ACCOGLIENZA degli STRANIERI (2° domenica del T.O.:
giornata dei migranti)
La
seconda domenica del tempo ordinario è dedicata ai migranti e ci invita a
riflettere sul delicato tema dell’accoglienza degli stranieri. Ne ha parlato,
fra gli altri, Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di
Sant’Egidio e attuale ministro della cooperazione internazionale, in un
bell’articolo dal titolo “Stranieri. Come andare d’accordo” (Avvenire
10.4.11). Ricorda il nostro passato di popolo emigrante, per secoli “bianco
ed omogeneo” a differenza di quanto avveniva in Francia e in Gran Bretagna
“cuore di imperi coloniali con una cultura coloniale che guardava a genti
diverse. (…) l’Italia era fino al secondo dopoguerra un Paese di emigrati, che
conosciuto il dolore dell’abbandono e la fatica dell’integrazione. Gian
Antonio Stella, nel libro L’orda, quando gli albanesi eravamo noi,
ce lo mostra in modo efficace. È un libro che aiuta ad essere meno smemorati.
Siamo figli e nipoti di emigrati. Del resto, per ex emigrati è difficile
accettare nuovi emigrati. Spesso si dà luogo alle guerre tra i poveri. (…)
Oggi
l’Italia ha 60.387.000 cittadini e 4.500.000 (Istat nel 2008) emigrati, con uno
dei più bassi tassi di natalità al mondo e con speranza di vita di 78,8 per gli
uomini e di 84,1 per le donne. (…) Oggi il futuro sembra invaderci senza che
possiamo guidarlo. Assume l’aspetto degli stranieri che sbarcano sulle nostre
coste o in aree delle nostre città. Talvolta – ed è paradossale – assume il
volto dei rom. Davvero paradossale, perché questi sono solo
180.000, di cui la metà italiani e, per metà, bambini. Eppure diventano un
catalizzatore di insicurezza”.
C’è
poi la questione della popolazione musulmana che oggi supera
il milione di persone, mentre cinquant’anni fa erano poche unità. Ma,
continua Riccardi “l’Italia non è destinato a divenire un Paese 'invaso' dai
musulmani, come profetizzato dagli anni Ottanta. Le comunità musulmane non
fanno un corpo compatto. I musulmani marocchini restano altra realtà dai bangla,
dai confraternali muridi senegalesi, dagli albanesi secolarizzati (tra cui c’è
un tasso di conversioni al cattolicesimo). (…) Più di un terzo degli
immigrati (romeni, ucraini, moldavi, serbi) sono ortodossi. L’ortodossia
diventerà la seconda comunità religiosa in Italia. (…) Scrive Todorov: «Oggi …
siamo tutti meticci».
P.
Ugo Sartorio, direttore del mensile “Il Messaggero
di Sant’Antonio” prende spunto dalle “webrivoluzioni”, cioè dalle
rivolte in Nord Africa che, con rapido contagio “hanno portato alla ribalta
popoli vitali e vogliosi di strade di democrazia e benessere. Popoli uniti
dalla spinta verso un meglio troppo a lungo loro negato e stanchi di fare da
spettatori di fronte a regimi opulenti e repressivi. (…) Non si sa
ancora che futuro avranno (e, a parte và letta la guerra civile
libica in cui, scrive ancora Sartorio, è “facile annusare fame di
petrolio e di commesse industriali dietro a dichiarazioni di principio troppo
esili e retoriche”). “L’altra faccia di questa inedita situazione è
stato l’aumento esponenziale di afflusso di immigrati sulle coste italiane. (…)
E allora, in riferimento a questo ribollire dal Sud, si è parlato di invasione,
tsunami umano, effetto valanga. (…) AncheEnzo Bianchi, un credente per
cui la disponibilità ad accogliere fa parte dell’inconfondibile stile di vita
dei discepoli di Gesù, scrive: «Occorre riconoscere che esistono dei limiti
all’accoglienza: non i limiti dettati dall’egoismo di chi si asserraglia nel
proprio benessere e chiude gli occhi e il cuore davanti al proprio simile che
soffre, ma limiti imposti da una reale capacità di fare spazio agli altri,
limiti oggettivi, magari dilatabili con un serio impegno e una precisa volontà,
ma pur sempre limiti».
