martedì 8 ottobre 2013

ATEISMO…

"Tu non credi? Non preoccuparti: è Dio che crede in te"
San Padre Pio d Pietralcina (1887-1968)

Credo (o almeno credo): c'è chi dice no (ateismo, agnosticismo...)

ATEISMO (a-Teo)
Gli atei sono persone che credono che Dio o gli dèi (o altri esseri soprannaturali) siano costruzioni umane, miti e leggende. L’ateismo, tranne casi isolati nella Grecia classica (IV-III sec. A.C.) nasce durante l’illuminismo. Nel caso di Gesù Cristo nega la sua divinità.
> ATEISMO PRATICO: vivere “come se” non vi fosse Dio, senza riferirsi ad
alcuna divinità.
> MATERIALISMO: crede che l'unica realtà esistente sia quella visibile, materiale.
> TEISMO: credere nella dimensione soprannaturale, in maniera impersonale;
Gesù Cristo è una espressione della divinità presente nel mondo.
> PANTEISMO:credere che Dio sia in tutte le cose (animate o inanimate); Gesù
Cristo è una delle persone o delle cose attraverso cui incontrare la divinità
(impersonale). Non crede che Gesù sia figlio di Dio.

AGNOSTICISMO: agnostico (dal greco a-gnothein non sapere) indica un atteggiamento con cui si sospende il giudizio rispetto a un problema, poiché  non se ne ha (o non se ne può avere) sufficiente conoscenza. In senso stretto è  l'astensione sul problema della realtà del divino e dunque anche della divinità di Gesù Cristo.


Ha affermato Einstein: «Io non sono ateo e non penso di potermi definire panteista. Noi siamo nella situazione di un bambino che è entrato in una immensa biblioteca piena di libri scritti in molte lingue. Il  bambino sa che qualcuno deve aver scritto quei libri. Ma non sa come. E non
conosce le lingue in cui sono stati scritti quei libri. Il bambino oscuramente sospetta che vi sia un misterioso ordine nella disposizione dei volumi, ma non sa quale sia. Questa mi sembra essere la situazione dell’essere umano, anche il più intelligente, di fronte a Dio. Noi vediamo l’universo meravigliosamente disposto e regolato da certe leggi. La nostra mente limitata (tuttavia) è in grado di intuire che una misteriosa forza muove le costellazioni
».

Ø GNOSTICISMO: movimento dei primi secoli del cristianesimo fondato sulla
sapienza o illuminazione (gnosi) riservata agli iniziati. La salvezza dipende
dalla conoscenza illuminata (> NEOGNOSTICISMO e movimenti new age).
CREDENTE (in Cristo)
Crede che Gesù Cristo, così come testimoniato dalla Bibbia (Scrittura) e
trasmesso dalla Chiesa (Tradizione), sia uomo e insieme Dio, nato, morto e
Risorto e dunque vivente.

RELATIVISTA o soggettivista
Crede che la fede sia RELATIVA al soggetto, cioè a sé stesso e non tanto ad un
evento storico o ad una persona concreta: la fede puoi averla o non averla e
dipende da te come essa sia (“io credo
che… io sento” che…). Non crede a verità
assolute, ma a verità RELATIVE al soggetto.

SINCRETISTA
Crede a più religioni in contemporanea, prende da diverse religioni ciò che
preferisce facendo un mix religioso.

