di
D.Tettamanzi, 2008
Lettera
agli sposi in situazione di
separazione, divorzio e nuova unione
Carissimi
fratelli e sorelle, da molto tempo coltivo il desiderio di
rivolgermi a voi, con una modalità il più possibile diretta e
personale. Mi piacerebbe, infatti, chiedervi il permesso di entrare come
un fratello in casa vostra e
domandarvi un po’ del vostro tempo. (…)
La Chiesa è a voi vicina
Anzitutto
voglio dirvi che non ci possiamo considerare reciprocamente estranei: voi, per
la Chiesa e per me Vescovo, siete sorelle e fratelli amati
e desiderati. E questo mio desiderio di entrare in dialogo con voi
scaturisce da un sincero affetto e dalla consapevolezza che in voi ci sono
domande e sofferenze che vi appaiono spesso trascurate o ignorate dalla
Chiesa. Vorrei allora dirvi che la comunità cristiana ha
riguardo del vostro travaglio umano.Certo, alcuni tra voi hanno fatto
esperienza di qualche durezza nel rapporto con la realtà ecclesiale: non
si sono sentiti compresi in una situazione già difficile e dolorosa; non hanno
trovato, forse, qualcuno pronto ad ascoltare e aiutare; talvolta hanno sentito
pronunciare parole che avevano il sapore di un giudizio senza misericordia o di
una condanna senza appello. E hanno potuto nutrire il pensiero di essere stati
abbandonati o rifiutati dalla Chiesa. La prima cosa che vorrei dirvi
è questa: “ La Chiesa non vi ha dimenticati! Tanto meno vi rifiuta
o vi considera indegni”. Mi vengono in mente le parole di speranza che
Giovanni Paolo II rivolse alle famiglie provenienti da tutto il mondo in
occasione del loro Giubileo nel 2000: “Di fronte a tante famiglie disfatte,
la Chiesa si sente chiamata non ad esprimere un giudizio severo e distaccato,
ma piuttosto ad immettere nelle pieghe di tanti drammi la luce della parola di
Dio, accompagnata dalla testimonianza della sua misericordia”.E allora
se avete trovato sul vostro cammino uomini o donne della comunità cristiana che
vi hanno in qualche modo ferito con il loro atteggiamento o le loro parole,
desidero dirvi il mio dispiacere e affidare tutti e ciascuno al giudizio e alla
misericordia del Signore. In quanto cristiani sentiamo per
voi un affetto particolare, come quello di un
genitore che guarda con più attenzione e premura il figlio che è in difficoltà
e soffre, o come quello di fratelli che si sostengono con maggiore delicatezza
e profondità, dopo che per molto tempo hanno faticato a comprendersi e a
parlarsi apertamente.
Anche noi uomini di Chiesa sappiamo
che la fine di un rapporto sponsale per la maggior parte di voi non è stata
decisione presa con facilità, tanto meno con leggerezza. È stato
piuttosto un passo sofferto della vostra vita, un fatto che vi ha
interrogato profondamente sul perché del fallimento di quel progetto in cui
avevate creduto e per il quale avevate investito molte vostre
energie. Certamente la decisione di questo passo lascia
ferite che si rimarginano a fatica. Forse si insinua persino il dubbio
sulla possibilità di portare a termine qualcosa di grande in cui si è
fortemente sperato; inevitabile sorge la domanda sulle eventuali reciproche
responsabilità; acuto si fa il dolore di essersi sentiti traditi nella fiducia
riposta nel compagno o nella compagna che si era scelto per tutta la vita; si è
presi da un senso di inadeguatezza verso i figli coinvolti in una sofferenza di
cui essi non hanno responsabilità. Conosco queste inquietudini e
vi assicuro che esprimono un dolore e una ferita che toccano l’intera comunità
ecclesiale. La fine di un matrimonio è anche per la Chiesa motivo
di sofferenza e fonte di interrogativi pesanti: perché il Signore permette
che abbia a spezzarsi quel vincolo che è il “grande segno” del suo amore
totale, fedele e indistruttibile? E come noi avremmo forse dovuto o