Una
cosa che ha colpito tutti è la giovane età di chi arriva aggrappato a un
barcone e la vitalità di queste frotte di giovani istruiti e ambiziosi. (…)
Mentre la media di età dei Paesi nordafricani è di 27 anni, in Italia solo il
10 per cento della popolazione è tra i 15 e i 24 anni. Da noi si discute sul diritto
a morire, accarezzando pericolosamente l’idea della buona morte, mentre una
gran fetta dell’umanità cerca di far valere, come può, il diritto a vivere e
dignitosamente. Chi avrà futuro?”.
Un
aspetto drammatico di questa “invasione” è quello costituito dalle migliaia di
morti annegati che non giungono alla sperata meta. Claudio Magris, scrittore
e giornalista, evidenzia la pericolosa assuefazione ai morti in mare,
tanto che non fanno più notizia, ci lasciano nell’inevitabile (?) indifferenza
(cita Bernanos che in un romanzo scrive: “Bisogna pur
vivere ed è questa la cosa più orribile”).
I
ROM
Riccardi
citava il caso specifico dei Rom o “Nomadi”. Vale la pena
soffermarci su questa variopinta popolazione descritta da Giancarlo
Perego, Direttore generale Migrantes, come “una galassia di popoli
e un mondo di mondi diversi che in Italia è composto da circa 170mila persone,
almeno la metà delle quali bambini e ragazzi. Spesso si sottovaluta il fatto
che più o meno il 70% di loro è italiano, un buon gruppo è europeo (soprattutto
originario della Romania) e solo una minoranza è di provenienza
extracomunitaria. Meno del 20% vive nei campi, la stragrande maggioranza vive
nei condomini, nelle case rurali, in paesi e in città. In prevalenza sono di
fede cristiana (il 70%), soprattutto cattolici- (…) Ci sono anche comunità di
evangelici e ortodossi. (…)Le migrazioni più recenti dalla Bosnia, Romania,
Serbia, Macedonia e dai Paesi dell’est in genere, ha portato alla formazione di
comunità musulmane. (…).
Di
loro parla anche l’attore e regista teatrale Pino Petruzzelli che
ha voluto vivere per 5 anni nei campi rom. Ricorda in una intervista come i rom
e i sinti sono generalmente apostrofati come « zingari, brutti, sporchi
e cattivi» . “In Italia”, prosegue, “c’è il grande
equivoco che i rom siano nomadi geneticamente, e infatti siamo l’unica nazione
al mondo che ha messo in piedi i campi nomadi. In tutto il resto del mondo
vivono in appartamenti, e solo se sono estremamente poveri finiscono in una
baracca, come finiscono così anche i non rom poveri delle periferie delle
grandi metropoli. ...I rom hanno una storia molto simile a quella del
popolo ebraico, ma nessuno si sognerebbe di dire che un ebreo è un nomade.
Invece, nel caso degli zingari, una storia di continue persecuzioni ha creato
il nomadismo...Hanno una storia tramandata in maniera orale. La nostra è una
cultura che ha scritto, così sappiamo soltanto quello che noi abbiamo scritto
di loro”.
Fu Karol
Wojtyla, a beatificare il primo zingaro, Ceferino Giménez
Malla detto «el Pelé», fucilato nel 1936 col rosario in mano
nella guerra civile spagnola perché aveva difeso un sacerdote. Lui a chiedere
perdono per le cacce all’uomo dei secoli passati e i silenzi e le timidezze
sul Porrajmos, l’olocausto per i nomadi nei lager nazisti: «I
cristiani facciano mea culpa anche per le colpe commesse contro gli zingari»
.
Benedetto
XVI non si è discostato mai da questa linea.
Anzi, negli Orientamenti per una pastorale degli zingari raccomanda
rapporti positivi con questa popolazione «da secoli presente in terra
tradizionalmente cristiana ma spesso emarginata, segnata dalla sofferenza,
dalla discriminazione e spesso anche dalla persecuzione» a causa di una «visione
del mondo» che «in una situazione di sedentarietà si ha difficoltà a comprendere»
e si tira perciò addosso in molti Paesi «una incomprensione tenace,
alimentata anche dalla mancata conoscenza delle caratteristiche e della storia
zingare».
