L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 9 novembre 2013
di Paul Ricoeur
Percepiamo l’altro come minaccia e dimentichiamo che tutti siamo stati barbari
Proponiamo stralci di un inedito del filosofo francese pubblicato dalla rivista «Vita e Pensiero» sul numero 5 ora in libreria. Il testo nasce da una conferenza che lo studioso, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita, tenne nel 1997 alle Settimane sociali francesi.
Ma che cos’è lo straniero? E chi sono gli stranieri? Prima di esaminare la condizione indifferenziata di straniero, passiamo in rassegna le molteplici figure di straniero. A un estremo troviamo lo straniero come visitatore, figura pacifica per eccellenza: dal turista che circola liberamente sul territorio del Paese che lo accoglie fino al residente che si è stabilito in un luogo — da noi — e vi soggiorna. Al centro del quadro stanno i migranti, cioè perlopiù lavoratori stranieri, quelli che altrove vengono chiamati Gastarbeiter o guest-workers: sono visitatori forzati, costretti ad affittare la loro forza lavoro tra noi; la loro vita è tracciata da autori sociali che non sono loro, da noi nazionali.
Certo, abitano lo spazio protetto dello Stato che li accoglie; circolano liberamente e sono consumatori come noi nazionali; una parte della loro libertà è dovuta al fatto che partecipano come noi all’economia di mercato; un’altra parte risulta dall’avere accesso, entro certi limiti, alla protezione dello
Stato-provvidenza; godono dei diritti sindacali e in linea di principio beneficiano degli stessi diritti alla casa dei cittadini di una nazione; ma non sono cittadini e sono governati senza il loro consenso. La loro sorte fa avvertire il contrasto tra la mobilità del lavoro su scala mondiale e la chiusura dello spazio politico della cittadinanza di cui parleremo tra poco. Alla base di tutto c’è il fatto che essi non hanno contribuito alla storia silenziosa del voler vivere insieme su cui si fonda il patto nazionale. All’estremo opposto troviamo la figura dello straniero come rifugiato, figura che sottolinea la scelta sovrana degli Stati per quanto riguarda la composizione della popolazione e l’accesso al territorio, concetti sui quali rifletteremo tra poco. Diciamo subito che questa scelta sovrana degli Stati fa da diga a un diritto derivante da una fonte diversa dal desiderio di risiedere altrove, ossia il diritto alla protezione delle popolazioni perseguitate, al quale corrisponde il dovere di asilo da parte dei Paesi che le accolgono. Per noi che ho chiamato i “cittadini insediati” lo straniero è anzitutto, semplicemente, un altro sconosciuto. È chi non è di casa nostra, chi non è dei nostri. Ma nulla si dice di cosa sia lo straniero di per sé, a casa sua. Ed è una presa in giro dire: «Mi piacciono gli stranieri... a casa loro!»; proprio perché non si sa nulla su di loro a partire dalla semplice definizione della nazionalità. All’inizio abbiamo solo questo elemento decisivo per il diritto e per la giustizia, ma anche per la nostra coscienza, ossia l’opposizione binaria, massiva, tra noi e loro. Ebbene, questa semplice opposizione va pericolosamente in parallelo con un’altra divisione binaria: quella tra amico e nemico. Per i politologi è una struttura fondamentale del politico. Proprio il parallelismo tra l’opposizione noi-loro e l’opposizione amico-nemico costituisce il più grande pericolo spirituale. Da qui la domanda decisiva: su quale certezza si costruisce e si regge l’opposizione binaria cittadino-straniero, noi-loro? La risposta spontanea è questa: se non sappiamo chi siamo, si presume che sappiamo a cosa apparteniamo, di quale comunità siamo membri. Il concetto di appartenenza, di essere membri di... è così forte che ci porta a considerare la nazione alla quale apparteniamo come una persona, a indicarla con un nome proprio. Diciamo Francia, Inghilterra, Germania, Italia. Invece lo straniero viene definito negativamente come colui che non appartiene alla nostra cerchia d’identità, alla nostra sfera di appartenenza. Ora questo senso di appartenenza
identitaria si troverà a vacillare, a essere in qualche modo scalzato, minato alla base, dalla riflessione che segue, incentrata sul ricordo simbolico di essere stati stranieri. Ma restiamo un momento a questo stadio della sicurezza con i suoi aspetti giuridici forti: la certezza, la coscienza e la fiducia di appartenere a un dato corpo politico è una garanzia, protetta e sancita da un principio giuridico fondamentale, il principio di sovranità, che articola il diritto interno sul diritto internazionale e in base al quale rientra nella discrezionalità di uno Stato delimitare il proprio territorio, definire le regole di appartenenza alla comunità nazionale e dunque istituire l’opposizione binaria tra nazionale e straniero. Ciò significa, in negativo, che uno non può scegliere, per esempio, di diventare britannico se lo desidera. La nazionalità è un bene che il nostro Stato concede sovranamente a chi vuole, è un bene che noi distribuiamo agli altri, ma che non abbiamo mai distribuito a noi stessi: di solito lo possediamo già. Proseguo l’itinerario con un secondo punto che chiamo di “destabilizzazione dell’identità”. È proprio la certezza di sapere a che cosa apparteniamo che la memoria simbolica o effettiva di essere stati stranieri va a lacerare. Si tratta molto spesso di una memoria simbolica, di una
