Fino a
pochi decenni fa era semplice distinguere l’umanità in maschi e femmine: era
sufficiente prendere in considerazione gli attributi sessuali per stabilire a
quale sesso si appartenesse. Il rischio tuttavia era quello di giustificare
come “naturale” (cioè stabilito dalla natura) il fatto che a tale
differenziazione corrispondesse anche un primato del maschile e una
discriminazione delle donne (ricordiamoci ad esempio che, fino a pochi decenni
fa, non potevano votare).
A partire
dagli anni ’70 nasce nel mondo anglosassone un movimento di pensiero che
complica notevolmente le cose con l’intento di distruggere ogni
discriminazione: non si devono considerare solo le differenze fisiche e biologiche[1],
ma anche quelle psicologiche e culturali di identità di “genere” o “gender” (ovvero basta eliminare la componente culturale
che stabilisce come debbano comportarsi gli uomini e come le donne per lasciare
libera la persona di esprimersi così come si percepisce, in accordo o meno con
il proprio sesso biologico) e quelle dell’orientamento
sessuale (ovvero l’attrazione sessuale verso il proprio o l’altrui sesso o
per entrambi) e del comportamento sessuale (cioè il modo con cui esprimo il mio
orientamento).
Ne
consegue che l’essere un maschio o una femmina eterosessuale, cosa che prima si
riteneva naturale e dunque l’unica lecita, è una delle tante possibilità. Posso
sentirmi donna in un corpo maschile o altre possibili varianti che faranno di
me un maschio o una femmina o un transessuale attratto da uomini o da donne o
da animali o da oggetti… Tutto lecito, a patto di non far del male a nessuno.
Da qui la sigla (già inadeguata ad esprimere ogni identità) dei GLBTQ (Gay Lesbiche Bisessuali
Transessuali e Queer[2])
In questo
modo tutti possono sentirsi accolti nelle loro peculiari caratteristiche e non
discriminati. Per far questo si devono riconoscere a pari livello ogni forma di
unione si voglia stabilire (compresa anche quella poligamica o incestuosa?) e
garantire a tutti il diritto (!) ad avere figli, o naturali, o “artificiali”
(in provetta o con l’utero di un’altra donna in affitto) o per adozione.
Per
arrivare a tale tolleranza e libertà bisogna agire nei bambini fin dall’asilo e
contrastare la consuetudine di indicare loro quali comportamenti sono più
adatti per le femmine (ad esempio: giocare con le bambole, avere i capelli
lunghi…) e quali per i maschi (giocare a pallone o con i soldatini, avere i
capelli corti, non piangere…). Bisogna insegnare subito che è normale avere genitori
omosessuali (per cui, basta parlare di mamma e papà, tutt’al più di “genitore
1” e di “genitore 2”), così come averli eterosessuali; giocare, vestirsi e
comportarsi come meglio si crede; scegliere se ci sente più maschi o più
femmine, se attratti dai maschi o dalle femmine, uscire da ogni categoria
mostrandosi allo stesso tempo (e magari variando nel tempo) un po’ maschio e un
po’ femmina (mito dell’androgino[3]
che ha caratteristiche fisiche maschili e femminili allo stesso tempo, anche se
più correttamente si dovrebbe parlare di ermafroditi)…
L’ideologia
gender è talmente avanzata nei paesi occidentali (forse troppo poco in quelli
arabi o africani) da arrivare a formulare leggi che permettano di chiedere
l’arresto per chi si azzardi a pensarla diversamente: l’omofobia va’
condannata! Dunque condanniamo al carcere (o almeno a pagare multe salate) i
cristiani che ancora si azzardino a dire che l’ordine naturale è costituito da
maschi e femmine eterosessuali e che solo tra loro si possa parlare di una particolare
unione che chiamiamo matrimonio con la possibilità di un’adozione. Guai a dire
che l’omosessualità sia una devianza rispetto l’ordine naturale e che una cosa
è rispettare la dignità di ogni persona altra è giustificare ogni suo
comportamento. Guai a dire che avere un figlio non è un diritto (che io Stato
devo tutelarti e garantirti!) come non lo è sposarsi (non posso obbligare
qualcuno a farlo con te nel caso che tu non riesca a farlo da solo) o avere una
villa con piscina.
