«Di solito non sono un uomo religioso, ma se tu sei lassù, salvami... Superman!». Lo spiazzamento offertoci dalla battuta di Homer Simpson sottintende due cose: entrambe cruciali. La prima, che il microcosmo del sacro, all’interno della saga a cartoni animati attualmente più famosa sul pianeta (23 Emmy e l’omaggio della rivista Time, che l’ha eletta a «migliore serie televisiva del ventesimo secolo»), ha un peso specifico notevole: proprio come capita negli Stati Uniti, unica porzione del mondo occidentale in cui le fedi risultano in gran spolvero e in evidente aumento. La seconda, che il motivo del successo che essa sta ottenendo, in buona misura, risiede nell’aver intercettato con straordinaria felicità espressiva il cuore di quella che ci siamo abituati a chiamare postmodernità: vale a dire il gioco della citazione, del rimando, dell’allusione insistita a linguaggi, temi, generi, opere d’arte note o notissime.
Nel lontano anno di grazia 1987 il versatile fumettista yankee Matt Groening ha fatto irruzione nel panorama delle tivu americane (da noi qualche anno dopo) con la sua tribù di facce gialle.
Un fulmineo ripasso per chi – nessuno è perfetto – si fosse perso le (oltre quattrocento, ad oggi) puntate della serie. I Simpson rappresentano la tipica famiglia della middle class che da sempre affolla l’immaginario cinematografico e televisivo a stelle e strisce. Distante anni luce dal canonico modello mieloso delle sit-com di maniera, essa appare connotata in particolare di uno smisurato spirito dissacratorio, pur essendo a propria volta quanto mai massificata.
Integralmente schiava del piccolo schermo, dei fenomeni di massa e di una cospicua messe di pregiudizi parossistici, col suo stile di vita per nulla politicamente corretto, la sit-com dei Simpson spolpa però alla radice ogni mito e ogni consuetudine, riscattandosi così dal baratro dell’assoluta mediocrità. Con l’istituzione-famiglia che permane al centro di tutto il plot narrativo: sbeffeggiata di continuo, ovvio, ma anche riconosciuta come l’unico (e l’ultimo) autentico punto di riferimento in chiave sociale, e a conti fatti il più solido, con un reciproco e ben saldo attaccamento fra ogni suo membro.
Il papà, grasso, pigro e devoto a birra e a ciambelle, Homer; la mamma, la casalinga perbenista e azzurrocrinita Marge; i tre figlioletti (Bart lo scavezzacollo impenitente, Lisa la saputella ecologista e l’ancora bebè Maggie): ecco la formazione base per intessere un’enorme quantità di ministorie, con mille ingredienti ulteriori fatti di altri personaggi e di situazioni solo all’apparenza paradossali.
(…) Ci siamo noi nell’ingenua fiducia nel consumismo di Homer, nel suo tentativo reiterato di sgattaiolare lontano dai doveri lavorativi, nella ricerca continua di un quarto d’ora di celebrità, nella bulimia rassegnata davanti al frigorifero o alla scatola della tele.
C’è, però, un secondo filone di lettura più raffinato, che non contrasta il primo ma anzi – a mio parere – lo arricchisce di parecchio. Non è difficile leggere in quelle sgangherate esistenze, infatti, il sogno antico dell’uguaglianza e delle pari opportunità. Con Homer uomo qualunque, Bart teppistello qualunque, e la famiglia intera famiglia qualunque, tuttavia capaci di dichiarare in controluce l’eccezionalità di ogni storia, ogni vicenda umana: persino della più (apparentemente) banale, frustrata, patetica, demenziale. Come appare la loro e quella della compagnia di giro della loro stralunata Springfield: il nonno più di là che di qua e l’integralista ultras della fede vicino di casa, il preside frustrato e mammone perennemente dedito a rimpiangere l’epopea del Vietnam e l’induista gestore di minimarket alla ricerca di un’anima gemella, il mefistofelico industriale disinteressato dei disastrosi esiti ambientali della sua produzione e il bullo della scuola bisognoso di affetto.
Da questo punto di vista, i Simpson mettono in scena l’ansia e la possibilità di un riscatto dall’abisso in cui quotidianamente rischiano (rischiamo?) di cadere. E soprattutto, l’irripetibilità assoluta delle infinite biografie che si danno nel mondo. Lo fanno, beninteso, con leggerezza e ironia, tenerezza e irriverenza, tenendoci avvinti al tubo catodico per quei poco più di venti minuti di ogni puntata, e dimostrando definitivamente (ce n’era bisogno?) che cartoons e fumetti non sono solo e necessariamente cibo infantile.
(…) Non stupirà troppo, a questo punto, che, più modestamente ma forti di tali illustri precedenti, si sia tentati di abbozzare le tracce di una teologia simpsoniana. Sì, perché i personaggi scaturiti dalla matita di Groening (nato da famiglia ebraica ma autodefinitosi agnostico), in effetti, interpretano come pochi altri il bisogno di socializzazione, di legami sociali in genere oggi negati, ma anche di andare oltre, di cieli almeno parzialmente aperti in tempi di cieli chiusi, della generazione del dopo 11 settembre: considerandola capace di sentimenti, preda di paure irrisolte, aperta al racconto di storie che prendono di petto il groviglio che alberga in tante vite.
