«Il celibato sacerdotale, un cammino di libertà» è il tema del convegno svoltosi dal 4 al 6 febbraio alla Pontificia università Gregoriana. A conclusione dei lavori è intervenuto il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. Questo il testo integrale del suo intervento.
Ho l’onore di concludere questo Convegno sul tema “ Il celibato sacerdotale, un cammino di libertà ”, promosso dalla Pontificia Università Gregoriana, che vorrei ringraziare nella persona del Rettore P. François-Xavier Dumortier, non solo per l’invito rivoltomi, ma soprattutto per aver dedicato spazio, tempo ed energie a un tema tanto importante quanto delicato. Desidero inoltre ringraziare Monsignor Tony Anatrella, psicanalista, specialista in psichiatria sociale, consultore e collaboratore di vari Dicasteri della Curia Romana, anche lui ideatore e organizzatore dell’iniziativa.
Su questa dimensione della vita del prete non mancano numerosi studi che abbracciano le diverse discipline e, anche nel corso degli ultimi decenni, essa è stata oggetto di approfondimento da parte della Chiesa. Tuttavia, al di là dei pronunciamenti del Magistero e degli studi specialistici, la percezione comune sul tema rischia di rimanere su un piano superficiale o, quantomeno, parziale. Molte volte non si comprende bene né il significato e né il valore della scelta celibataria; altre volte, intorno ad essa si fanno importanti riflessioni di taglio sociologico e psicologico che, tuttavia, non sono inserite in una dimensione teologica ed ecclesiale; in altre occasioni, rispetto alla mutevolezza dei tempi e a nuove esigenze, ci si chiede “che male ci sarebbe, in fondo, se fossero anche sposati”.
Ciò che mi sembra ci aiuti a correggere il tiro – pur nella consapevolezza che parliamo di un aspetto intrecciato alla vita umana e non di una teoria speculativa – è il titolo che avete inteso dare a questa iniziativa, “un cammino di libertà”, dal quale inizierei la riflessione. Successivamente, vorrei mettere in relazione il celibato con l’identità del sacerdote e con le esigenze connesse alla missione pastorale.
1. Un cammino di libertà
Partirei, dunque, dal titolo “cammino di libertà”. Sono qui contenute due parole significative che, in questa introduzione, vorrei brevemente sviluppare:
il cammino : la parola esprime l’atteggiamento di fondo del credente diventato discepolo: egli avanza nell’incontro con Dio quanto più si lascia attrarre dalla Sua chiamata e si mette sulle orme dei suoi passi. L’orientamento a offrire la propria esistenza in una prospettiva celibataria per il Regno di Dio, pur essendo definitivo nella scelta iniziale e nelle intenzioni, non può mai essere inteso come una conquista posseduta una volta per sempre; al contrario, come per tutti gli altri aspetti della vita sacerdotale, anche in questo ambito restiamo sempre in cammino, discepoli alla scuola del Maestro, talvolta sorpresi dalla stanchezza e dai dubbi, altre volte posti, dalle stesse incombenze del ministero, nella solitudine o nel bisogno affettivo di un riconoscimento. L’aver ricevuto una chiamata così importante dall’alto e il doverla vivere con tutte le dimensioni del proprio essere impone al prete una serena umiltà, che lo liberi dalla presunzione di potercela fare da solo; come ci ha ricordato il Santo Padre nella Messa del Crisma di due anni fa, per dirci quanto è povero un prete che non si affida alla grazia di Dio, « Nessuno è più piccolo di un sacerdote lasciato alle sue sole forze »1. Come sappiamo, una regola fondamentale della stessa vita spirituale è quella di non sentirsi mai arrivati, di non cadere in quella presunzione che nasce da una esagerata fiducia nelle proprie forze, priva di umiltà e affidamento. In nessun campo, ma forse è il caso di dire soprattutto in quello così delicato che riguarda la scelta del celibato, ci si può sentire al “sicuro” per sempre, e al riparo dalla lotta spirituale e dalla necessità della conversione. Pertanto, « Il sacerdote non deve credere che l'ordinazione gli renda tutto facile e che lo metta definitivamente al riparo da ogni tentazione o pericolo »2, ma, al contrario, ogni giorno egli deve rinnovare l’offerta della propria vita a Cristo e alla Chiesa, sperimentandone il fondamento nella preghiera e nell’esercizio della missione. Nel campo del celibato occorrono di giorno in giorno un’attenta vigilanza su se stessi e una evangelica prudenza ma, ancor prima, la capacità di affidare con umiltà la propria vita sacerdotale alla grazia di Dio, nella consapevolezza che il prete è « uomo esposto al combattimento spirituale contro le seduzioni della carne in se stesso e nel mondo, col proposito incessantemente rinnovato di perfezionare sempre più e sempre meglio la sua irrevocabile offerta, che lo impegna a una piena, leale e reale fedeltà »3;