potuto essere vicini a questi sposi? Abbiamo compiuto con loro un cammino
di vera preparazione e di vera comprensione del significato del patto coniugale
con cui si sono legati reciprocamente? Li abbiamo accompagnati con
delicatezza e attenzione nel loro itinerario di coppia e di famiglia, prima e
dopo il matrimonio? Queste domande e questo dolore noi
li condividiamo con voi e ci toccano profondamente perché
investono qualcosa che ci riguarda da vicino: l’amore, come il sogno e il
valore più grande nella vita di tutti e di ciascuno. Penso che come
sposi cristiani possiate comprendere in che senso tutto questo ci tocca
profondamente. Voi avete chiesto di celebrare il vostro patto
nuziale nella comunità cristiana, vivendolo come un sacramento, il
grande segno efficace che rende presente nel mondo l’amore stesso di Dio. Un
amore totale, indistruttibile, fedele e fecondo, come è l’amore di Cristo per
noi. (…) Quando questo legame si spezza la Chiesa si
trova in un certo senso impoverita, privata di un segno luminoso che doveva
esserle di gioia e di consolazione. La Chiesa quindi non vi guarda
come estranei che hanno mancato a un patto, ma si sente partecipe di quel
travaglio e di quelle domande che vi toccano così intimamente. Potrete
allora comprendere, insieme ai vostri sentimenti, anche i nostri.
Di fronte alla decisione di separarsi
(…)Posso
solo provare a immaginare che prima di questa decisione abbiate
sperimentato giorni e giorni di fatica a vivere insieme; nervosismi, impazienze
e insofferenza, sfiducia reciproca, a volte anche mancanza di trasparenza,
senso di tradimento, delusione per una persona che si è rivelata diversa da
come la si era conosciuta all’inizio. Queste esperienze, quotidiane e
ripetute, finiscono con il rendere la casa non più un luogo di affetti e di
gioia, ma una pesante gabbia che sembra togliere la pace del cuore. Si
finisce con alzare la voce, forse anche con mancarsi di rispetto, trovare
impossibile ogni concordia. E si sente che non si può più continuare
la vita insieme. No, la scelta di interrompere la vita
matrimoniale non può mai essere considerata una decisione facile e indolore! Quando
due sposi si lasciano, portano nel cuore una ferita che segna, più o meno
pesantemente, la loro vita, quella dei loro figli e di tutti coloro che li
amano (genitori, fratelli, parenti, amici). Questa vostra ferita
anche la Chiesa la comprende. Anche la Chiesa sa che in certi casi
non solo è lecito, ma può essere addirittura inevitabile prendere
la decisione di una separazione: per difendere la dignità delle persone, per
evitare traumi più profondi, per custodire la grandezza del matrimonio, che non
può trasformarsi in un’insostenibile trafila di reciproche asprezze.
No alla rassegnazione
Davanti
a una decisione così seria è importante, però, che non vincano la rassegnazione
e la volontà di chiudere troppo rapidamente questa
pagina. La separazione diventi invece occasione per guardare con più
distacco e forse con più serenità la vita coniugale. Non è opportuno
prendere decisioni definitive quando il nostro animo è scosso da inquietudini o
burrasche.Non è detto che tutto sia perduto: ci sono forse ancora
energie per comprendere che cosa è accaduto nella propria vita di coppia e di
famiglia; forse si può ancora desiderare e scegliere di cercare un aiuto saggio
e competente per avviare una nuova fase di vita insieme; o forse c’è solo
spazio per riconoscere onestamente delle responsabilità che hanno compromesso
decisamente quel patto di amore e di dedizione stipulato col
matrimonio. Ci sono, sempre, delle responsabilità. E se anche,
spesso, le addossiamo volentieri all’ambiente, alla società, al caso, in verità
sappiamo che ci sono anche leresponsabilità nostre.
(…)
La
crisi della famiglia
La
famiglia è in crisi, sotto molteplici aspetti.