Se voi avete il diritto di dividere il mondo in
italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e
reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato,
privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i
miei stranieri. E se voi avete il diritto...di insegnare che italiani e
stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io
reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i
ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi
approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far
orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo
sciopero e il voto.
don Lorenzo Milani
don Lorenzo Milani
ALTRE
CONSIDERAZIONI
Ci sono questioni delicate che a prima vista sembra
meglio che un prete eviti per non incorrere a contrasti forti e apparentemente
insanabili. Una di queste questioni riguarda l’accoglienza degli immigrati,
tornata drammaticamente e prepotentemente in voga in questi ultimi tempi per
terribili fatti di cronaca. Come deve comportarsi un cristiano di fronte a tali
situazioni? Deve rassegnarsi in un buonismo inerte che ci spinge a vivere nella
paura e nella prospettiva di perdere le nostre radici? Deve impedire che altri
immigrati vengano, nascondendosi dietro una ipocrita carità da fare a casa
loro? Deve vivere e lasciar vivere nella speranza che non sia io la vittima
della violenza che, dovunque c’è degrado e povertà, inevitabilmente è pronta a
scoppiare? Come conciliare l’amore cristiano (dove Gesù non esclude nessuno,
invita ad amare i nemici, a cercarlo nei poveri, a condividere i beni terreni
nella consapevolezza che non sono nostri, ma di Dio e che Dio ci chiama ad
amministrarli secondo la sua volontà che è, appunto, quella di far fruttificare
le risorse e distribuirle in modo che a nessuno manchino…) con la paura, con il
razzismo, con l’insofferenza che dilaga anche nei nostri cristiani praticanti?
Non penso che si tratti di questione insanabile e
inevitabilmente volta a dividere le opinioni. Penso che sia lecito chiedere
maggiore LEGALITA’, SICUREZZA, GIUSTIZIA. Ma è ai politici che dobbiamo
chiedere tutto ciò come diritto sacrosanto, non le otteniamo chiudendoci in
improbabili prigioni dorate o sognando di cacciare coloro che sono diversi da
noi. E a questo sacrosanto trinomio di diritti dobbiamo far convivere altri
sacrosanti e cristiani valori: TOLLERANZA, ACCOGLIENZA, SOLIDARIETA’.
Non si vuole dunque minimizzare le difficoltà e le
paure, soprattutto nei quartieri popolari e nelle periferie, ma ciò deve acuire
il bisogno di affrontare il problema e, come cristiani, di chiederci come
rispettare la nostra fede e affrontare situazioni che possono mettere in
pericolo la nostra sicurezza.
Ma perché accanirci contro gli extra-comunitari e non
chiedere piuttosto ai politici una reale riforma della giustizia che punisca e
riabiliti realmente chi sbaglia? Perché non fare prevenzione creando realtà
sociali volte a integrare, anziché emarginare, queste persone? Perché non
chiedere maggiori controlli e una presenza più capillare (in particolare nei
luoghi maggiormente a rischio) delle forze dell’ordine?
Interessante è la denuncia che è stata fatta qualche
settimana fa ne “L’Eco della Bassa Bresciana” sulla volontà politica dei
dirigenti del comune di “chiudere” le frontiere e il fatto che in questi anni,
volenti o nolenti, gli immigrati di Montichiari sono aumentati a dismisura,
senza per questo che si attuassero politiche volte a prevenire ed affrontare il
problema dell’integrazione.
L’economia italiana ha bisogno di forza lavoro
extra-comunitaria, in particolare per i lavori meno “dignitosi”. Le frontiere
italiane sono inevitabilmente aperte ed è impossibile chiuderle. Beppe Dal
Colle in un recente editoriale per Famiglia Cristiana elenca almeno tre motivi
per cui è dannoso e impossibile bloccare le fontiere:
1- l’Unione europea non consente più nessuna chiusura
delle frontiere al proprio interno per i cittadini, le merci, i capitali dei
Paesi membri, e la Romania lo è;
2- il blocco delle frontiere susciterebbe ritorsioni
dai Paesi danneggiati;
3- le prime a chiedergli di non farlo sarebbero le
13.000 imprese italiane già operanti in Romania, con 20.000 nostri concittadini
che già vi lavorano, accanto a un milione di romeni”.