la libertà : è la seconda parola del titolo da voi scelto, ed è un presupposto necessario per comprendere il significato del celibato. Nel nostro contesto, questa parola specifica il senso del cammino, dal momento che parliamo di “cammino di libertà”. Cosa significa? Direi che la quotidiana offerta di sé, rinnovata nella preghiera e nel ministero, con cuore umile e aperto alla Grazia, permette al contempo una crescita e una maturazione di tutta la nostra persona. L’uomo è un unico mistero, senza separazioni o giustapposizioni; è un essere “infinitamente aperto” perché proviene da Dio ed è segnato con l’unzione dello Spirito Santo. Se è così, ogni aspetto di crescita della vita spirituale si intreccia e ingloba una crescita integrale degli altri aspetti della propria umanità; è quanto andiamo ripetendo anche rispetto alla formazione dei sacerdoti: se non c’è l’uomo non può esservi neanche il prete. Questo profondo legame, che fa di ciascuno di noi una creatura da sempre aperta alla relazione fondante con Dio, esige che da parte nostra vi sia un’attiva collaborazione con l’opera della grazia divina; quindi, da una parte dobbiamo fuggire il volontarismo che fa difendere tutto dalle sole forze umane ma, dall’altra, dobbiamo imparare che Dio ci trasforma se ci lasciamo modellare e se collaboriamo con Lui. Qui tocchiamo il punto essenziale, cioè la libertà. Dio vuole far crescere l’uomo nella sua libertà di figlio, senza forzare mai la mano, cioè rispettandone la libertà e coinvolgendolo nel processo. Questa modalità, che concerne l’essere di Dio e la sua azione, si rispecchia in ogni ambito della vita ecclesiale e personale e, perciò, anche nel celibato. Anche qui la risposta all’azione di Dio, che chiede un’unione totale con lui e una dedizione piena per il servizio al Regno di Dio, non nasce da una rinuncia cieca, da un ascetismo mortificante o da un semplice “obbligo canonico”. Piuttosto, egli chiede uomini liberi, interiormente sereni, con una struttura personale equilibrata e matura, consapevoli delle esigenze della chiamata e liberamente disponibili, con l’aiuto della Grazia, a viverle pienamente. Solo un uomo libero può essere anche serenamente celibe e, dunque, il celibato è un cammino di libertà che dura tutta la vita.
Come si può vedere, da questo primo approccio si evincono due aspetti che ci aiutano a leggere positivamente il celibato in relazione alla vita dei sacerdoti: non si tratta di una richiesta disumana, della passiva accettazione di una regola imposta, di un eroismo conquistato attraverso uno sforzo di rinuncia o, ancora, di una mèta ideale che non pretenderebbe l’impegno di un cammino personale, umano e spirituale; al contrario, si tratta di una scelta di libertà, che matura in maniera connessa alla chiamata al presbiterato, e viene interiormente accolta per corrisponderle con un cuore libero e indiviso.
Per chiarire meglio, possiamo rifarci alla sapienza con cui l’Apostolo Paolo parla del rapporto tra la Legge e lo Spirito: questa legge esterna, che la Chiesa Latina richiede per il sacerdozio ministeriale, è profondamente connessa alla maturazione dell’identità presbiterale del chiamato e alle richieste del ministero, tanto da diventare una “legge interna”, scritta con l’inchiostro dello Spirito. Vale qui la pena di ricordare ancora le belle parole del Beato Paolo VI: « In tal modo, l'obbligo del celibato, che la Chiesa annette oggettivamente alla sacra ordinazione, è fatto personalmente proprio dal soggetto, sotto l'influsso della grazia divina e con piena consapevolezza e libertà, non senza, è ovvio, il consiglio prudente e sapiente di provati maestri di spirito, intesi non già ad imporre, ma a rendere più cosciente la grande e libera opzione; e in quel solenne momento, che deciderà per sempre di tutta la sua vita, il candidato sentirà non il peso di una imposizione dall'esterno, ma l'intima gioia di una scelta fatta per amore di Cristo »4.
Questo cammino di libertà conduce a interiorizzare l’identità presbiterale a immagine di Cristo e, al contempo, a vivere con generosità totale il ministero. Identità e ministero del prete sono i due grandi ambiti con i quali il celibato è in relazione; riprendendo la prospettiva del Concilio Vaticano II, potremmo dire: si tratta di una dimensione che «ha per molte ragioni un rapporto di convenienza con il sacerdozio […] Con la verginità o il celibato osservato per il regno dei cieli, i presbiteri si consacrano a Dio con un nuovo ed eccelso titolo, aderiscono più facilmente a lui con un cuore non diviso, si dedicano più liberamente in lui e per lui al servizio di Dio e degli uomini, servono con maggiore efficacia il suo regno e la sua opera di rigenerazione soprannaturale, e in tal modo si dispongono meglio a ricevere una più ampia paternità in Cristo »5.
2. Il mistero del prete: uomo configurato a Cristo
Possiamo riferirci, ora, ai due ambiti con cui il celibato è strettamente connesso: l’identità del prete in quanto egli è configurato a Cristo e la sua missione pastorale. Egli, infatti, non solo compie degli atti singoli in persona Christi, ma è chiamato a conformare la vita intera alla missione pastorale del Maestro: vivendo così sulle orme del Cristo in un’offerta libera, totale e gratuita per il Popolo di Dio. Partirei dal primo aspetto, e precisamente dal considerare il paradosso della persona del prete: un uomo configurato a Cristo.
