). Rimane, comunque, forte l'impressione che queste donne di terre e origini diverse, capaci di inerpicarsi sui sentieri ardui della spiritualità e dell'interiorità, con libertà, originalità e creatività, lasciano nel lettore moderno. Spogliata della sua enfasi, dovremmo alla fine condividere la sostanza della considerazione del Diario di un poeta di Alfred de Vigny: «Dopo aver riflettuto bene sul destino delle donne in tutti i tempi e in tutti i Paesi, ho finito per convincermi che ogni uomo dovrebbe dire a ogni donna, invece del solito "buon giorno!", un "Perdona!"».

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