di ENZO BIANCHI JESUS, giugno 2013
Nella vita cristiana prima o poi si conosce, si sperimenta il paradosso della debolezza umana quale vera condizione per la forza evangelica. Esperienza quasi sempre faticosa, dolorosa, a caro prezzo, ma che risulta essenziale in un cammino di fede che sia anche conformazione alla vita di Gesù, un cammino pasquale. È Gesù stesso che lo rivela nel discorso della montagna, quando afferma che sono beati, felici, convinti di poter andare avanti con fiducia e di essere nella verità quanti sono poveri, miti, disarmati, perseguitati, affamati (cf. Mt 5,1-12); ma anche quando afferma: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo a lupi» (Mt 10,16), chiedendo ai cristiani la debolezza degli agnelli in mezzo a un branco di lupi.
Nella vita cristiana prima o poi si conosce, si sperimenta il paradosso della debolezza umana quale vera condizione per la forza evangelica. Esperienza quasi sempre faticosa, dolorosa, a caro prezzo, ma che risulta essenziale in un cammino di fede che sia anche conformazione alla vita di Gesù, un cammino pasquale. È Gesù stesso che lo rivela nel discorso della montagna, quando afferma che sono beati, felici, convinti di poter andare avanti con fiducia e di essere nella verità quanti sono poveri, miti, disarmati, perseguitati, affamati (cf. Mt 5,1-12); ma anche quando afferma: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo a lupi» (Mt 10,16), chiedendo ai cristiani la debolezza degli agnelli in mezzo a un branco di lupi.
Si faccia
però attenzione. Questo canto alla debolezza non è un canto al male, alla
sofferenza, alla prova, alla miseria – come Friedrich Nietzsche ha imputato al
cristianesimo –, ma è una rivelazione: la debolezza di fatto può essere una
situazione in cui, se chi la vive sa viverla con amore (cioè continuando ad
amare e ad accettare di essere amato), la potenza di Cristo raggiunge la sua
pienezza. Ma questo messaggio, peraltro centrale nel Nuovo Testamento, è
scandaloso e può sembrare follia (cf. 1Cor 1,18-31), e noi cristiani abituati a
tali parole siamo disposti a ripeterle ma non a viverle nell’amore:
quest’ultima è la vera sfida, perché la debolezza è fondativa dell’antropologia
cristiana.
Confessiamolo
però con onestà: quando osserviamo la vita nel suo svolgersi quotidiano, quando
tentiamo di leggere la storia e le storie, constatiamo che sono la potenza, la
forza, l’arroganza, la violenza ad avere successo, e perciò ci diventa arduo
scorgere nella debolezza una possibile beatitudine. Siamo capaci di accogliere
la nostra debolezza, che si presenta a noi sovente come umiliazione? Siamo
disposti a vedere in essa un’occasione di spogliazione, per essere condotti
all’«unica cosa necessaria» (Lc 10,42)? Non solo individualmente, ma come
comunità, come chiesa siamo capaci di leggere nella debolezza il linguaggio
della «discreta caritas», dell’amore discreto che è vissuto
quotidianamente senza alzare la voce, senza voler «dare testimonianza» a noi
stessi?
Forse solo quando smettiamo di parlare di poveri, di
handicappati, ma siamo di fronte a un uomo o a una donna in carrozzella, a una
persona colpita nei mezzi abituali di comunicazione; quando ci troviamo davanti
a un corpo ferito e dilaniato dalla malattia e dal dolore; quando stringiamo le
mani di un povero che le ha tese verso di noi, mettendo le nostre mani nelle
sue, forse solo allora comprendiamo il dramma della debolezza e siamo capaci di
discernere dove Cristo ha messo la sua tenda.
C’è poi anche una forma particolare di debolezza, che
non può essere dimenticata: quella dell’umiliazione che nasce dal nostro
peccato, a volte dal nostro vizio o peccato ripetuto, in cui cadiamo e poi ci
rialziamo, cadiamo e poi ci rialziamo ancora… Siamo umiliati davanti a Dio e
agli uomini, anche in questo sia come singoli cristiani sia come chiesa. «Bene
per me essere stato nella debolezza» (Sal 119,71), prega il salmista davanti a
Dio, ma è bene anche per la chiesa essere umiliata, conoscere giorni di
non-successo, di sterilità, di impotenza tra le potenze di questo mondo, a
volte addirittura di insignificanza. Non è stato forse questo il tragitto di
Gesù nell’ultima parte del suo ministero, dopo i successi e la favorevole
accoglienza iniziale? Sì, dobbiamo nuovamente confessarlo: facile a dirlo,
difficile da accettare e soprattutto da vivere senza tradire l’amore.