rimemorazione profonda dell’assenza finale di radici ultime alla base della nostra esistenza. La cattività in Egitto diventa il simbolo potente di essere potuti esistere in un luogo diverso dal nostro ambiente familiare. Tutto il movimento che intendo spiegare consiste nel passare dalla certezza dell’identità di appartenenza a una sorta di radicale incertezza che riguarda non più la domanda «A che cosa apparteniamo?» bensì «Chi siamo, in fondo? Chi sono io?». La domanda «Chi sono io?» è in qualche modo la chiave occultata da tutte le evidenze che ho appena richiamato e dalle risposte alla domanda circa a quale corpo politico apparteniamo. In altre parole, la nostra carta d’identità deve iniziare a porci un problema. Comincia qui un itinerario di destabilizzazione, la scoperta della nostra stessa estraneità. Partiamo anzitutto dal fatto che non siamo del tutto informati e che non abbiamo ragioni trasparenti riguardanti questa appartenenza. Non siamo in grado di rispondere alla domanda: «Ma perché siete francesi?». Non è una domanda naturale, spontanea. Lo siamo, e al massimo possiamo chiederci con l’immaginazione: «Che cosa può voler dire essere francese?». È una domanda che crediamo di maneggiare meglio della domanda «Come
dev’essere essere tedesco o britannico?». Per l’esattezza, il primo momento di destabilizzazione è il confronto. Confronto ineluttabile. Paragone: che cos’è essere francese e che cos’è essere tedesco o inglese? In questo confronto tutto può vacillare, perché anzitutto noi fantastichiamo sull’altro. Sempre rassicurando noi stessi di non essere l’altro. Così scopriamo questa inquietante, attraente, affascinante estraneità. Si può dire che con il confronto cominci una sorta di lacerazione e di minaccia. E perché? Perché l’identità profonda, quella che corrisponde alla domanda «Chi sono io?», e che l’identità di appartenenza maschera, si scopre di colpo incredibilmente fragile. Perché fragile? Per diverse ragioni. La prima fonte di fragilità consiste nella difficoltà di mettere al sicuro nel tempo la nostra consistenza, la nostra coerenza: come restare gli stessi attraverso tutti i cambiamenti di situazione, di esperienza, di azione e di sofferenza. Ci sentiamo sempre minacciati di venire distrutti dall’interno dal cambiamento. Seconda fonte di fragilità: cerchiamo sempre di essere uguali a noi stessi, di aderire perfettamente a noi stessi. Questo fantasma della chiusura su di sé si rivela un sogno impossibile. Facciamo acqua da tutte le parti nel tentativo disperato di chiudere il cerchio con noi stessi. Terza fonte di fragilità: la sensazione che alla base della nostra identità collettiva, e forse anche personale, ci sia la violenza: sono pochi gli Stati e le culture che non sono legati a una violenza fondatrice. Alla radice di tale violenza c’è un rapporto con la morte che non è riducibile alla certezza di dover morire; è la scoperta del rapporto con la morte conosciuta come inflitta dall’uomo all’altro uomo; questo rapporto con la morte non è riducibile alla semplice mortalità; è la minaccia dell’omicidio che sta alla base della cultura. Pochi Stati e poche culture sono sfuggiti a questa violenza fondatrice; perciò resta sempre precaria la conquista della civiltà sulla barbarie. Per tutte queste ragioni l’altro è percepito fondamentalmente come una minaccia. Minaccia legata alla coerenza nel tempo; minaccia legata al fallimento dell’adesione di sé a sé; minaccia legata alla rimozione del fondo di violenza originaria, del rapporto della vita con l’omicidio. È terribilmente facile ritornare barbari. Altrimenti non si capirebbe quello che è successo nel XX secolo. Il punto d’arrivo di tutta la riflessione qui percorsa è reinventare l’ospitalità grazie al ricordo fittizio o reale di essere stati stranieri. È l’ultimo stadio del nostro itinerario, nell’intervallo tra i due testi biblici, il Levitico e Matteo. Se dobbiamo fare memoria di essere stati, e di essere sempre, stranieri, è al solo scopo di ritrovare il cammino dell’ospitalità. È il senso profondo del Levitico: «Amare l’altro