Il miracolo discreto di Carlo Maria Martini di Armando Torno, CORRIERE DELLA SERA 30.8.13
Il 31 agosto dello scorso anno il cardinale Carlo Maria Martini moriva. La notizia non giunse all'improvviso. Nei giorni precedenti le voci si erano rincorse e il porporato aveva avuto modo di accorgersi. Anzi, confidò qualcosa alle persone a lui più vicine sul grande passo, su quell'andare oltre il muro d'ombra che circonda ogni vita. Il Parkinson non gli dava tregua da anni e si era accanito negli ultimi tempi. Mese dopo mese sua eminenza - lo chiameremo in tal modo, anche se lui preferiva semplicemente l'appellativo di padre - rinunciava a qualcosa. Toccò anche alla voce. Comunicava con il mondo grazie a don Damiano Modena, che lo assisteva giorno e notte dal settembre del 2009; era lui, insomma, che sapeva «tradurre» quello che il cardinale riusciva ad esprimere con molto sforzo. Con soffi, bisbigli, sovente rantoli. Eppure chi si recava in visita da Carlo Maria Martini, ormai stabilitosi in due piccole stanze dell'Aloisianum di Gallarate, riceveva sempre un dono. A volte era un insegnamento di esegesi biblica, altre volte giudizi sulle cose del mondo che egli riusciva a cogliere con prospettiva privilegiata (indimenticabili quelli sulla musica di Mozart o sulla vita della Chiesa), altre ancora era un libro. Uno dei tanti che ancora curava o che raccoglievano suoi scritti. L'ultimo era consacrato alle preghiere e la dedica a penna che ad esso poneva era un ulteriore invito: «Pregate!». Un imperativo che compendiava la sua vita di gesuita, la missione a cui si dedicò, i forti esercizi di Sant'Ignazio, il dialogo che aveva aperto con le altre religioni, gli intensi studi sui testi papiracei del Nuovo Testamento, il confronto serrato con i non credenti ai quali chiese con umiltà di spiegargli le ragioni del loro distacco da Dio. A un anno di distanza dalla sua scomparsa ci si rende conto che Martini continua a testimoniare, a suggerire, ad essere un riferimento. Nel Duomo di Milano la sua tomba ha, dal giorno dei funerali, sempre candele accese e non mancano in nessuna ora del giorno persone che sostano in raccoglimento.
L'arciprete della cattedrale,
Gianantonio Borgonovo, ha parlato di un miracolo discreto, incessante, che tocca coloro che per mille ragioni diverse si recano in visita; un miracolo che non urla ma si avverte. Certo, Martini resta indimenticabile per quei pochi che hanno assistito alle sue lezioni in Gregoriana (le ultime tenute in latino) o per chi ebbe l'opportunità di vederlo una sera la settimana allorché faceva visita ai carcerati di San Vittore, dove parlò anche con esponenti delle Brigate Rosse (si arresero a lui, portando un arsenale in Arcivescovado); impossibile scordare l'uomo su una carrozzella quando, ormai deposta la porpora, ebbe due incontri con Benedetto XVI, a Roma e a Milano. Ma sono soltanto cenni. Il cardinale resta uno dei rari uomini che ebbero una fede profonda nella Parola, nel Dio che si rivela, e che insegnò come pochi altri a leggerla, a viverla, a coglierla nel silenzio o tra le grida del mondo. Quando gli si sottoponeva un quesito biblico, offriva sempre una risposta sorprendente; a volte ricordava come quel passo si dovesse leggere dopo taluni testi apocrifi, altre volte levava le ridondanze interpretative, altre ancora suggeriva una parola ebraica o greca per venirne a capo. Certo, citava anche con disinvoltura il copto, ma lo faceva con grande attenzione verso l'interlocutore: sapeva scegliere sempre la via per farsi capire e, a differenza dei professori specializzati e di taluni pennivendoli, aveva rinunciato a stupire. Amava sorridere. Sempre. E anche negli ultimi giorni era rimasto quello che fu in ogni momento dell'esistenza: un timido con un coraggio da leone e una forza spirituale che comunicava all'interlocutore la presenza di una vera autorità. Alcuni filosofi sostengono che si nasce così, forse il cardinale lo diventò. Con il percorso duro e unico della formazione gesuitica. Il libro che ora esce, Carlo Maria Martini. Il silenzio della parola, reca la firma di Damiano Modena e gli interventi di Ferruccio de Bortoli e Antonio Sciortino. È la sintesi commovente di un testimone che ha vissuto ininterrottamente tre anni con sua eminenza. Infinite le suggestioni. Come quando in un giorno d'inverno i due stavano camminando nell'ombra di un bosco pianeggiante e il crepitare delle foglie secche sotto le loro scarpe si rifletteva tra le fronde degli alberi. Martini confidò a don Damiano: «Questo rumore una volta mi ha salvato la vita». Il sacerdote chiese di più al porporato. E allora «padre Carlo Maria» raccontò: «Ero un giovane gesuita in formazione. Mi sentivo solo, depresso, un po' in crisi. Mi domandavo che senso avesse la vita, per che cosa valesse la pena vivere. Restai in ascolto e mi resi conto che l'unica compagnia era il rumore delle foglie sotto le scarpe. La compagnia di quel rumore mi diede la forza per non scoraggiarmi, valeva la pena vivere». Parole che rispondono indirettamente a coloro che cercano prove dell'esistenza di Dio, anzi - sottolinea Damiano - «si fidano solo se Dio parla loro ed è per questo che non sentono la sua voce». Quelle foglie recano un messaggio infinito, il medesimo che si ritrova nel libro allorché Damiamo ricorda la voce svanita del cardinale: «Lui parla a Dio. Parla e vorrebbe parlare di più, parlare meglio, ma la malattia lo spossa. Si vedono piccoli movimenti delle labbra... Lui canta, e nel suo canto la voce si frantuma, diventa luminosa, come i cocci di un cristallo al sole. Sa di avere una voce disarmonica, ma non se ne preoccupa». Aggiunge Damiano: «Cosa accada tra lui e Dio in certi momenti non si sa». La testimonianza di Ferruccio de Bortoli rivela un segreto: la piccola icona accanto a cui pregava il cardinale è stata donata a lui, direttore del Corriere; anzi è nella sua stanza di via Solferino. Gliela portò lo stesso Damiano, esaudendo una volontà. In quel gesto c'erano anche gli ultimi tre anni della vita del cardinale, durante i quali aveva tenuto una pagina di dialogo mensile con i lettori. Paolo Baldini e chi scrive ebbero l'incarico (e il privilegio) di realizzarla, portando le lettere, dialogando con «il padre» (e don Damiano), mostrandogli la bozza. A capo di un giornale sarebbe stato esigentissimo. Ritrovò una sua passione giovanile e, grazie ad essa, continuò quel dialogo con fedeli e non credenti che aveva cadenzato la sua vita. Rispose anche a molti lettori privatamente, alcuni li ricevette. Ma lo fece in silenzio, senza far conoscere nomi o ragioni. A tutti raccomandò: «Pregate!».
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