Da un lato abbiamo le giovani coppie che non si sposano più, preferendo “unioni liquide” sottostanti alla logica di mercato “soddisfatti o… ti mollo”, oppure che giungono al matrimonio solo in età avanzata, dopo fidanzamenti eterni. Dall’altra abbiamo i nuclei famigliari già formati che non fanno figli – o che ne fanno uno solo, per poi crescerlo/a da despota −, oppure che non riescono più ad arrivare alla fine del mese.
Il quadro sociale attuale, quindi, si presenta molto complesso.
Da un lato abbiamo le giovani coppie che non si sposano più, preferendo “unioni liquide” sottostanti alla logica di mercato “soddisfatti o… ti mollo”, oppure che giungono al matrimonio solo in età avanzata, dopo fidanzamenti eterni. Dall’altra abbiamo i nuclei famigliari già formati che non fanno figli – o che ne fanno uno solo, per poi crescerlo/a da despota −, oppure che non riescono più ad arrivare alla fine del mese.
Il quadro sociale attuale, quindi, si presenta molto complesso.
“Mi
sposo o vado a convivere? Che garanzia ho che il nostro amore sarà eterno?”
Nessuna
garanzia, se la logica che spinge al matrimonio è di tipo edonistico ed
egoistico. (…) Dopo pochi giorni di matrimonio, i difetti dell’altro colpiscono
in pieno viso in tutta la loro evidenza. Di fronte a questa doccia fredda, le
possibili reazioni sono due: o si segue la propria logica edonistica ed
egoistica per cui con un “arrivederci e grazie” si pone fine a quell’unione che
doveva essere veicolo di felicità, oppure ci si guarda negli occhi e, proprio
in virtù di un profondo amore reciproco, ci si rimbocca le maniche e ci
si sacrifica l’uno per l’altro. E’ vero che nella celebrazione ci si
“prende” come marito/moglie, ma è altresì vero che bisogna anche essere
disposti a donarsi l’uno all’altro affinché tale affermazione solenne sia
valida: senza questo presupposto, infatti, sarebbe una frase contraddittoria.
Il
matrimonio come palestra di vita, quindi. C’è chi, più fortunato, vi arriva
dopo quel breve ma intenso allenamento al sacrificio che è il fidanzamento.
Altri, invece, giungono all’altare totalmente fuori forma e, se non hanno dalla
loro dei valori e delle convinzioni solide, dopo pochi chilometri crollano,
soprastati dall’acido lattico e dalla fatica.
“Ma
perché vale la pena sposarsi al giorno d’oggi?”
Il
matrimonio è utile sia per i due fidanzati che si sposano, che per l’intera
società.
Infatti, tale unione ha la virtù di costringere i due novelli sposi ad interrogarsi seriamente sulle proprie responsabilità, inducendo alla maturazione; è inoltre utile alla società perché conferisce stabilità e consente alla ipotetica prole della coppia di crescere in un ambiente che garantisca dei solidi riferimenti da un punto di vista affettivo, ma non solo. I problemi comportamentali di cui soffrono sempre più bambini ed adolescenti sono sotto gli occhi di tutti e, purtroppo, molto spesso la causa di certi atteggiamenti è rintracciabile proprio nella mancanza di certezze nelle quali sono cresciuti i figli delle persone separate o divorziate: costantemente sommersi da regali materiali ma, ahimé, mancanti di vere attenzioni. E, allora, quale metodo migliore del fare sciocchezze per farsi notare dai propri genitori?
Infatti, tale unione ha la virtù di costringere i due novelli sposi ad interrogarsi seriamente sulle proprie responsabilità, inducendo alla maturazione; è inoltre utile alla società perché conferisce stabilità e consente alla ipotetica prole della coppia di crescere in un ambiente che garantisca dei solidi riferimenti da un punto di vista affettivo, ma non solo. I problemi comportamentali di cui soffrono sempre più bambini ed adolescenti sono sotto gli occhi di tutti e, purtroppo, molto spesso la causa di certi atteggiamenti è rintracciabile proprio nella mancanza di certezze nelle quali sono cresciuti i figli delle persone separate o divorziate: costantemente sommersi da regali materiali ma, ahimé, mancanti di vere attenzioni. E, allora, quale metodo migliore del fare sciocchezze per farsi notare dai propri genitori?
