VALENTINA FIZZOTTI, Avvenire, 3.2.16
La chiamano 'gestazione per altri', 'maternità surrogata' o 'di sostituzione', 'utero in affitto': definizioni più o meno edulcorate di una pratica, proibita in molti Paesi e regolata in altri, che consiste nel far portare avanti una gravidanza – dietro compenso o 'rimborso spese' – a una donna che cederà per contratto il nascituro ai richiedenti, che con lui o lei condividono almeno in parte il patrimonio genetico. Pochissimi, e molto pubblicizzati, sono i casi in cui sussiste un legame di sangue fra la surrogata e uno degli aspiranti genitori: sorelle che prestano l’utero a fratelli gay, madri che ospitano in pancia i nipoti per sterilità di una figlia – etichettati come 'miracoli di altruismo' o 'mostruosità' – non incidono sulle cifre di una industria miliardaria della riproduzione che arruola donne per l’usufrutto temporaneo del proprio corpo.
La tendenza principale è quella di utilizzare una 'gestante' (o mère porteuse, con la dolcezza che ha solo il francese), una femmina che non abbia legami genetici con il figlio che ha in grembo. Il concepimento può avvenire grazie a diversi attori: il seme può essere dell’aspirante padre (o di uno dei due padri richiedenti), o di un donatore; l’ovocita può essere dell’aspirante madre oppure, nella maggior parte dei casi, di una terza donna, acquistato in base alle caratteristiche richieste dai genitori (essendo più difficili da ottenere del seme, gli ovociti sono sempre a pagamento). Poiché l’operazione avviene attraverso agenzie specializzate, che si muovono con supporto legale anche in zone grigie della legge o nell’illegalità, prevede l’utilizzo di ingenti quantità di denaro, soprattutto a seconda della nazionalità della gestante. Nei Paesi in cui questa pratica è legale, molti acquirenti sono coppie eterosessuali sterili, ma la battaglia a favore della maternità surrogata è combattuta con forza dalle associazioni LGBT (Lesbian, gay, bisexual, transexual) poiché è l’unico modo per una coppia omosessuale maschile di avere un figlio (almeno per metà) biologico. Anzi, nel tentativo politicamente corretto di equiparare i due padri, alcune cliniche mixano i semi (senza poi approfondire chi abbia realmente fecondato l’ovocita), o impiantano embrioni fecondati da ciascuno dei due. Nella maternità surrogata vigono le leggi di mercato: al netto della legalità, ci si sposta dove costa meno. Dagli Stati Uniti e dal Regno Unito il turismo della riproduzione conto terzi si è quindi spostato in India e in Messico, e poi in Thailandia e nell’Est Europa: la differenza fra le tariffe è di centinaia di migliaia di dollari. La portata del fenomeno è emersa per le tensioni internazionali causate dalla necessità di documenti ed espatrio di neonati commissionati in Paesi in cui la maternità surrogata è legale da genitori che vivono in Paesi in cui non lo è: in questo senso la stepchild adoption rappresenta di norma l’ultimo passaggio necessario a sancire legalmente il rapporto con il genitore non biologico della coppia.
Tranne i rari ma rumorosi casi in cui (davanti a una telecamera) le surrogate si dicono mosse dal desiderio di servire una causa o di essere incinta ma non di crescere altri figli, tutte le donne che affittano il proprio utero lo fanno per soldi. Negli Stati Uniti il prototipo è la giovane moglie di un militare, in India una donna cui il marito chiede di contribuire così all’educazione dei figli (e che spera di contribuire all’emancipazione delle figlie). Una americana guadagna fino a 25mila euro, una indiana fino a 2mila. Tutte loro sono già madri, giovani, sane; tutte firmano contratti che non le tutelano in caso di perdita del bambino o complicanze e che le obbligano a sottostare al volere degli aspiranti genitori sul proseguimento della gravidanza in caso di problemi di salute del bambino. Tutte, appena partorito, rinunceranno a ogni diritto sul nascituro e, nella maggior parte dei casi, non lo vedranno nemmeno.
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È la pratica di fare condurre una gravidanza a una donna, pagata, che cederà poi il nascituro ai committenti Il 'turismo riproduttivo', consentito in alcuni Paesi, si sta spostando dagli Usa a India e Thailandia
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