Come sappiamo, la persona umana sfugge ad ogni tentativo di semplificazione e ad ogni analisi oggettiva; essa esige di essere compresa nella sua interezza e nella globalità degli aspetti, restando in qualche modo un interrogativo aperto, una domanda che proietta oltre, una realtà che trascende il dato puramente biologico, psicologico e sociale. Potremmo dire che ciò vale, per alcuni aspetti in maniera amplificata, per la persona del prete. Egli porta impresso il segno del mistero di Dio e, per certi versi, rimangono nascoste al mondo le ragioni profonde del suo cuore e le mozioni interiori che lo spingono a offrire la propria vita per gli altri.
Chi è quest’uomo? Che cosa vive veramente? Quali sono le radici di quelle motivazioni che lo hanno spinto a offrirsi a Cristo e donare la vita ai fratelli?
Per rispondere a questi interrogativi, abbiamo bisogno di collocare l’identità del sacerdote in Cristo. L’aspetto fondamentale dell’identità del prete, cioè, è paradossalmente il suo essere in qualche modo “spossessato”, il suo “non appartenersi”, il semplice essere “chiamato” e, perciò, egli è prete solo nella misura in cui la sua vita è totalmente rivolta a Colui che lo chiama. Il sacerdote è tale solo se “esce da se stesso”, lasciandosi radicare in Cristo e configurare a Lui, per assumere lo stesso cuore del Buon Pastore che accompagna, guida, cura e offre la vita per il suo gregge. Papa Francesco ha chiarito questo aspetto con parole molto efficaci: « Il sacerdote che pretende di trovare l’identità sacerdotale indagando introspettivamente nella propria interiorità forse non trova altro che segnali che dicono “uscita”: esci da te stesso, esci in cerca di Dio nell’adorazione, esci e dai al tuo popolo ciò che ti è stato affidato, e il tuo popolo avrà cura di farti sentire e gustare chi sei, come ti chiami, qual è la tua identità e ti farà gioire con il cento per uno che il Signore ha promesso ai suoi servi. Se non esci da te stesso, l’olio diventa rancido e l’unzione non può essere feconda. Uscire da sé stessi richiede spogliarsi di sé, comporta povertà »6.
Dunque, parliamo di un uomo la cui identità profonda, intimamente connessa al servizio che svolge, dipende da un primato di Dio: è Lui che lo ha chiamato per primo, costituendolo a favore degli uomini, nelle cose che riguardano Dio (cfr. Eb 5,1).
Se proviamo a sviscerare questa realtà, ci imbattiamo in una lettura teologica del ministero ordinato, sulla quale tuttavia non vorrei dilungarmi molto, dal momento che essa è ben approfondita dagli studiosi, specialmente in luoghi come questi; basterà solo riferirsi, in linea con la riflessione del Concilio Vaticano II, al fatto che il presbitero è configurato a Cristo Sacerdote: « Il sacerdozio dei presbiteri – afferma Presbyterorum Ordinis – viene conferito attraverso quel peculiare sacramento nel quale i presbiteri, per l’unzione dello Spirito Santo, sono segnati con uno speciale carattere e sono in tal modo configurati a Cristo sacerdote, così che possano agire in persona di Cristo capo »7.
Il Concilio ha inteso questo aspetto in senso ampio e dinamico, cioè non riducendolo alla sola dimensione ontologica, cultuale e sacrale, ma inserendolo nella prospettiva della missionarietà della Chiesa; nella Lumen gentium (n. 28), infatti, troviamo questa dimensione cristologico-missionaria del presbiterato: come Cristo è stato unto dal Padre per essere mandato agli uomini, il sacerdote è unto in Cristo per servire i fratelli.
È molto significativo per noi, oggi, sapere che su questa linea si sviluppa, negli anni post-conciliari, la riflessione dell’allora teologo Joseph Ratzinger, secondo il quale l’autocomprensione di Gesù di essere l’inviato del Padre è il punto di partenza per la scelta, che Gesù stesso farà, di chiamare e inviare gli Apostoli 8. Questa prospettiva, senza sminuire l’importanza del legame tra presbitero e Cristo, ha il vantaggio di includervi il legame con la Chiesa e con la missione pastorale a servizio dell’umanità.
Cristo e la Chiesa, anche quando parliamo dell’identità del presbitero, non vanno mai dissociate. È dentro questa prospettiva che il Concilio ha inteso parlare della “speciale convenienza” del celibato sacerdotale: Questa visione d’insieme ci offre la possibilità di inquadrare la richiesta e la scelta del celibato: esso è segno della configurazione a Cristo, anche nella sua scelta verginale; al contempo, è segno dell’amore totale e della dedizione assoluta verso la Chiesa, a immagine di Cristo sposo e pastore che offre la sua vita per l’umanità.
La configurazione a Cristo che rappresenta il fondamento dell’identità del presbitero, dunque, porta in sé un significato sponsale, che si esprime nella donazione personale a Cristo e alla Sua Chiesa, come segno dell’amore universale di Dio per gli uomini e anticipo del Regno futuro. Il sacerdote, pertanto, configurato a Cristo, è chiamato a vivere quella carità pastorale, che è il dono totale di se stesso alla Chiesa, segno vivente della carità di Cristo per la sua Sposa.