La Chiesa e le coppie in
crisi.
Separati, non scomunicati
Famiglia Cristiana, 29.7.2011
La disciplina
ecclesiastica, che nega la possibilità della Confessione sacramentale e della
Comunione eucaristica per i separati o divorziati che abbiano iniziato una
nuova relazione, suscita talvolta sofferenze tra i fedeli e la stessa Chiesa ed
è sovente oggetto di attacchi dal fronte laicista. Ma quali ne sono le
motivazioni profonde?
Ne parliamo con monsignor Livio Melina, teologo moralista e preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e la famiglia di Roma.
– Professore, la Chiesa viene a volte accusata di essere poco misericordiosa in nome della verità...
«La verità non è un principio puramente umano, una dottrina o una legge imposti dall’esterno, ma ha per i credenti un unico nome, Gesù Cristo, che è allo stesso tempo misericordia, anche qui però non secondo un criterio umano di condiscendenza, fatto di compromessi. È misericordia fatta nella verità, dove misericordia e verità non sono princìpi astratti e disgiunti, e quindi contrapposti tra loro, ma essi, stando insieme in Cristo stesso, diventano la strada salvifica per tutti, anche per chi si trova in una situazione matrimoniale irregolare. Soltanto se misericordia e verità vengono colte insieme nella loro profonda radice unificata in Gesù Cristo può essere indicato un cammino di salvezza, altrimenti ci sono solo delle scorciatoie».
– Quale percorso di fede, allora, per i divorziati risposati?
«Le limitazioni nella partecipazione alla vita sacramentale per i divorziati risposati non significano esclusione dalla vita ecclesiale. È un cammino, innanzitutto, di progressione nella comprensione della loro situazione. Il cammino di fede non è dato solo dalla Comunione eucaristica e dalla Confessione sacramentale, da cui sono esclusi per oggettiva incompatibilità, ma anche dall’itinerario comunitario e personale di ascolto della parola di Dio, di preghiera, di fraternità, di carità verso i poveri, a cui queste persone sono certamente chiamate. Si deve capire bene che non sono scomunicate e, pur se in situazione irregolare, hanno il diritto di godere di un’attenzione privilegiata, di essere cioè accolte e ascoltate dalla comunità cristiana. Le limitazioni servono quindi a sollecitare quella riconfigurazione della vita, secondo la verità di Cristo. Ci sono molte associazioni, movimenti ecclesiali, comunità parrocchiali e percorsi diocesani che si stanno muovendo in questo senso. Molto dipende anche dalla sensibilità dei sacerdoti, che devono, conoscendo bene le singole situazioni e la posizione della Chiesa, offrire a tutti quella guarigione autentica e quella salvezza che le persone nel profondo del loro cuore desiderano».
– Che significato hanno per la Chiesa quelle persone che restano fedeli al loro matrimonio, non cercando un nuovo partner?
«Anche quando il matrimonio fallisce Dio resta fedele. Il matrimonio è un sacramento permanente: per la grazia, la presenza di Cristo sposo nella vita degli sposi rimane viva e attiva, quando non sia rifiutata. Questa presenza rende possibile a queste persone di rielaborare la propria storia, di darle un senso, di capire che la croce della fedeltà è fruttuosa perché la vita non finisce qui, la vita terrena si affaccia su quella eterna e i fallimenti, anche quelli più drammatici, devono essere visti dentro l’orizzonte pieno della salvezza. Pertanto, le persone che restano fedeli al proprio matrimonio o che, essendo state la causa di una rottura matrimoniale, si pentono e recuperano la fedeltà perduta, sono dei credibili testimoni dell’amore incondizionato di Cristo sposo per la Chiesa sposa».
Ne parliamo con monsignor Livio Melina, teologo moralista e preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e la famiglia di Roma.
– Professore, la Chiesa viene a volte accusata di essere poco misericordiosa in nome della verità...