San Bernardo, colui che conobbe forse il più grande
successo possibile per un monaco nella storia, sperimentò pure un’ora di umiliazione,
di fragilità e di miseria anche esistenziale. Fu, per sua stessa ammissione,
una crisi spirituale e morale che lo obbligò a vivere per un anno fuori dal suo
monastero. In quel tempo comprese molte cose della vita cristiana che non aveva
capito prima; comprese soprattutto che nella debolezza si impara meglio la
relazione con gli altri e con Dio, e conobbe veramente cos’è la grazia, la
misericordia di Dio. E così giunse ad esclamare: «Optanda infirmitas!»,
«O desiderabile debolezza!» (Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7).
Sì, è possibile giungere ad affermare questo, ben sapendo però che nel mestiere
di vivere la debolezza appare sempre anche come prova, come faticosa prova.
Elogio della debolezza (E.Bianchi)
Avvenire, 10 luglio 2011
(…) La debolezza, l’asthenía che
nasce dalla malattia, dall’handicap, dall’umiliazione, dalla sofferenza imposta
dalla vita, nel cristianesimo se è vissuta come un cammino pasquale può
diventare un luogo in cui si fa sentire
la forza di Dio. Questo viene proclamato da Gesù nel discorso della montagna,
quando afferma che sono beati, felici, convinti di poter andare avanti con
fiducia e di essere nella verità quanti sono poveri, miti, disarmati,
perseguitati, affamati (cf. Mt 5,1-12). L’Apostolo Paolo nella II lettera ai
Corinzi compone addirittura quello che potrebbe essere definito un inno alla
debolezza: «Il Signore mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza
infatti si esprime pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben
volentieri delle mie debolezze, perché metta la sua tenda in me la potenza di
Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle
difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti
quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9-10). In questo
testo vanno sottolineate due espressioni: la potenza del Signore si esprime
pienamente nella debolezza e la potenza di Cristo mette la sua tenda – la Shekinah,
cioè la presenza di Dio – là dove trova la debolezza dell’uomo. Tuttavia questo
canto alla debolezza non è un canto al male, alla sofferenza, alla prova, alla
miseria – come Nietzsche ha imputato al cristianesimo –, ma è una rivelazione:
la debolezza di fatto può essere una situazione in cui, se chi la vive sa
viverla con amore (cioè continuando ad amare e ad accettare di essere amato),
la potenza di Cristo raggiunge la sua pienezza. Ma questo messaggio, peraltro
centrale nel Nuovo Testamento, è scandaloso e può sembrare follia (cf. 1Cor
1,18-31), e noi cristiani abituati a tali parole siamo disposti a ripeterle ma
non a viverle nell’amore: quest’ultima è la vera sfida, perché la debolezza è
fondativa dell’antropologia cristiana. Confessiamolo: quando osserviamo la vita
nel suo svolgersi quotidiano, quando tentiamo di leggere la storia e le storie,
constatiamo che sono la potenza, la forza, l’arroganza, la violenza ad avere
successo, e perciò ci diventa arduo scorgere nella debolezza una possibile
beatitudine. Siamo capaci di accogliere la nostra debolezza, che si presenta a
noi sovente come umiliazione? Siamo disposti a vedere in essa un’occasione di
spogliazione, per essere condotti all’«unica cosa necessaria» (Lc
10,42)? (…) Forse solo quando smettiamo di parlare di poveri, di handicappati,
ma siamo di fronte a un uomo o a una donna in carrozzella, a una persona
colpita nei mezzi abituali di comunicazione; quando ci troviamo davanti a un
corpo ferito e dilaniato dalla malattia e dal dolore; (…) forse solo allora
comprendiamo il dramma della debolezza e siamo capaci di discernere dove Cristo
ha messo la sua tenda. C’è poi anche una forma particolare di debolezza: quella
dell’umiliazione che nasce dal nostro peccato, a volte dal nostro vizio o
peccato ripetuto, in cui cadiamo e poi ci rialziamo, cadiamo e poi ci rialziamo
ancora… Siamo umiliati davanti a Dio e agli uomini, anche in questo sia come
singoli cristiani sia come chiesa. «Bene per me essere stato nella debolezza»
(Sal 119,71), prega il salmista davanti a Dio, ma è bene anche per la chiesa
essere umiliata, conoscere giorni di non-successo, di sterilità, di impotenza
tra le potenze di questo mondo, a volte addirittura di insignificanza. Non è
stato forse questo il tragitto di Gesù nell’ultima parte del suo ministero,
dopo i successi e la favorevole accoglienza iniziale? (…)
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