Infatti, la Pastores dabo vobis specifica che la motivazione ultima consiste «nel legame che il celibato ha con l'Ordinazione sacra , che configura il sacerdote a Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo l'ha amata. Il celibato sacerdotale, allora, è dono di sé in e con Cristo alla sua Chiesa ed esprime il servizio del sacerdote alla Chiesa in e con il Signore. Per un'adeguata vita spirituale del sacerdote occorre che il celibato sia considerato e vissuto non come un elemento isolato o puramente negativo, ma come un aspetto di un orientamento positivo, specifico e caratteristico del sacerdote: egli, lasciando il padre e la madre, segue Gesù buon Pastore, in una comunione apostolica, a servizio del Popolo di Dio »9.
Esprimendo la libertà e la dedizione per questo dono di sé agli altri, e quindi lo sposalizio con la comunità alla quale si è inviati, il celibato non può essere letto anzitutto come una rinuncia o come una separazione dall’umanità; al contrario, esso manifesta il profondo legame tra il prete e il popolo: il prete ama il suo popolo e la Chiesa con cuore indiviso, amore totale, dedizione gratuita e assoluta, a immagine di Cristo Sposo e Buon pastore, al quale egli è configurato.
Se l’identità del presbitero viene interiorizzata in questa direzione, è possibile abbracciare il celibato e coglierne, insieme alle sfide che pone, il valore e la bellezza. La cosa diventa più difficile, o forse impossibile, se il prete viene associato a una sorta di funzionario, a un manager chiamato a gestire con la sua leadership un’azienda, o a un sacerdote il cui ambito di azione si limita alla sfera del sacro.
3. Il celibato, vocazione per la missione
Dopo aver accennato ad alcuni aspetti della natura e dell’identità del sacerdozio cristiano, in questa seconda parte intendo soffermarmi in modo più specifico sul “celibato sacerdotale”, in virtù del fatto che esso, pur « non richiesto dalla natura stessa del sacerdozio », è «particolarmente confacente alla vita sacerdotale » (PO, n. 16), come ha ricordato il Concilio Vaticano II. Le differenti prassi in uso presso le Chiese Cattoliche Orientali e la Chiesa Latina trovano in queste due affermazioni la loro ragion d’essere. In questo contesto, l’oggetto della mia riflessione sarà il celibato sacerdotale, vissuto e accolto nella Chiesa Latina e « tenuto in grandissima stima» (can. 373 CCEO) dalle Chiese Cattoliche Orientali, presso le quali di norma esistono presbiteri uxorati.
Ho preferito non proporre in questo intervento una carrellata sui fondamenti neotestamentari – già efficacemente presentati nell’intervento della dott.ssa Manes – e storici del celibato, essendo questi un dato acquisito nei loro elementi essenziali, a partire, ad esempio, dal Concilio di Elvira (306) o dai primi provvedimenti “ufficiali” di Papa Siricio (385), che costituiscono una sintesi dell’esperienza ecclesiale dei primi secoli. Dirò solo che la comprensione del celibato nel tempo si è approfondita, sia in ragione del mutare delle circostanze storiche, sia grazie all’esperienza e alla prassi vissute dalla Chiesa. In modo particolare, da una identificazione del celibato con la sola continenza – di tale interpretazione si trova un insigne esempio nel decretista Uguccione di Pisa (1140) – nel corso della vita della Chiesa, si è giunti ad intenderlo oggi in una maniera più ampia e ricca, come quel “cammino di libertà”, felicemente menzionato nel titolo di questo Convegno, di cui abbiamo già parlato.
Vorrei quindi condividere con voi alcune riflessioni sul celibato oggi, a partire dal fatto che la Chiesa Latina ha continuato, e continua, a ritenere conveniente fare la scelta « nonostante tutte le difficoltà e le obiezioni sollevate lungo i secoli, di conferire l'ordine presbiterale solo a uomini che diano prova di essere chiamati da Dio al dono della castità nel celibato assoluto e perpetuo », secondo le parole dell’esortazione apostolica Pastores dabo vobis (n. 29).
Si tratta quindi di una realtà che caratterizza la Chiesa di oggi, nella quale tutti viviamo, e che chiede sempre più di essere compresa e illuminata, come una « una fulgida gemma», secondo l’espressione del Beato Paolo VI (Enc. Sacerdotalis caelibatus, 1967, n. 1), che adorna il tesoro della Chiesa.
Pertanto, desidero tentare di offrire un contributo alla comprensione e alla valorizzazione del celibato sacerdotale per la Chiesa e per il mondo di oggi, parlando di esso come di una vocazione, donata ad alcuni, ed esplicitando qualche aspetto della “speciale convenienza” che unisce il celibato e il ministero sacerdotale, in chiave pastorale e pratica. L’orizzonte di fondo è sempre quello tracciato dal Beato Paolo VI nell’Enciclica Sacerdotalis caelibatus (24 giugno 1967), che descrive i tre significati che fondano il celibato dei sacerdoti – quello cristologico, quello ecclesiologico e quello escatologico, come abbiamo ascoltato questa mattina.