«La verità non è un principio puramente umano, una dottrina o una legge imposti dall’esterno, ma ha per i credenti un unico nome, Gesù Cristo, che è allo stesso tempo misericordia, anche qui però non secondo un criterio umano di condiscendenza, fatto di compromessi. È misericordia fatta nella verità, dove misericordia e verità non sono princìpi astratti e disgiunti, e quindi contrapposti tra loro, ma essi, stando insieme in Cristo stesso, diventano la strada salvifica per tutti, anche per chi si trova in una situazione matrimoniale irregolare. Soltanto se misericordia e verità vengono colte insieme nella loro profonda radice unificata in Gesù Cristo può essere indicato un cammino di salvezza, altrimenti ci sono solo delle scorciatoie».
– Quale percorso di fede, allora, per i divorziati risposati?
«Le limitazioni nella partecipazione alla vita sacramentale per i divorziati risposati non significano esclusione dalla vita ecclesiale. È un cammino, innanzitutto, di progressione nella comprensione della loro situazione. Il cammino di fede non è dato solo dalla Comunione eucaristica e dalla Confessione sacramentale, da cui sono esclusi per oggettiva incompatibilità, ma anche dall’itinerario comunitario e personale di ascolto della parola di Dio, di preghiera, di fraternità, di carità verso i poveri, a cui queste persone sono certamente chiamate. Si deve capire bene che non sono scomunicate e, pur se in situazione irregolare, hanno il diritto di godere di un’attenzione privilegiata, di essere cioè accolte e ascoltate dalla comunità cristiana. Le limitazioni servono quindi a sollecitare quella riconfigurazione della vita, secondo la verità di Cristo. Ci sono molte associazioni, movimenti ecclesiali, comunità parrocchiali e percorsi diocesani che si stanno muovendo in questo senso. Molto dipende anche dalla sensibilità dei sacerdoti, che devono, conoscendo bene le singole situazioni e la posizione della Chiesa, offrire a tutti quella guarigione autentica e quella salvezza che le persone nel profondo del loro cuore desiderano».
– Che significato hanno per la Chiesa quelle persone che restano fedeli al loro matrimonio, non cercando un nuovo partner?
«Anche quando il matrimonio fallisce Dio resta fedele. Il matrimonio è un sacramento permanente: per la grazia, la presenza di Cristo sposo nella vita degli sposi rimane viva e attiva, quando non sia rifiutata. Questa presenza rende possibile a queste persone di rielaborare la propria storia, di darle un senso, di capire che la croce della fedeltà è fruttuosa perché la vita non finisce qui, la vita terrena si affaccia su quella eterna e i fallimenti, anche quelli più drammatici, devono essere visti dentro l’orizzonte pieno della salvezza. Pertanto, le persone che restano fedeli al proprio matrimonio o che, essendo state la causa di una rottura matrimoniale, si pentono e recuperano la fedeltà perduta, sono dei credibili testimoni dell’amore incondizionato di Cristo sposo per la Chiesa sposa».
I divorziati risposati e
l’Eucaristia
(lettere al direttore), Avvenire, 4.12.11
Caro direttore, sono divorziato e
risposato... Circa sei anni fa, un sacerdote, di fronte al desiderio profondo e
sincero di mia moglie e mio di poter essere riammessi ai Sacramenti dai quali
eravamo esclusi, ci ha assicurato che un voto di castità di entrambi sarebbe
stata la soluzione. Così abbiamo fatto e così abbiamo vissuto. Ora, due mesi
fa, confessandomi, un altro sacerdote, non solo mi ha rifiutato l’assoluzione,
ma ha troncato la confessione subito. Ovviamente, mi sono rivolto ad altri
confessori, 'avvertendoli' però prima di quanto successo. Rifiuto. Da voci
diverse, la stessa porta chiusa: il sacerdote che ci aveva consigliato la
soluzione del voto di castità si era sbagliato, o era stato troppo 'leggero'.