Carlo Climati
Fino a qualche anno fa, il mondo in cui vivevamo era fortemente impregnato di cultura cristiana. Oggi, invece, il mondo è certamente più ateo. Questo è un male? Personalmente, non credo che gli atei siano peggiori dei credenti. L’ateismo, di per sé, non è un male, se è accompagnato dall’onestà intellettuale e dalla volontà di confrontarsi. Io credo che alcuni valori in cui i cattolici credono non siano strettamente “religiosi”. Sono valori universali. Mi riferisco ad una serie di “regole non scritte” che tutti (anche gli atei) dovrebbero condividere: l’unità della famiglia, l’amicizia, la gentilezza, la buona educazione, il senso del pudore, il rispetto degli altri, la cultura dello sforzo e dell’impegno, la pace, il rispetto dei diritti umani, a cominciare dal diritto alla vita. Io credo che questi valori siano semplicemente “umani”, condivisibili in ogni parte del mondo, al di là di ogni confine culturale e religioso. Oggi questi valori vengono continuamente messi in discussione. Le nuove generazioni sembrano aver smarrito la coscienza del bene e del male. E l’ateismo, purtroppo, si associa sempre di più al nichilismo e al relativismo morale. Si sta diffondendo un ateismo aggressivo, cattivo, presuntuoso. Io ho veramente nostalgia degli atei di una volta, che sapevano dialogare e anche mettersi in discussione. Oggi, molti atei sono superbi e non hanno neppure il coraggio di chiamarsi con il proprio nome. Preferiscono definirsi “laici”. Il termine “laico” viene utilizzato, erroneamente, come sinonimo di “libero”. Secondo una mentalità diffusa, i “laici” sarebbero più “liberi”, più “evoluti” e più “aperti” dei cattolici. Si parla, non a caso, di Stato “laico”, nell’illusione che questo tipo di Stato possa essere più “libero”, imparziale, o addirittura migliore degli altri. Lo stesso errore viene commesso quando si parla di scuola “laica”, di bioetica “laica”, di visione “laica” della famiglia e di tante altre cose che sembrerebbero essere più nobili, in quanto non “contaminate” dalla fede in Dio. Io credo che i cattolici dovrebbero nuovamente impossessarsi della loro “laicità”, senza paure e senza complessi. Io, ad esempio, sono “laico”, perché non sono un prete. Ma sono anche cattolico. E quindi, sono laico e cattolico. Gli altri, che non credono in Dio, non sono “laici”. Sono semplicemente atei. In questo diffuso terreno culturale ateo (e non “laico”), si sta verificando un fenomeno curioso: il ritorno della superstizione. Esoterismo, occultismo e spiritismo sembrano trovare energie nuove e terreno fertile nella credulità popolare di milioni di persone, soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione. Basta accendere la televisione, a qualunque ora, per trovarsi di fronte a maghi e cartomanti che vendono amuleti o leggono i Tarocchi. Tutto questo sembrerebbe essere in contrasto con lo straordinario bisogno di razionalità e di ateismo che caratterizza i nostri tempi. Nell’epoca dei computer e delle conquiste dello spazio, non si dovrebbe avere paura del malocchio e ricorrere ad un talismano per ritrovare fiducia in sé stessi. Eppure, questo è ciò che sta accadendo. Un grande scrittore, Chesterton, diceva che quando l’uomo smette di credere in Dio, non è vero che non crede più a nulla. Comincia a credere a tutto il resto. Ed è quello che sta succedendo oggi. Non siamo più credenti, ma creduloni. Molti giovani, oggi, dicono di essere atei e di non credere in Dio. Io non ci credo. Non sono atei, ma “politeisti”. Credono in tante “divinità”. Chi sono le nuove “divinità” di oggi? La carriera, i soldi, il sesso sfrenato, la bella automobile, il telefono cellulare dai mille usi, il computer ultimo modello, le scarpe alla moda, la casa lussuosa, le vacanze esotiche... I giovani sono avvolti in una specie di “nuovo paganesimo”, in cui le divinità ci sorridono dagli spot pubblicitari o dalle copertine di certe riviste. Tutto gira intorno al concetto di “avere”. I ragazzi sono spinti a credere che “se si ha, si è”. Altrimenti, non si è nessuno. E così, ancora una volta, scatta l’invito a comprare, consumare, accumulare. Anche quando non esiste un ragionevole bisogno di farlo. E’ questo il terreno culturale che è stato costruito per i giovani del terzo millennio. E’ facile dire che le nuove generazioni sono superficiali ed apatiche. Ma che colpa possono avere, se quasi nessuno ha il coraggio di proporre loro un’esistenza un po’ meno materialista? Un grande uomo di fede, Martin Luther King, disse: “Mentre una società opulenta vorrebbe indurci a credere che la felicità consiste nella dimensione delle nostre automobili, nell’imponenza delle nostre case e nella sontuosità delle nostre vesti, Gesù ci ammonisce che la vita di un uomo non consiste nell’abbondanza delle cose che egli possiede”. E’ da qui che bisogna ripartire, per donare fiducia e speranza ai giovani. "
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La fede cristiana in un contesto di secolarizzazione diffusa