Si dice: và bene accettare coloro che lavorano e si
“comportano bene”, ma perché non cacciare coloro che non hanno lavoro? Su
internet ho trovato una riflessione che può fornire una delle tante
risposte: Antonella, da Pescara scrive:
I flussi migratori di disperati non li fermeremo
mettendo lucchetti ai confini. Non li fermeremo fin quando il 20% dell'umanità
consumerà l'80% delle risorse mondiali avremo sempre più gente che cercherà in
tutti i modi di sfuggire alla miseria che, credo sia lapalissiano, abbrutisce
chiunque.
Oggi apriamo la caccia al rumeno; c'è stata quella all'albanese, al senegalese, al musulmano, al marocchino..... come se noi italiani fossimo tutti un campo di mammole innocenti. Sbaglio, o abbiamo esportato in tutto il mondo la criminalità organizzata ed i delitti più efferati nel nostro Paese negli ultimi anni sono avvenuti per mano di italiani? Sono molto preoccupata dal clima xenofobo che ci circonda, si respirano nell'aria intolleranza e prevaricazione. Sono molto preoccupata dai discorsi che sento fare da persone che conosco, e so essere aperte, lungimiranti, serene... da bocche insospettabili qualche sera fa ho sentito parole che ritengo raccapriccianti. Cito testualmente:"Il problema si risolve con un controllo attento e serrato: bisogna lasciar entrare solo quelli che ci servono. Esempio: ci servono 10 badanti, lasciamo entrare 10 badanti, non uno di più". Non so voi, ma io mi preoccupo quando questi discorsi non li fa Borghezio, ma uno di noi: stiamo dando spazio alla visione utilitaristica dell'essere umano, e questo porta alla rupe Tarpea ed al nazismo. Quando le 10 badanti non servono più perchè i vecchietti sono morti cosa facciamo? un calcio in culo e via? quando non ci sono più pomodori da raccogliere a salari da fame prendiamo quei quattro senegalesi e li buttiamo a mare da dove son venuti? Ma poi, perchè mai riteniamo che queste persone possano vivere nel nostro Paese solo se fanno il lavoro sporco che nessuno di noi vuole più fare, compresa l'assistenza ad una persona cara divenuta un peso? Proprio nella villetta di fianco a me vivono da anni due famiglie di rumeni: i migliori vicini che io abbia mai avuto, ma un dirimpettaio li ha denunciati perchè avevano ammucchiato della mobilia spicciola su un balcone coprendola con un telo. La casa è affittata mobiliata ma loro avevano bisogno di un po' di spazio in più perchè, per poter pagare l'affitto esorbitante che un italianissimo proprietario pretende hanno dovuto mettersi insieme due famiglie. Una domenica pomeriggio c'era uno dei due uomini che curava il giardino, l'altro che lavava la macchina, la bimba che giocava e le donne che stendevano i panni, mentre un mangianastri vecchio stampo mandava la loro tipica musica. E' passata un'altra vicina e, rivolta a me che stavo uscendo, ha detto :" questi credono di venire qua a fare quello che gli pare!" Io l'ho guardata e le ho chiesto " perchè, che stanno facendo di così grave? magari non le piace quella musica, ma neanche a me piace Eros Ramazzotti per cui va pazza sua nipote".