come me stesso». L’ospitalità può essere definita come la condivisione dello stare “in casa propria”, la messa in comune dell’atto e dell’arte di abitare. Insisto sul vocabolo “abitare”: è la maniera di occupare umanamente la superficie della terra. È abitare insieme. In proposito farò notare che il termine “ecumenismo” viene dalla parola greca che significa “terra abitata”. L’ospitalità s’inscrive nella radice morale dell’atto di abitare insieme. Questo stesso atto riassume un itinerario condensato del quale il nostro vocabolario conserva traccia. La definizione del termine “ospitalità” nel Robert riassume tutto un percorso. Si parte da un senso medievale, quello di generosità gratuita, non obbligatoria e un po’ condiscendente, che corrisponde all’antico significato del termine “carità” (il Robert nota: antiquato, «Carità che consiste nell’accogliere, alloggiare e nutrire gratuitamente gli indigenti, viaggiatori, in un edificio apposito»). Ricordo che il termine “ospedale” viene da lì. Segue una citazione datata 1548: è l’epoca in cui si rileggono gli antichi. L’ospitalità antica ha una posizione chiave in Omero, poiché la guerra di Troia comincia con il rapimento di Elena, ossia con la violazione dell’ospitalità. I greci avevano costruito l’idea di un diritto reciproco a trovare alloggio e protezione gli uni dagli altri, per esempio tra due città. È questo diritto reciproco che Paride viola. È l’inizio della guerra di Troia. È solo dal XVI secolo, e dunque da una combinazione tra greco, ebraico e cristiano, che si è formato il significato positivo dell’ospitalità che il Robert definisce così: «Il fatto di ricevere a casa propria, magari alloggiandolo e nutrendolo gratuitamente, l’ospite». Dunque ci si imbatte nel termine ospite e non più ospedale. Questa storia condensata del termine ci fa assistere a una progressiva riduzione dello spirito di superiorità del donatore, della condiscendenza nella generosità, che contamina l’atto di ricevere in casa propria, di condividere l’“a casa”. Il punto finale di questa evoluzione è l’idea che al dovere dell’ospitalità corrisponda un diritto all’ospitalità. Trovo espresso questo diritto nel Progetto di pace perpetua di
Kant: «Si tratta qui non di filantropia ma di diritto. Ospitalità significa in questo caso il diritto che ha lo straniero, al suo arrivo in territorio altrui, a non essere trattato da nemico (...). È il diritto di ogni uomo a proporsi come membro della società». Ciò significa che ogni ospite è un candidato virtuale alla cittadinanza. Consiste in questo la forza dell’idea del diritto all’ospitalità, che dunque non è un effetto di generosità suntuaria, condiscendente, ma un diritto effettivo. Quale diritto? A questo punto arriviamo al fondamento del diritto internazionale, a quel fondo del diritto che non è stato intercettato dal diritto nazionale, ma che non ha ancora trovato le sue istituzioni appropriate, dal momento che persino l’Onu è solo espressione della buona volontà dei suoi membri; è una coalizione; in questo senso non è ancora un’istituzione nel senso forte di istanza superiore sovrana. Il diritto internazionale è stato pensato con forza nel XVII e nel XVIII secolo come trascendente il diritto interno degli Stati-nazione. L’unica espressione che ne abbiamo attualmente sul piano giuridico si trova negli abbozzi del diritto d’ingerenza, nell’istituzione dei tribunali internazionali e fondamentalmente nel concetto di crimine
imprescrivibile contro l’umanità di cui il genocidio costituisce il nocciolo duro. Ma se bisogna dare un senso all’idea di crimine
imprescrivibile contro l’umanità bisogna che abbia un senso anche il concetto di umanità. Ora, se l’umanità deve avere un senso sul piano del diritto internazionale, può essere solo a partire dal diritto reciproco all’ospitalità, quello che
Kant chiama il diritto cosmopolita. È vero che oggi la cittadinanza può articolarsi solo nel quadro nazionale. È un fatto; e forse il concetto di “cosmopolita” non può costituire un concetto politico. Attualmente questo punto è molto discusso in filosofia politica. È possibile pensare una cittadinanza senza frontiere? In altre parole, si può uscire dal rapporto binario cittadino-straniero? Eccoci giunti al termine più avanzato del nostro viaggio nell’intervallo tra Levitico e Matteo. Ma non è un punto d’arrivo. Non è un punto di riposo, perché cominciano qui tutte le difficoltà. Dov’è il problema di fondo? È che non sappiamo, e nessuno sa, come combinare in maniera intelligente e umana il diritto internazionale, e il suo fondamento di diritto reciproco all’ospitalità, con la struttura binaria del politico: cittadino straniero. Non lo sappiamo.
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