Dalla seconda lettera  del patriarca di Venezia (2012)
La secolarità è cosa diversa dalla secolarizzazione: consiste nel riconoscere l’obiettiva autonomia delle realtà terrene liberandole da una dipendenza impropria o, addirittura, errata nei confronti di Dio. Il processo di secolarizzazione conduce, invece, verso un mondo e un’umanità senza riferimento alla trascendenza e così - quando si parla dell’uomo, della convivenza sociale e dei valori in termini appunto di secolarizzazione - Dio viene percepito come problema: in tale prospettiva, infatti, Dio viene considerato alternativo a queste realtà e a questi valori. Questo, però, è contrario a una corretta laicità. È lo stesso Vangelo a porre una netta distinzione fra politica e fede, fra Dio e Cesare. E alla domanda se è lecito pagare il tributo a Cesare, Gesù risponde che bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio (cfr. Matteo, 22, 21). Uno Stato che, dichiarandosi neutrale, non riconoscesse le differenti, molteplici e legittime identità che gli stanno di fronte - tra cui, per prime, quelle religiose - e anzi pretendesse di limitarle o rinchiuderle nella sfera del privato, in nome di una presunta neutralità, genererebbe gravi ripercussioni e forti tensioni sia sul piano religioso che su quello culturale e, di conseguenza, in tutto l’ambito sociale. Ci si può trovare, in tal modo, dinanzi a un progetto politico che si propone come “neutrale” ma, in realtà, è pregiudizialmente contrario alle differenti identità, specialmente a quelle religiose, le rifiuta - non riconoscendo loro uno spazio pubblico - e le costringe all’interno delle coscienze. Ma questa non è laicità: è laicismo.