3.1 Il celibato come vocazione scoperta, accolta e custodita
Il celibato sacerdotale è innanzitutto una vocazione, uno speciale carisma, di cui Dio fa dono alla Sua Chiesa, attraverso la chiamata di alcuni a seguirlo per questa via e a vivere in forma celibataria la loro condizione di discepoli. Si tratta di una visione positiva, all’interno della quale il celibato non figura come un semplice insieme di rinunce o come un “tributo da pagare” per poter esercitare il ministero o un obbligo estrinseco imposto ai sacerdoti. Pertanto, appaiono limitate, e limitanti, quelle descrizioni che solo identificano il celibato con lo stato personale di chi non è sposato, con tutte le conseguenze del caso, e pongono l’attenzione principalmente sulle “privazioni” che esso comporta, trascurando invece il positivo e le possibilità che offre, in funzione della felicità personale e della missione ecclesiale.
Tale vocazione è parte della complessiva configurazione a Cristo, Capo e Sposo della Chiesa, che il sacerdote persegue sin dagli anni della formazione iniziale in Seminario. Come ogni vocazione, anche quelle al celibato richiede di essere scoperta da chi l’ha ricevuta in dono; è la “perla preziosa” che Dio mette nella vita di alcuni e che attende di essere messa in luce. Occorre pertanto un cammino di maturità umana, che conduca la persona al desiderio di una piena realizzazione affettiva attraverso il discernimento su relazioni serie e profonde, magari anche pensando alla vita matrimoniale. Per colui che cerca la verità di sé con serietà e piena disponibilità, ad un certo punto la vita di coppia, pur affascinante e attraente, può rivelarsi come un orizzonte limitato, come un vestito bello ed elegante in generale, ma troppo stretto per la persona concreta. In questi casi è saggio domandarsi se tale sensazione di limite sia legata a una personale immaturità o al non aver ancora incontrato la persona giusta con cui condividere la vita, o piuttosto se non si tratti della chiamata di Dio alla vita celibataria.
Anche in coloro che sono chiamati al celibato è necessario che rimanga un’immagine alta e positiva della vita di coppia e della vocazione matrimoniale; infatti, il celibato in questo senso non è antitetico al matrimonio, ma è solo un modo diverso di donare completamente sé stessi in una relazione d’amore. Sarà un discernimento, che tenga conto della vita affettiva e della qualità delle relazioni vissute, ad aiutare la persona a cogliere in sé il dono del celibato. È importante che in tale scoperta il celibato non sia percepito come una fuga da o un rifiuto di relazioni di coppia, ma come l’approfondimento e la specificazione del desiderio di una vita affettiva piena e appagante.
Una volta scoperta, questa vocazione richiede anche di essere accolta e ciò non è sempre scontato, anche quando essa è chiaramente percepita. A volte, coloro che hanno intuito la chiamata a seguire il Signore nella via del celibato faticano inizialmente ad abbandonare l’idea di sé che avevano concepito in precedenza, si trovano a vivere una tensione tra i propri progetti e la chiamata da parte di Dio. È un momento delicato, una tappa importante di conversione, nella quale la persona vive la sfida della disponibilità al Signore, una disponibilità a lasciarsi condurre e a conoscere e sperimentare una nuova parte di sé.
È quello che capita a Pietro, secondo il racconto di Luca (5, 1-11), quando accoglie Gesù nella propria barca, pieno di buona volontà per aiutare il Maestro. Ma in quell’incontro si sente rivolgere da Gesù parole per lui sorprendenti, che lo invitano a mettere in discussione la verità di sé che egli conosceva, la sua “professionalità” ed esperienza di pescatore di lungo corso. In quel “sulla tua parola getterò le reti” è il segno di una novità accolta, anche se forse non ancora del tutto percepita. È l’incontro con Gesù che svela Pietro a Pietro; nel rapporto con Gesù, egli intuisce un’altra realtà rispetto a quella che aveva pensato fino a quel momento. E quando Gesù gli dice che avrebbe fatto di lui un “pescatore di uomini”, Pietro comprende qualcosa di fondamentale; la chiamata di Gesù non è contraria ai suoi desideri e a tutto quello che ha vissuto sino a quel momento. Essa è piuttosto un modo diverso, più grande e inatteso, di realizzare quei desideri, un modo attraverso il quale il suo cammino personale di vita è accolto da Gesù e trasformato; sempre pescatore, ma di uomini.
Così capita anche a chi intuisce la vocazione al celibato. Essa non è contraria ai desideri di felicità e di pienezza e può essere accolta solo in un rapporto con il Maestro; non si è celibi per una sorta di volontaristico accantonamento delle proprie passioni o per spiritualistico ripiegamento su se stessi, ma per il desiderio di amare di più, grazie alle possibilità che il celibato offre. Tutta la persona viene impegnata, corpo e anima, in questa vita che è la risposta ad una chiamata e che conta sul sostegno di Dio.
Una visione della vita celibataria che non tenga conto di questo sarà inevitabilmente controproducente innanzitutto per la pastorale vocazionale, ma anche per la vita dei preti. Il celibato infatti è richiesto da una norma disciplinare, ma questa norma ha un fondamento vocazionale; la norma, potremmo dire, tutela una vocazione, non la impone. Se questo fondamento fosse negato o ignorato, l’ordine disciplinare diventerebbe un non-senso. Chi sarebbe disposto a dare la propria vita solo per osservare una disciplina? Quando il celibato è concepito in questo modo, è difficilmente sostenibile e alla lunga produce insoddisfazione, frustrazione, ricerca di compensazioni improprie o anche l’abbandono. Siamo chiamati a viverlo come amore e impegno personale con Dio, nel nome di Cristo, proprio come è accaduto a Pietro. Non si dà la propria vita per rispettare una regola, ma per offrirla ad una persona, a Dio stesso, e così farne un dono per tutti gli uomini, per la Chiesa e per il mondo.