Posso
riconoscere in me particolari inclinazioni o tendenze sessuali, ma non è detto
che siano tutte lecite, tutte buone, tutte da tutelare legislativamente da
parte dello Stato. Le mie inclinazioni verso degli oggetti (feticismo) o degli
animali (zoofilia), verso il sadismo o il masochismo (a condizione, ovviamente,
che sia consensuale) deve essere ugualmente tutelato? Non è possibile vivere la
propria inclinazione o perversione (a patto sempre che non sia lesiva di altri)
senza pretendere di avere gli stessi diritti di una coppia eterosessuale? Non
stiamo forse discriminando gli islamici che desiderano formare coppie
poligamiche, o altre unioni che possono richiedere ampliamenti rispetto alla
famiglia mononucleare? Stiamo discriminando dei fratelli che si amano e
vorrebbero che il loro incesto sia legalizzato e tutelato? Stiamo arrivando a
tutelare tutte queste forme in nome della tolleranza?
Pari dignità non significa essere uguali così come essere
diversi non significa essere migliori o peggiori. Negare le differenze e le reciproche complementarietà non è in fondo la
vera discriminazione del nostro tempo?
La Chiesa parla di
“uguaglianza nella diversità”, cioè riconoscere pari dignità ad ogni essere
umano, ma senza negare le diversità che ci sono tra di essi. Parla di creazione
e dunque di un Creatore che ha immesso una finalità alle realtà che ha create.
Parla della sessualità non solo come uno strumento di piacere (da vivere come
meglio mi aggrada), ma come espressione della propria identità e soprattutto
come spinta relazionale volta ad amare in pienezza chi può completare la mia
vita con le sue differenze (anche fisiche, senza che debba utilizzare pertugi
non appropriati) e possa dare vita (e non rimanere stabilmente sterile o debba
ricorrere a metodi artificiali o di dubbia eticità), ed essere aperta agli
altri (per non costruire un “egoismo a due”).
Secondo
Carlo Maria Martini si deve seguire il criterio del “di più” (magis): occorre cioè “assicurare il
massimo di condizioni favorevoli concretamente possibili. Quando è data la
possibilità di scegliere, occorre scegliere il meglio”. E il meglio, per quanto
riguarda l’adozione, consiste in “una famiglia composta da un uomo e una donna
che abbiano saggezza e maturità”[4].
Un
bambino accede al mondo per tramite della differenza sessuale: ci vogliono un
maschio e una femmina affinché nasca un bambino, e questo anche nel caso di un
bambino che venga cresciuto da una coppia omosessuale. Il bambino che nasce
gode già di un’identità psico-fisica, data dall’uomo e dalla donna che l’hanno concepito,
come pure già gode di una comunicazione affettiva intensa, perlomeno con colei
che lo ha portato in grembo, trattandosi non di incubatrice, ma di una donna
vivente. Che i genitori da cui nasce il figlio siano i medesimi che lo
cresceranno non è lo stesso che se fossero altri. Che i genitori che crescono
il figlio siano gli stessi lungo il corso del tempo non è lo stesso che se
cambiassero. L’univocità delle figure genitoriali è in linea di principio
migliore della loro molteplicità, se si tiene conto del fatto che ogni
variazione delle figure genitoriali non è senza trauma e comporta comunque un
ri-adattamento del bambino[5].