 I Paesi di antica tradizione cristiana sono segnati da un forte tasso di scristianizzazione e così, seppure in situazioni profondamente diverse, la nostra condizione di uomini del terzo millennio ripropone quella degli esordi della Chiesa. Una tale somiglianza ci ricorda che quanti sono chiamati al discepolato e all’evangelizzazione operano - oggi, come ieri - in un contesto non cristiano; sarebbe irrealistico immaginare un quadro socio-culturale differente da quello esistente e sarebbe un esercizio sterile lagnarsi di ciò che ci sta dinanzi. Si tratta, piuttosto, di prendere contatto con la realtà. Si tratta, per un verso, di non guardare alla Chiesa come a una realtà chiusa in se stessa e timorosa del mondo al punto da rimanervi estranea; allo stesso tempo non bisogna avere un atteggiamento ingenuo e acritico, succube di fronte al mondo. Il cristiano non è il notaio dell’esistente, pronto in ogni momento ad avvalorare le scelte di una modernità più incline a seguire la linea della secolarizzazione o, meglio, del secolarismo laicista piuttosto che quella di una reale e obiettiva secolarità. Il discepolo è chiamato a un discernimento critico personale e comunitario-ecclesiale circa i valori sui quali si gioca l’essenziale dell’uomo e della retta convivenza, i valori irrinunciabili di una retta antropologia a livello filosofico e culturale. Si parla, allora, di valori “non negoziabili” in quanto inscritti nella natura stessa della persona e perciò “irrinunciabili”, pena il vanificare la centralità della persona, svuotandola dall’interno. Qui s’intende in particolare la tutela e la promozione della vita in tutte le sue fasi - dal concepimento alla morte naturale - la promozione della struttura naturale della famiglia, quale unione fra uomo e donna aperta alla vita e fondata sul matrimonio, difendendola da quei tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme diverse d’unione, e il riconoscimento del diritto dei genitori a educare liberamente i propri figli. Benedetto XVI ci ricorda sovente che tali principi non sono affermazioni confessionali ma appartengono alla verità della persona e sono comuni a tutta l’umanità. Oggi l’evangelizzatore non può limitarsi a stigmatizzare o prendere le distanze da persone o situazioni come non può avallare, in modo acritico, ciò che, di volta in volta, incontra sulla sua strada. Questi due atteggiamenti sono in contrasto fra loro e con lo stile di Gesù: non appartengono infatti alla logica del Vangelo, secondo la quale ogni uomo è chiamato a conversione. Il discepolo non può limitarsi a prendere le distanze da quanto non è in consonanza col Vangelo o a formulare un annuncio che non sia anche un invito a condividere un cammino comune; così facendo si eviterebbe la fatica di capire e di amare, ma l’evangelizzatore è sempre colui che invita - nello spirito di una reale conversione - a un cammino di comunione nella Chiesa. Il dialogo-annuncio deve poi partire dalle storie concrete delle persone, traendo spunto dal vissuto quotidiano e dall’ascolto, frutto di empatia e disponibilità. Avere tempo per il prossimo, in una società in cui tutti hanno fretta e non hanno mai tempo, è già, di per sé, una “buona notizia” e, quindi, un vero “vangelo” e, alla fine, la modalità prima per incontrare le persone. Come ogni dialogo, anche quello concernente la fede può essere genuino o no: il dialogo è evangelicamente genuino - e non “sofisticato” - quando non priva l’interlocutore del dono di Gesù Cristo, il sommo bene che un giorno, a sua volta, il discepolo-evangelizzatore ha ricevuto. Tralasciare l’annuncio, pensando che il dialogo sia sufficiente, vuol dire trattenere per sé Gesù, il dono di Dio a ogni uomo. Ma senza Gesù - via e verità - l’uomo non raggiungerà mai la vera vita e smarrirà se stesso.