Come ogni cammino serio anche quello della vita nel celibato presenta le sue esigenze e richiede un quotidiano impegno in chi l’ha scoperto e accolto come vocazione; il celibato quindi è un dono che occorre anche custodire.
Ciò può avvenire attraverso una affettività celibataria matura e ben coltivata; essa non è assenza di affetti e di relazioni profonde, come ho detto. Per il sacerdote che l’ha accolta, la vocazione al celibato, nell’equilibrio e nella disciplina degli affetti, si alimenta nella vita quotidiana attraverso una serie di relazioni: con il Signore, con i propri cari – i confratelli, i famigliari e gli altri amici –, nonché con i fedeli, affidati in ragione del ministero. Queste relazioni sono come le tre gambe di un tavolino, che, se adeguatamente sostenute, si bilanciano a vicenda, e giovano all’equilibrio personale e spirituale del sacerdote, nonché alla sua efficacia ministeriale.
Il celibato così inteso, lungi dall’essere una forma di isolamento e di assenza di relazioni profonde, costituisce invece l’opportunità di stabilirne di più numerose, senza farsi determinare unicamente da nessuna di esse. Essere celibi quindi non significa diventare “solitari” o, peggio, “individualisti”, ma, come discepoli, saper stare alla scuola del Maestro, in un amoroso raccoglimento, che permette di abbracciare anche altri e di andare loro incontro, all’interno di relazioni mature e confacenti alla vita di un sacerdote.
Proprio per rafforzare tale idea del celibato come snodo di relazioni, desidero dedicare alcune parole a ciascuna delle tre categorie di relazioni che ho menzionato prima. La prima di esse è quella col Signore. Il sacerdote non deve diventare un libero professionista della pastorale, ma mantenersi nel tempo un discepolo innamorato del suo Maestro, costantemente alla sua sequela. È un rapporto quotidiano, un dialogo d’amore, tra il sacerdote e Gesù che lo ha chiamato; esso si alimenta in special modo attraverso l’Eucarestia, celebrata e adorata, con la preghiera personale e con l’ascolto orante della Parola di Dio.
Non è certo una “ricetta” nuova, ma ritengo che sia utile riproporla, in quanto intorno ai sacerdoti spesso c’è tanto movimento e chiasso, tanto parlare, di persone, di giornali, di radio e televisione, di Internet e la vita finisce per essere un incalzante susseguirsi di cose da fare invece che di rapporti da vivere. Con misura e disciplina sacerdotale occorre anche far comprendere alle persone: «… io devo prendermi un po’ di silenzio per la mia anima; mi stacco da voi per unirmi al mio Dio », come disse Papa Giovanni Paolo I nel suo discorso al Clero romano (7 settembre 1978).
L’affettività celibataria è poi resa feconda dalle relazioni con i propri cari, che auspicabilmente accompagnano tutta la vita del sacerdote; penso innanzitutto ai legami famigliari, all’interno dei quali si è formata l’umanità del sacerdote. I genitori, i fratelli e le sorelle sono coloro di fronte a cui un sacerdote non può fingere o nascondersi, perché lo conoscono da sempre. Sono rapporti spesso preziosi, come un porto sicuro e ritirato, in cui sostare nei momenti di fatica, per cercare comprensione e ascolto, o in quelli di gioia per una genuina condivisione. È importante ricordare che essere celibi non significa essere senza famiglia, ma continuare ad appartenere al proprio ambiente di nascita. Ci sono poi gli amici di una vita, magari conosciuti prima dell’ingresso in Seminario, persone franche che non temono di parlare con chiarezza e vogliono bene al sacerdote innanzitutto per la sua umanità, prima ancora che per il suo ruolo.
Mi piace poi riferirmi a titolo speciale e più diffusamente a quella “famiglia speciale” nella quale il sacerdote entra con l’ordinazione, quella del presbiterio; è una famiglia fondata sulla “fraternità sacramentale” 10. Esistono varie modalità per tradurre in pratica con i confratelli la fraternità sacramentale, che può essere concretizzata in varie forme, come l’incontrarsi spontaneamente, soprattutto per meditare la Parola di Dio e pregare insieme, ma anche per condividere soddisfazioni e fatiche, magari a tavola, durante i pasti, che rendono più facile e immediata la condivisione, giovani e anziani insieme. Come in ogni famiglia, infatti, anche tra i sacerdoti ci sono quegli anziani, per cui il Santo Padre ha varie volte espresso la sua sollecitudine, che possono costituire un “tesoro” di esperienza pastorale e spirituale.
La misericordia, ovviamente, non deve mai mancare anche nei rapporti quotidiani tra sacerdoti, attraverso un perdono reciproco e profondo, senza strascichi di risentimento, che permetta di andare oltre gli screzi e le incomprensioni, inevitabili anche nelle migliori famiglie.