Ha fatto
scalpore la diatriba scoppiata nel
marzo scorso tra Dolce & Gabbana,
stilisti gay dichiarati, e Elton John
che oltre ad essere un gay dichiarato, è anche “sposato” con un altro uomo con cui
condivide due figli “sintetici” nati da una madre surrogata
grazie alla fecondazione artificiale. Questa la
dichiarazione di Domenico Dolce che ha fatto infuriare sir Elton John che ha
subito invocato il boicottaggio dei loro prodotti (con
l’hashtag #BoycottDolceGabbana):
«Non l’abbiamo inventata mica noi la famiglia. L’ha
resa icona la Sacra famiglia, ma non c’è religione, non c’è stato sociale che
tenga: tu nasci e hai un padre e una
madre. O almeno dovrebbe essere così, per questo non mi convincono quelli che
io chiamo figli della chimica, i bambini sintetici. Uteri in affitto, semi scelti da un catalogo. E poi vai a spiegare a
questi bambini chi è la madre. Procreare deve essere un atto d’amore, oggi
neanche gli psichiatri sono pronti ad affrontare gli effetti di queste
sperimentazioni», ha detto Domenico Dolce in un’intervista a Panorama. E
ancora: «La vita ha un suo percorso naturale, ci sono cose che non vanno
modificate. E una di queste è la famiglia».
La replica della star inglese:
«Ma come si permettono di definire i miei figli
“bambini sintetici”. Il loro è un pensiero antico, per nulla al passo coi
tempi, proprio come la loro moda. Non indosserò mai più un vestito di Dolce
& Gabbana». Il post ha ricevuto in poco tempo oltre 3mila like e migliaia
di commenti solidali[6].
Altro
caso, senza uguale scalpore: agosto 2014, una
coppia di australiani che si è recata in Thailandia per avere un figlio con
l’utero in affitto si rifiuta di prendere entrambi i gemelli concepiti perché uno
è affetto da sindrome di Down.
Il caso del piccolo Gammy, che oggi ha sei mesi, ha fatto il giro del mondo con la madre surrogata
che ha chiesto aiuto perché gli venga salvata la vita. Gammy, infatti, è attualmente
ricoverato in ospedale per un’infezione polmonare.
La madre surrogata, Pattharamon
Chanbua, ha dichiarato di aver accettato il “lavoro” per guadagnare i circa 12
mila euro promessi. Con questi «avrei potuto mantenere i miei due figli e
pagare i debiti». Al settimo mese, però, è stata contattata dall’agenzia che ha
organizzato la maternità surrogata: «Mi hanno chiamata e mi hanno detto che i
genitori volevano che abortissi perché il bambino aveva la sindrome di Down. Io
non lo sapevo ma ho detto loro che non l’avrei fatto». Secondo la donna di 21
anni la coppia australiana è stata un mese in Thailandia dopo la nascita dei
gemelli ma si è rifiutata di prendere con sé Gammy, tenendo solo la gemellina
sana.
Il caso ha aperto molti interrogativi
sulla pratica della maternità surrogata. La madre, che ha deciso di tenere il
bambino, ha dichiarato: «Mi sento in colpa per Gammy. Non è colpa sua. Perché
lui deve essere abbandonato mentre sua sorella no?»[7].
[1] Che sono allo stesso tempo genetiche (ogni nostra
cellula è distinta in maschile, xy o femminile xx), somatiche e celebrali,
essendo anche il nostro modo di pensare, di ragionare, di amare differente.
[2] Il Queer,
letteralmente “strano, stravagante”, fuori dai canoni, indica una persona che
non vuole essere incanalata in una particolare categoria sessuale. Un esempio
tratto dal mondo dello spettacolo: il Festival della canzone europea ha
premiato nel maggio 2014 l’austriaco Tom Neuwirth, in arte Conchita Wurst,
apparso per l’occasione nelle “vesti” di donna barbuta, di travestito con la
barba. L’ambiguità e l’indeterminazione del genere sessuale diviene lo
strumento per superare ogni identità naturalmente costituita.
[3] Vedi il video di una pubblicità giapponese: http://www.bresciaoggi.it/home/video/fun/giappone-studentesse-o-studenti-lo-spot-svela-il-trucco-1.4429215?video=8&list=all&pag=1
[4] Cit. in A. Fumagalli, La questione gender, Queriniana 2015, p.89.
[5] Id.
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