Oggi apriamo la caccia al rumeno; c'è stata quella all'albanese, al senegalese, al musulmano, al marocchino..... come se noi italiani fossimo tutti un campo di mammole innocenti. Sbaglio, o abbiamo esportato in tutto il mondo la criminalità organizzata ed i delitti più efferati nel nostro Paese negli ultimi anni sono avvenuti per mano di italiani? Sono molto preoccupata dal clima xenofobo che ci circonda, si respirano nell'aria intolleranza e prevaricazione. Sono molto preoccupata dai discorsi che sento fare da persone che conosco, e so essere aperte, lungimiranti, serene... da bocche insospettabili qualche sera fa ho sentito parole che ritengo raccapriccianti. Cito testualmente:"Il problema si risolve con un controllo attento e serrato: bisogna lasciar entrare solo quelli che ci servono. Esempio: ci servono 10 badanti, lasciamo entrare 10 badanti, non uno di più". Non so voi, ma io mi preoccupo quando questi discorsi non li fa Borghezio, ma uno di noi: stiamo dando spazio alla visione utilitaristica dell'essere umano, e questo porta alla rupe Tarpea ed al nazismo. Quando le 10 badanti non servono più perchè i vecchietti sono morti cosa facciamo? un calcio in culo e via? quando non ci sono più pomodori da raccogliere a salari da fame prendiamo quei quattro senegalesi e li buttiamo a mare da dove son venuti? Ma poi, perchè mai riteniamo che queste persone possano vivere nel nostro Paese solo se fanno il lavoro sporco che nessuno di noi vuole più fare, compresa l'assistenza ad una persona cara divenuta un peso? Proprio nella villetta di fianco a me vivono da anni due famiglie di rumeni: i migliori vicini che io abbia mai avuto, ma un dirimpettaio li ha denunciati perchè avevano ammucchiato della mobilia spicciola su un balcone coprendola con un telo. La casa è affittata mobiliata ma loro avevano bisogno di un po' di spazio in più perchè, per poter pagare l'affitto esorbitante che un italianissimo proprietario pretende hanno dovuto mettersi insieme due famiglie. Una domenica pomeriggio c'era uno dei due uomini che curava il giardino, l'altro che lavava la macchina, la bimba che giocava e le donne che stendevano i panni, mentre un mangianastri vecchio stampo mandava la loro tipica musica. E' passata un'altra vicina e, rivolta a me che stavo uscendo, ha detto :" questi credono di venire qua a fare quello che gli pare!" Io l'ho guardata e le ho chiesto " perchè, che stanno facendo di così grave? magari non le piace quella musica, ma neanche a me piace Eros Ramazzotti per cui va pazza sua nipote".
Siamo sicuri che questa sia la giusta accoglienza di
cui ci riempiamo la bocca?
Prima di tutto
vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano
antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi
erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non
ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a
protestare.
Bertolt Brecht (Berlino,
1932)
Immigrazione.
Lettera ai popoli e a chi ha paura
di Ermes Ronchi
Io, Saulo, ebreo figlio di
ebrei, della tribù di Beniamino, io, detto Paolo, nato a Tarso tra i greci, in
Cilicia dell'Asia Minore che sono per diritto cittadino romano, io migrante per
tutto il Mediterraneo, a tutti i fratelli immigrati in paese straniero. Io che
ho navigato per isole e coste, e conosco i naufragi, che ho attraversato
deserti e città, che conosco Gerusalemme, Atene e Roma, amo Efeso e Antiochia e
le città dell'Asia Minore: io oggi mi rendo conto che ogni terra è per me
patria, e ogni patria è per me terra straniera. Io mi rendo conto che davanti a Dio
non esiste giudeo né greco, non esiste schiavo né libero, non esiste uomo o
donna, nordeuropeo o nordafricano, poiché tutti siamo uno in Cristo, una sola
persona in Gesù. Cristo ci ha liberati da ciò che appartiene all'uomo
esteriore, per la libertà ci ha liberati.
Ognuno resta ciò che è, ogni
diversità rimane, ma non conta più. Ciò che conta non è circoncisione o non
circoncisione, ma l’essere una nuova creatura, in Cristo. La nostra identità è Cristo.
Io, di nome latino, di origine ebraica, per cultura greco, figlio di tre popoli, non appartengo a nessuno di questi, e sono debitore di tutti, debitore verso i greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti, ho un debito d'amore da versare a ogni uomo.
Io, straniero in Roma scrivo a voi che sentite lo straniero come una minaccia. Dio dei molti vuole fare uno, delle molte genti un popolo solo, un solo corpo, crea la comunione nella differenza, e non nell'uniformità. Ogni identità rimane, ma le mie radici non vanno indietro verso qualche luogo oscuro, ma sono braccia che si protendono e abbracciano. E si allargano in superficie incontrandone e stringendone altre, senza rinnegare l'origine, ma facendola continuamente vivere e dunque mutare negli incontri. Così mi sono fatto tutto a tutti, greco con i greci, giudeo con i giudei, debole con i deboli, mi sono arricchito di tutti. Fratello che hai paura, Dio ha riconciliato il mondo nella croce di Cristo ma ora ha affidato a noi, a me, la parola della riconciliazione.
Io, di nome latino, di origine ebraica, per cultura greco, figlio di tre popoli, non appartengo a nessuno di questi, e sono debitore di tutti, debitore verso i greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti, ho un debito d'amore da versare a ogni uomo.