Ora, a parte il trovarmi con un bel peso che grava sulla mia coscienza, per gli
anni in cui, ignorando il divieto, ho continuato ad accostarmi ai sacramenti
più importanti, non so proprio cosa fare. Anche perché a mia moglie non è
capitata, almeno non ancora, una simile situazione. Lei è dapprima rimasta
molto perplessa del mio atteggiamento, ma ora –, col suo perdurare – mi pone, e
si pone, domande che credo siano anche per lei angoscianti. Non voglio farla
lunga: a me basta un 'sì sì, no no', nient’altro. Definitivo. Un 'vade retro
Satana', come quelli ottenuti finora, non mi aiuta. Prima di oggi ho cercato
una spiegazione più articolata, non perché mi si rendesse conto, ma perché mi
si facesse capire. Ma, visto che 'il resto viene dal Maligno', un sì sì (è
giusto che tu sia escluso, perché ti sei autoescluso), no no, (cioè una
soluzione, se non quella indicatami un’altra), mi basta. La prego, mi risponda
come meglio crede, ma mi risponda. Non so sinceramente più a chi rivolgermi. In
ogni caso la ringrazio, e le esprimo la mia stima incondizionata. (Lettera firmata)
In casi di coscienza, in cui ci sono chiare direttive d’azione del
magistero della Chiesa, non vale l’opinione di persone private, fosse pure di
confessori, ma l’insegnamento di chi nella Chiesa ha il 'munus docendi', il
compito cioè d’insegnare autenticamente – come dice il Concilio Vaticano II –
«la fede da credere e da applicare nella pratica della vita» (Lumen gentium
25). Il caso presentato dal lettore – valutato in modo discordante dai
confessori – trova una parola risolutiva nell’esortazione apostolica Familiaris
consortio del beato Giovanni Paolo II. In esso il Papa traccia, al n. 84,
le linee dottrinali e pastorali da seguire verso quanti, «già congiunti col
vincolo matrimoniale sacramentale, hanno cercato di passare a nuove nozze».
Linee segnate da premura materna e servizio della verità. «I pastori e l’intera
comunità dei fedeli – leggiamo nel testo – sono caldamente esortati ad aiutare
i divorziati, procurando con sollecita carità che non si considerino separati
dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla
sua vita». Al tempo stesso «la Chiesa ribadisce la sua prassi, fondata sulla
Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati
risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato
e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di
amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia». Una
possibilità di ricevere il perdono sacramentale – e, per esso, accedere alla
comunione eucaristica – è dischiusa per coloro che, pur non separandosi, fanno
una scelta consapevole e libera di non vivere da marito e moglie. Per ciò
stesso cade l’impedimento: «La riconciliazione nel sacramento della penitenza,
che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico – precisa il documento
pontificio – può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il
segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti a una
forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio.
Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi –
quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo
della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di
astenersi dagli atti propri dei coniugi». Astenendosi dagli atti propri del
matrimonio, vale a dire dai rapporti sessuali, la relazione non è più coniugale
ma amicale. Non si tratta di un’astensione indotta – come taluni insinuano – da
una visione negativa e pessimistica della sessualità. Ma piuttosto dal suo
contrario, dalla considerazione alta e decisiva che la Chiesa ha della
sessualità, al punto da contrassegnare lo status matrimoniale, da decidere
della relazione propriamente coniugale tra un uomo e una donna. L’espressività
sessuale segna il passaggio dal rapporto amicale alla comunione matrimoniale.
Così che il suo libero venir meno mette fine alla contraddizione di una nuova
coniugalità che contrasta con la prima: stabilisce – come ci dice il Papa –
«una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del
matrimonio». Astenendosi dagli atti propri del matrimonio, un uomo e una donna
non vivono da coniugi, ma da amici o anche da fratello e sorella. Come tali,
essi sono in uno status, in una relazione, che non osta né al perdono
sacramentale né alla comunione eucaristica. Alla luce di questo insegnamento,
il «voto di castità di entrambi» – di cui dice il lettore in questa sua lettera
– adempie la condizione posta dall’esortazione apostolica: «astenersi dagli
atti propri dei coniugi». Condizione che, congiunta all’altra – il pentimento
per «aver violato [con la separazione] il segno dell’Alleanza e della fedeltà a
Cristo» – e stanti «seri motivi» per continuare a vivere insieme, li riammette
ai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia.
Mauro Cozzoli, professore di teologia morale
nella Pontificia Università Lateranense e nell’Accademia Alfonsiana)
Vedi anche:
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