L’ultima categoria di rapporti che sostiene e alimenta l’affettività celibataria è quella dei fedeli affidati in ragione del ministero; con loro il sacerdote è chiamato a stabilire relazioni sincere, libere e liberanti, senza attaccamenti eccessivi ed esclusivi, e nella prossimità a tutti. I fedeli in questo senso non sono i destinatari dei “servizi” offerti dal sacerdote, ma la porzione concreta di Chiesa, di Popolo di Dio, che al sacerdote in un momento specifico della sua vita è affidato. Per loro egli è chiamato a essere segno dell’amore misericordioso di Dio e nel suo cuore di pastore devono poter trovare l’accoglienza e il calore dell’amore di Dio. Il ministero pastorale può perciò essere inteso come ministero relazionale, come strumento di comunione.
In sintesi, nella Chiesa, il celibato accolto come vocazione è dato per essere sempre vissuto « per il Regno dei cieli» (Mt 19, 12). In coloro che lo accolgono, esso non è volto a mortificare o reprimere il desiderio di felicità che è in ogni uomo, ma piuttosto a sostenerlo e a promuoverlo. Certo, è una sequela esigente e in alcuni momenti anche faticosa, ma non perde il suo carattere di via della gioia. Il celibato del sacerdote è un dono che Dio fa alla Chiesa e al mondo, pertanto esso è custodito e reso proficuo proprio dal rapporto quotidiano con le persone concrete che costituiscono la Chiesa e il mondo di ogni sacerdote, nella costante apertura e disponibilità alla Grazia divina.
3.2 La “speciale convenienza” del celibato per la missione apostolica
Dopo aver tentato di esporre la natura vocazionale del celibato sacerdotale, esaminandone alcune conseguenze, mi preme ora mettere in evidenza la “speciale convenienza” che la Chiesa riconosce tra celibato e sacerdozio.
In questo senso, allora, il celibato è in primo luogo un’occasione di sequela discepolare e di speciale configurazione a Cristo. Come gli Apostoli, chiamati da Gesù “perché stessero con Lui” (Mc 3,14), il sacerdote vive la realtà del celibato come uno spazio di ascolto e di relazione privilegiata con il Signore; nel silenzio e nell’intimità, il discepolo vede crescere l’amore per il Maestro e unisce la propria vita alla Sua, trasformandola in vista delle esigenze della missione che il Maestro stesso affida. Il sacerdote celibe è tale per essere sacramentalmente configurato a Cristo, Pastore e Servo, Sacerdote, Capo e Sposo della Chiesa e, secondo le parole della Pastores dabo vobis 11, «è chiamato nella sua vita spirituale a rivivere l’amore di Cristo sposo nei riguardi della Chiesa sposa. La sua vita dev’essere illuminata e orientata anche da questo tratto sponsale, che gli chiede di essere testimone dell’amore sponsale di Cristo, di essere quindi capace di amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé, con dedizione piena, continua e fedele, e insieme con una specie di “gelosia” divina con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell’affetto materno, capace di farsi carico dei “dolori del parto” finché “Cristo non sia formato” nei fedeli ».
Così diviene più agevole comprendere come il celibato sia conveniente al sacerdote nella missione che gli è affidata, come ho ricordato sopra. Nel celibato il sacerdote è libero per amare tutti in Cristo, senza legarsi specialmente a nessuno. È una libertà per amare che si concretizza non solo nei sentimenti, ma soprattutto nelle azioni, che nasce nel cuore e rifluisce nella vita di ogni giorno. Lungi dall’intendere l’assenza di un rapporto unico, o privilegiato, come quello matrimoniale, ad esempio, come indice di relazioni “leggere”, mai approfondite, il celibato costituisce per il sacerdote l’opportunità di farsi carico, in profondità e verità di volta in volta delle persone e delle situazioni che incontra in ragione del suo ministero.
In una affettività ben curata, tale amore è anche libero, nel senso che non diviene desiderio di possesso o attaccamento eccessivo; proprio perché ama in Cristo il sacerdote, fedele alla propria missione, opera come uno strumento nelle mani di Dio, per unire a Lui e alla Sua Chiesa le persone. È bello vedere persone e comunità affezionate al loro pastore, ma grazie a lui innamorate soprattutto di Cristo e pronte a continuare a seguire solo Cristo.
Un sacerdote che ama nella libertà non teme quindi i trasferimenti e i nuovi incarichi, pur nella umana e comprensibile fatica del distacco da alcune persone concrete. Anche nel cambiamento di luogo e situazioni, egli si percepirà come discepolo incamminato dietro al Maestro, in una via che è unitaria e per sempre, e in questo non percepirà interruzioni o fratture; il suo sarà un ininterrotto cammino discepolare, del quale ogni cambiamento rappresenta una tappa, e nell’unità di esso trova la sua ragionevolezza.
Infine, mi piace pensare al celibato sacerdotale come una libertà per servire. Come Gesù ha invitato discepoli a non confidare nei beni e negli strumenti umani (cfr. Mt 10, 9-10) in vista della loro missione, così il celibato ripresenta questo “viaggiare leggeri” per arrivare a tutti, portando solo l’amore di Dio. Configurato a Cristo Pastore, il sacerdote sarà sempre in cammino per servire il popolo e, secondo la felice immagine evocata da Papa Francesco 12, «a volte si porrà davanti per indicare la strada e sostenere la speranza del popolo, altre volte starà semplicemente in mezzo a tutti con la sua vicinanza semplice e misericordiosa, e in alcune circostanze dovrà camminare dietro al popolo, per aiutare coloro che sono rimasti indietro ».