la conclusione:
Per chi vuole testimoniare la fede in Gesù Cristo non è sufficiente limitarsi a prendere le distanze da scelte culturali fondate su antropologie non aperte al trascendente o da progetti culturali che non salvaguardano la centralità della persona, soprattutto in rapporto alla vita nei momenti di massima fragilità. E’ necessario individuare modalità capaci di trasmettere in maniera “sensata” la fede in un contesto storicamente e culturalmente determinato. Bisogna trovare un approccio che permetta d’entrare in dialogo proficuo con gli uomini e le donne che non solo sono immersi nelle culture del nostro tempo ma ne sono, personalmente, espressioni vive. Le persone portano in sé, oltre a forti contraddizioni, anche non pochi valori e richiami alla trascendenza; ciò si manifesta, per esempio, attraverso le ricorrenti ed ineludibili domande sul senso della vita e, più in generale, dell’essere. A ben vedere, le realtà create e l’uomo in primis rimandano a Qualcuno - qualcosa non basta - che va oltre loro, così da poter render ragione della precarietà strutturale che le caratterizza. Tale fragilità appartiene all’uomo in quanto tale e si può mostrare in ogni momento, in tutta la sua forza dirompente. Nel suo richiamarsi ad un Altro l’uomo, a partire proprio dalla sua insufficienza strutturale, scopre una possibilità d’approccio e d’accoglienza di una non impossibile “Parola” che Dio gli potrebbe rivolgere. E, a cominciare da tali domande, si fa strada, anche nell’uomo più secolarizzato, la dimensione religiosa. Le domande che interpellano l’uomo sono, ad un tempo, le più profonde e universali - sono, infatti, di tutti gli uomini - ma, anche, le più semplici e più vere: “Io, chi sono?”, “Da dove vengo?”, “Dove sono diretto?”, “Cosa mi aspetta dopo questa vita?”, “Ha senso una felicità destinata a finire?”, “Chi garantisce la mia domanda ultima di felicità?”… Domande che non appartengono a determinate culture o scuole di pensiero ma, come costanti, ritornano pesanti come macigni e destinate a riemergere perché esprimono i problemi eterni dell’uomo e dell’intera umanità. Sono le grandi domande che l’uomo si porrà sempre in ogni tempo eluogo; sono le domande che riecheggeranno fino a quando, sulla terra, vi sarà un uomo. Non c’è antichità classica o cristiana, basso o alto medioevo, rinascimento o umanesimo, modernità o post-modernità che non vedano riemergere, nel cuore dell’uomo, queste perenni e drammatiche domande che esprimono, nella loro peculiarità, la grandezza di chi se le pone. Qui abbiamo, allora, una pista che ci permette d’entrare, in modo concreto, in dialogo con gli uomini e le donne che ogni giorno incrociamo lungo le strade delle nostre città. Ogni giorno incontriamo molti volti che, nella loro inviolabilità personale, e nel rispetto che esigono con il loro solo apparire, ci annunciano il “Tu” per antonomasia: il “Tu” di Dio. Questi “tu” molteplici - uomini e donne che incontriamo ogni giorno - ci richiamano la pienezza personale di quel “Tu” che solo può darci ragione della nostra fragilità e precarietà personale. La possibilità di interrogarsi, poi, in modo radicale sulla questione della libertà costituisce un percorso da esplorare e bisogna andare fino in fondo alla domanda “Ma chi sono io?” che, nel suo nucleo più profondo, è sempre “antropologica-teologica”. Così anche l’uomo immerso in una cultura profondamente secolarizzata, e nonostante ciò, risulta personalmente interpellato e coinvolto dalle domande riguardanti il senso e l’essere. In tal modo percepisce la domanda sul destino, sulla felicità e sulla garanzia ultima che riguarda il suo io personale come qualcosa che va oltre le vicende materiali e verificabili, ossia le realtà “penultime”. Egli coglie la domanda su di sé come la domanda che mette in questione, e nel modo più radicale, tutta l’esistenza. La gioia, infine, è la cifra che deve accompagnare costantemente l’annuncio di Gesù Cristo, il Risorto. È proprio la gioia, secondo i vangeli, il segno primo della Pasqua che riassume e fa propria l’intera storia dell’uomo. La Vergine Maria, prima evangelizzatrice, ci sostenga soprattutto nei momenti in cui avvertiamo la difficoltà a testimoniare il Vangelo a quelle persone e a quelle culture che, dopo aver teorizzato in modi diversi la “morte” di Dio, non sanno più come rispondere alle domande che costantemente nascono e rinascono dalla nostra creaturalità - il perché del venire al mondo, del vivere e del morire -, unite alla tensione costante a una vita vissuta in pienezza e nella felicità. La Vergine Maria, madre della gioia e della speranza, ci aiuti a discernere il valore umano e cristiano della vera secolarità in un contesto di forte e, talora, ideologica secolarizzazione. A tutti auguro l’umile fierezza di chi avverte in sé la gioia di dire Gesù Cristo e di dirLo a tutti senza reticenze o timori reverenziali e, particolarmente, di continuare o ricominciare adirLo proprio in quei contesti nei quali sembrava impossibile poterLo dire.

“La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa… tra chi, per dare un senso alla propria vita, si pone con serietà e impegno queste domande, e cerca la risposta, anche se non la trova, e colui cui non importa nulla, a cui basta ripetere ciò che gli è stato detto fin da bambino”
Norberto Bobbio


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