Io, straniero in Roma scrivo a voi che sentite lo straniero come una minaccia. Dio dei molti vuole fare uno, delle molte genti un popolo solo, un solo corpo, crea la comunione nella differenza, e non nell'uniformità. Ogni identità rimane, ma le mie radici non vanno indietro verso qualche luogo oscuro, ma sono braccia che si protendono e abbracciano. E si allargano in superficie incontrandone e stringendone altre, senza rinnegare l'origine, ma facendola continuamente vivere e dunque mutare negli incontri. Così mi sono fatto tutto a tutti, greco con i greci, giudeo con i giudei, debole con i deboli, mi sono arricchito di tutti. Fratello che hai paura, Dio ha riconciliato il mondo nella croce di Cristo ma ora ha affidato a noi, a me, la parola della riconciliazione.
E vai, vai leggero / dietro il
sole e il vento, / e canta. / Vai di paese in paese /
e saluta, saluta tutti: / il nero l'olivastro/ e perfino il bianco. / Che tutti i paesi / si contendano di averti generato (David M. Turoldo)
e saluta, saluta tutti: / il nero l'olivastro/ e perfino il bianco. / Che tutti i paesi / si contendano di averti generato (David M. Turoldo)
Don Tonino Bello
A Molfetta, durante una
tentata rapina un metronotte, per legittima difesa, sparò e uccise il ladro,
uno zingaro. Il Vescovo, Monsignor Tonino Bello, saputa la notizia si recò al
cimitero e rimase contristato dalla solitudine del morto: non c’era nessuno
alle sue esequie e scrisse una lettera ad un uomo che non l’avrebbe mai letta,
a Massimo, il ladro zingaro ammazzato.
Ho saputo per caso della tua morte violenta, da un ritaglio di
giornale. Mi hanno detto che ti avrebbero seppellito stamattina, e sono venuto
di buon’ora al cimitero a celebrare le esequie per te.
Ma non ho potuto pronunciare l’omelia. Perché alla mia messa non c’era nessuno. Solo don Carlo, il cappellano, che rispondeva alle orazioni. E il vento gelido che scuoteva le vetrate.
Sulla tua bara, neppure un fiore. Sul tuo corpo, neppure una lacrima. Sul tuo feretro, neppure un rintocco di campana.
Ho scelto il Vangelo di Luca, quello dei due malfattori crocifissi con Cristo, e durante la lettura mi è parso che la tua voce si sostituisse a quella del ladro pentito: «Gesù, ricordati di me!…».
Povero Massimo, ucciso sulla strada come un cane bastardo, a 22 anni, con una spregevole refurtiva tra le mani che è rotolata nel fango con te!
Povero randagio. Vedi: sei tanto povero, che posso chiamarti ladro tranquillamente, senza paura che qualcuno mi denunzi per vilipendio o rivendichi per te il diritto al buon nome.
Tu non avevi nessuno sulla terra che ti chiamasse fratello. Oggi, però, sono io che voglio rivolgerti, anche se ormai troppo tardi, questo dolcissimo nome.
Mio caro fratello ladro, sono letteralmente distrutto.
Ma non per la tua morte. Perché, stando ai parametri codificati della nostra ipocrisia sociale, forse te la meritavi. Hai sparato tu per primo sul metronotte, ferendolo gravemente. E lui si è difeso. E stamattina, quando sono andato a trovarlo in ospedale, mi ha detto piangendo che anche lui strappa la vita con i denti. E che, con quei quattro luridi soldi per i quali rischia ogni notte la pelle, deve mantenere dieci figli: il più grande quanto te, il più piccolo di un anno e mezzo.
No, non sono amareggiato per la tua morte violenta. Ma per la tua squallida vita.
Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti aveva ingiustamente ucciso tutta la città. Questa città splendida e altera, generosa e contraddittoria. Che discrimina, che rifiuta, che non si scompone. Questa città dalla delega facile. Che pretende tutto dalle istituzioni. Che non si mobilita dalla base nel vedere tanta gente senza tetto, tanti giovani senza lavoro, tanti minori senza istruzione. Questa città che finge di ignorare la presenza, accanto a te che cadevi, di tre bambini che ti tenevano il sacco!
Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti avevano ingiustamente ucciso le nostre comunità cristiane. Che, sì, sono venute a cercarti, ma non ti hanno saputo inseguire. Che ti hanno offerto del pane, ma non ti hanno dato accoglienza. Che organizzano soccorsi, ma senza amare abbastanza. Che portano pacchi, ma non cingono di tenerezza gli infelici come te. Che promuovono assistenza, ma non promuovono una nuova cultura di vita. Che celebrano belle liturgie, ma faticano a scorgere l’icona di Cristo nel cuore di ogni uomo. Anche in un cuore abbrutito e fosco come il tuo, che ha cessato di batter per sempre.
Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, forse ti avevo ingiustamente ucciso anch’io che, l’altro giorno, quando c’era la neve e tu bussasti alla mia porta, avrei dovuto fare ben altro che mandarti via con diecimila miserabili lire e con uno scampolo di predica.
Perdonaci, Massimo.
Il ladro non sei solo tu. Siamo ladri anche noi perché prima ancora che della vita, ti abbiamo derubato della dignità di uomo.
Perdonaci per l’indifferenza con la quale ti abbiamo visto vivere, morire e seppellire.
Perdonaci se, ad appena otto giorni dall’inizio solenne del l’anno internazionale dei giovani, abbiamo fatto pagare a te, povero sventurato, il primo estratto conto della nostra retorica.
Addio, fratello ladro.
Domani verrò di nuovo al camposanto. E sulla tua fossa senza fiori, in segno di espiazione e di speranza, accenderò una lampada.
Ma non ho potuto pronunciare l’omelia. Perché alla mia messa non c’era nessuno. Solo don Carlo, il cappellano, che rispondeva alle orazioni. E il vento gelido che scuoteva le vetrate.
Sulla tua bara, neppure un fiore. Sul tuo corpo, neppure una lacrima. Sul tuo feretro, neppure un rintocco di campana.
Ho scelto il Vangelo di Luca, quello dei due malfattori crocifissi con Cristo, e durante la lettura mi è parso che la tua voce si sostituisse a quella del ladro pentito: «Gesù, ricordati di me!…».
Povero Massimo, ucciso sulla strada come un cane bastardo, a 22 anni, con una spregevole refurtiva tra le mani che è rotolata nel fango con te!
Povero randagio. Vedi: sei tanto povero, che posso chiamarti ladro tranquillamente, senza paura che qualcuno mi denunzi per vilipendio o rivendichi per te il diritto al buon nome.
Tu non avevi nessuno sulla terra che ti chiamasse fratello. Oggi, però, sono io che voglio rivolgerti, anche se ormai troppo tardi, questo dolcissimo nome.
Mio caro fratello ladro, sono letteralmente distrutto.
Ma non per la tua morte. Perché, stando ai parametri codificati della nostra ipocrisia sociale, forse te la meritavi. Hai sparato tu per primo sul metronotte, ferendolo gravemente. E lui si è difeso. E stamattina, quando sono andato a trovarlo in ospedale, mi ha detto piangendo che anche lui strappa la vita con i denti. E che, con quei quattro luridi soldi per i quali rischia ogni notte la pelle, deve mantenere dieci figli: il più grande quanto te, il più piccolo di un anno e mezzo.
No, non sono amareggiato per la tua morte violenta. Ma per la tua squallida vita.
Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti aveva ingiustamente ucciso tutta la città. Questa città splendida e altera, generosa e contraddittoria. Che discrimina, che rifiuta, che non si scompone. Questa città dalla delega facile. Che pretende tutto dalle istituzioni. Che non si mobilita dalla base nel vedere tanta gente senza tetto, tanti giovani senza lavoro, tanti minori senza istruzione. Questa città che finge di ignorare la presenza, accanto a te che cadevi, di tre bambini che ti tenevano il sacco!
Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti avevano ingiustamente ucciso le nostre comunità cristiane. Che, sì, sono venute a cercarti, ma non ti hanno saputo inseguire. Che ti hanno offerto del pane, ma non ti hanno dato accoglienza. Che organizzano soccorsi, ma senza amare abbastanza. Che portano pacchi, ma non cingono di tenerezza gli infelici come te. Che promuovono assistenza, ma non promuovono una nuova cultura di vita. Che celebrano belle liturgie, ma faticano a scorgere l’icona di Cristo nel cuore di ogni uomo. Anche in un cuore abbrutito e fosco come il tuo, che ha cessato di batter per sempre.
Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, forse ti avevo ingiustamente ucciso anch’io che, l’altro giorno, quando c’era la neve e tu bussasti alla mia porta, avrei dovuto fare ben altro che mandarti via con diecimila miserabili lire e con uno scampolo di predica.
Perdonaci, Massimo.
Il ladro non sei solo tu. Siamo ladri anche noi perché prima ancora che della vita, ti abbiamo derubato della dignità di uomo.
Perdonaci per l’indifferenza con la quale ti abbiamo visto vivere, morire e seppellire.
Perdonaci se, ad appena otto giorni dall’inizio solenne del l’anno internazionale dei giovani, abbiamo fatto pagare a te, povero sventurato, il primo estratto conto della nostra retorica.
Addio, fratello ladro.
Domani verrò di nuovo al camposanto. E sulla tua fossa senza fiori, in segno di espiazione e di speranza, accenderò una lampada.
Sotto le querce di Mamre (di fronte allo
straniero)
di Piero Stefani, ADISTA di sabato 23 maggio 2009
Anche un tempo poteva avvenire di essere depredati, ma per
converso poteva capitare pure di ospitare angeli. La lettera agli Ebrei non
cita il nome di Abramo. Da ciò vorremmo dedurre che l'ospitalità più autentica
ha luogo quando qualcuno non sa il nome di chi accoglie e chi domanda non sa il
nome di chi lo deve ospitare. La situazione appena descritta pare lontanissima;
eppure, a guardarci bene, non è poi tanto remota. Anzi essa fa la sua comparsa
in molti angoli di strada e su tanti gradini di chiese. Quando qualcuno chiede
l'elemosina, una mano anonima si tende verso un'altra mano senza nome. Un
piccolo rischio vi è anche in quelle circostanze. Si può sbagliare, si può dare
un minimo contributo a un'organizzazione sfruttatrice, si può essere ingannati
da un falso bisogno. Tuttavia in questa virtualità anonima è racchiusa, in
germe, la possibilità, quasi mai colta, di uno svelamento reciproco nel quale
offrire e chiedere un nome riveste il denaro di abiti ospitali. L'ospitalità ha
bisogno di porte aperte. Nella tradizione rabbinica, parlando di Giobbe e dei suoi
meriti (“All'aperto non passava la notte il forestiero e al viandante aprivo le
mie porte» Gb 31,32), si afferma che la sua casa aveva quattro entrate, ognuna
aperta verso uno punto cardinale affinché i viandanti la vedessero qualunque
fosse la loro provenienza. In realtà si tratta di una trasposizione: prima le
stesse caratteristiche erano state dette per Abramo. Tuttavia tra le due figure
bibliche la differenza è grande. Per Giobbe si parla di una casa, per Abramo di
una tenda. Uno era stanziale, l'altro nomade. La peculiarità di quanto avvenne
alle querce di Mamre si trova nel fatto che Abramo stava all'ingresso della
tenda nell'ora più calda del giorno, quando meno probabile era il passaggio di
viandanti. La mobile provvisorietà della tenda è aperta ad accogliere chi
passa. Solo chi in proprio si sente forestiero e pellegrino è capace di dare
davvero ospitalità a chiunque. Secondo i commenti ebraici, Abramo non soltanto
non era stanziale, era anche sofferente. Nonostante il suo corpo patisse, egli
era là sulla soglia rivolto ad accogliere sconosciuti viandanti. Quale la causa
del suo dolore? Per saperlo bisogna seguire la via in base alla quale non c'è
occasionalità nella successione dei capitoli biblici. Prima dell'episodio di
Mamre vi è il brano in cui si parla della circoncisione a cui si sottopose
Abramo assieme a tutti i maschi della sua casa (Gen 17). La pratica, se
compiuta su adulti, provoca febbre e acuti dolori. Il patriarca si trovava in
quelle condizioni. Soffriva non per una malattia, ma per aver avuto impresso
nella propria carne il segno dell'alleanza. Quel dolore lo spingeva verso gli
altri. Fu allora che Dio lo venne a visitare, sotto l'aspetto di viandanti
arabi e di angeli. Il dolore dell'alleanza obbliga il Signore e Abramo a una
ospitalità reciproca.
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