Gli abitanti di Springfield dimostrano, infatti, a ogni piè sospinto di essere in primo luogo una vera e propria comunità, una compagnia di amici più che di concittadini, con tanto di mito fondatore, feste ricorrenti e tradizioni locali. E fungono da conferme viventi che il soprannaturale e le sue deviazioni fanno parte a pieno titolo del teatro della quotidianità, ed è assai più interessante imparare a gestirli che temerli ossessivamente. Certo, irridendo, il più dei casi, gli scenari del sacro, a partire dalla civil religion di marca squisitamente americana («Ma Marge, e se avessimo scelto la religione sbagliata? Ogni settimana faremmo solo diventare Dio più furioso!», dice Homer alla moglie per sfuggire alla funzione domenicale; mentre Lisa si scandalizza della strumentalizzazione delle orazioni al Cielo del fratello con un perentorio: «La preghiera: l’ultimo rifugio di una canaglia!»; ed è ancora Homer a lasciarsi scappare un «Dio è il mio personaggio immaginario preferito»).
Al tempo stesso, si inneggia esplicitamente a un dialogo interreligioso fatto di prassi più che di riflessioni metafisiche. (…) E ci si rivolge in presa diretta a Dio (raffigurato secondo i crismi dell’iconografia classica come un uomo enorme dotato di lunga barba bianca, di cui non si vede il volto) nei momenti di maggiore crisi. Mentre il reverendo Lovejoy, pastore di una non meglio precisata chiesa evangelica cittadina, regolarmente sbeffeggiato dal duo Homer/Bart, e più intento a conservare una qualche autorità sociale che a rispondere alle richieste dei suoi fedeli: tanto che a un certo punto sarà la stessa Marge a prenderne il posto, come Signora Ascolta, per replicare attivamente ai loro dubbi e problemi.
In realtà, a essere presa di mira non è tanto l’istituzione Chiesa, ma i suoi rappresentanti. La domenica, infatti, c’è tutto il paese alla funzione, magari con livelli di attenzione diversi al sermone: come nell’episodio in cui il solito Homer si isola da tutto, grazie a una minuscola radio, per non perdersi l’esito finale di un match sportivo. Mentre Bart convoca l’Altissimo anche in relazione alla propria passione preferita: «Fino a oggi non sapevo perché Dio mi aveva messo sulla terra. Ora lo so: per comprare quel fumetto!».
Come osserva l’esperto Luca Raffaelli, il fatto è che «i Simpson sono l’unica serie televisiva animata che si permette di parlare di Dio, e di quello con la D maiuscola». E i contatti diretti di Homer con Lui, del resto, gli confermano l’inutile prolissità delle prediche di Lovejoy, in un episodio in cui il capofamiglia si rifiuta di accettare la noiosità del rito di ogni domenica. Mentre Homer litiga con Marge che fa la parte di quella ligia a ogni dovere civilreligioso, è infatti lo stesso Padreterno che – dalle nuvole in cui abita con veste fluente e sandali ultracomodi – lo rassicura sull’effettiva insignificanza di una partecipazione puramente rituale. Quasi un monito sull’urgenza di rinfrescare il linguaggio ecclesiale!
Ma il passaggio più esilarante è forse, al riguardo, un monologo homeriano, in uno dei suoi (rari) momenti di grazia, che produce la seguente preghiera, davvero sui generis: «Caro Dio: gli dei sono stati benevoli con me. Per la prima volta nella mia vita, ogni cosa è assolutamente perfetta. Quindi ecco il patto: tu fermi ogni cosa così com’è, e io non ti chiederò mai più niente. Se è ok, per favore non darmi assolutamente nessun segno... (silenzio). Ok, affare fatto. In gratitudine, io ti offro questi biscotti e questo latte, se vuoi che li mangi per te, non darmi nessun segno... (silenzio) sarà fatto!».
Esauritesi le preoccupazioni degli inizi degli anni Novanta – quando la serie sbarcò in sordina nel Belpaese – con le riserve di genitori e pedagogisti sul linguaggio un po’ crudo e qualche scena violenta (Grattachecca e Fichetto), oggi il consenso sembra unanime. Il turpiloquio, a ben vedere, è ridotto al minimo; mentre gli accenni di violenza sono caricaturali e grotteschi, e dunque pieni di autoironia, fino a schiudersi in un effetto catartico.
La morale dei Simpson – sì, c’è anche una morale! – e insieme la loro idea vincente è, lo si accennava, che, alla fine, dopo il classico tsunami di peripezie e disavventure, ciò che può salvare il salvabile è solo il focolare domestico. Il nucleo familiare, per sgarrupato che sia, come bene-rifugio, investimento a lungo termine, àncora di salvezza in un universo denso di trappole: per dirla con un proverbio inglese, «east, west, / home’s best».
Anche il film uscito nei cinema, approdato in Italia nel settembre scorso, ce ne dà conferma: è attorno al desco di cucina che vengono ricompattate le tensioni e si ricompone l’ordine sociale, mentre tra un tacchino da ringraziamento e una bisteccona succulenta fioriscono le discussioni e le proposte più balzane. In una parola, c’è dialogo. Frizzante, altalenante, in grado di produrre sorprese e novità. Il che non è davvero poco, se ci pensiamo, di questi tempi malati di pochi happy end e di troppe banalità, per un universo fatto a forma di ciambella.
Brunetto Salvarani
Nessun commento:
Posta un commento