Concludendo, il celibato è una vocazione che nella Chiesa Latina è considerata specialmente conveniente per coloro che sono chiamati al ministero sacerdotale. Essa è l’occasione per il sacerdote di vivere un’affettività ricca, per il suo cammino personale e per l’esercizio della sua missione; non è assenza di relazioni profonde, ma spazio per esse. È un “cammino di libertà”, che il discepolo sacerdote compie insieme a Cristo, dalla Sua Grazia sostenuto e animato, in favore della Chiesa e del mondo.
La spiritualità celibataria del presbitero è una proposta “in positivo”, costruttiva, che mira a far sì che il Popolo di Dio abbia sempre pastori radicalmente liberi dal rischio della corruzione e dell’imborghesimento.
Al tempo stesso riconoscere l’altezza che questa proposta comporta non la rende esclusiva, come ha affermato il Concilio Vaticano II nella Presbyterorum Ordinis, asserendo che la scelta celibataria «non è certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente se si pensa alla prassi della Chiesa primitiva e alla tradizione delle Chiese Orientali, nelle quali, oltre a coloro che assieme a tutti i vescovi scelgono con l’aiuto della grazia il celibato, vi sono anche degli eccellenti presbiteri coniugati» (n. 16).
La Chiesa Cattolica, infatti, non ha mai imposto alle Chiese Orientali la scelta celibataria. D’altra parte ha anche permesso eccezioni nel corso della storia, come nel caso di Pastori luterani, calvinisti o anglicani sposati che, accolti nella Chiesa Cattolica, hanno ottenuto una dispensa per ricevere il sacramento dell’Ordine. Ciò avvenne già durante il pontificato di Papa Pio XII, nel 1951. Più recentemente, nel 2009, il Motu proprio Anglicanorum Coetibus di Papa Benedetto XVI ha autorizzato la costituzione di Ordinariati nei territori della Chiesa Latina, dove esercitano ex-ministri anglicani, ordinati sacerdoti cattolici. In seguito poi alla massiccia emigrazione di cattolici dal Medio Oriente, nel giugno 2014 Papa Francesco, con il Decreto Pontificia Praecepta de Clero Uxorato Orientali , ha consentito ai sacerdoti sposati orientali di operare nelle comunità cristiane della diaspora, dunque al di fuori dei loro territori tradizionali, abrogando precedenti divieti.
Nella situazione attuale, poi, viene spesso evidenziata, specialmente in alcune aree geografiche, una sorta di “emergenza sacramentale”, causata dalla mancanza di sacerdoti. Ciò ha suscitato da più parti la domanda circa l’eventualità di ordinare i cosiddetti viri probati . Se la problematica non pare irrilevante, occorre certamente non prendere soluzioni affrettate e solo sulla base delle urgenze. Rimane pur sempre vero che le esigenze dell’evangelizzazione, unitamente alla storia e alla multiforme tradizione della Chiesa, lasciano aperto lo scenario a dibattiti legittimi, se motivati dall’annuncio del Vangelo e condotti in modo costruttivo, pur sempre salvaguardando la bellezza e l’altezza della scelta celibataria.
Il celibato è infatti un dono che richiede di essere accolto e curato con gioiosa perseveranza, perché possa portare appieno i suoi frutti. Per viverlo proficuamente, è necessario che ogni un sacerdote continui a sentirsi discepolo in cammino per tutta la vita, a volte bisognoso di riscoprire e rafforzare il suo rapporto col Signore, e, anche, di lasciarsi “guarire”; non a caso Papa Francesco ha ricordato che nel cammino di discepoli « a volte procediamo spediti, altre volte il nostro passo è incerto, ci fermiamo e possiamo anche cadere, ma sempre restando in cammino » 13.
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- 1 Papa Francesco, Omelia Santa Messa del Crisma (17 aprile 2014).
- 2 Paolo VI, Lett. Enc. Sacerdotali Caelibatus , n. 73.
- 3 Ivi.
- 4 Ivi, 72.
- 5 Conc. Ecum. Vat II, Decr. Conc. Presbyterorum Ordinis , n. 16.
- 6 Papa Francesco, Omelia Santa Messa del Crisma (17 aprile 2014).
- 7 Conc. Ecum. Vat II, Decr. Conc. Presbyterorum Ordinis , n. 2.
- 8 Cfr. J. Ratzinger, Elementi di teologia fondamentale. Saggi sul problema di Dio, Morcelliana, Brescia 2005.
- 9 Giovanni Paolo II, Esort. Ap. Pastores dabo vobis , n. 29.
- 10 Conc. Ecum. Vat. II, Decreto Presbyterorum ordinis, n. 8
- 11 Giovanni Paolo II, Esort. Ap. Pastores dabo vobis, n. 22.
- 12 Francesco, Esort. Ap. Evangelii gaudium, n. 31.
- 13 Papa Francesco, Discorso alla Plenaria della Congregazione per il Clero (3 ottobre 2014).
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