Andiamo
fino a Betlemme,
come i pastori.
L'importante è muoversi.
E se invece di un Dio glorioso,
ci imbattiamo nella fragilità
di un bambino,
non ci venga il dubbio di aver
sbagliato il percorso.
Il volto spurito degli oppressi,
la solitudine degli infelici,
l'amarezza di tutti gli
uomini della Terra,
sono il luogo dove Egli continua
a vivere in clandestinità.
A noi il compito di cercarlo.
Mettiamoci in cammino senza paura.(don Tonino Bello)
come i pastori.
L'importante è muoversi.
E se invece di un Dio glorioso,
ci imbattiamo nella fragilità
di un bambino,
non ci venga il dubbio di aver
sbagliato il percorso.
Il volto spurito degli oppressi,
la solitudine degli infelici,
l'amarezza di tutti gli
uomini della Terra,
sono il luogo dove Egli continua
a vivere in clandestinità.
A noi il compito di cercarlo.
Mettiamoci in cammino senza paura.(don Tonino Bello)
Natale del Signore. Una speranza per tutti
(E.Bianchi)
L’evento che i cristiani celebrano a Natale non è una
“apparizione” di Dio tra gli uomini, ma la nascita di un bambino che soltanto
Dio poteva dare all’umanità, un “nato da donna” che però veniva da Dio e di Dio
doveva essere racconto e spiegazione. La nascita di colui che è il Signore e
Dio non va presa in senso metaforico, ma in tutto il suo senso reale, storico
che l’Evangelo mette in evidenza quale “segno”. Infatti, per ben tre volte,
nella narrazione della nascita di Gesù, l’evangelista Luca ripete con le stesse
parole l’immagine da guardare senza distrazioni: “un bambino avvolto in fasce
che giace in una mangiatoia” (Lc 2,7.12.16)! Sì, c’è anche la luce che
risplende e avvolge i pastori, c’è la gloria divina che incute timore, c’è il
coro degli angeli che canta la pace per gli uomini amati da Dio, ma tutto
questo è solo la cornice che mette in risalto il quadro e cerca di svelarci il
senso che esso racchiude.
Il segno che i pastori ricevono dall’annuncio degli angeli è di una semplicità estrema, un segno povero, un segno appartenente all’umanità povera: nasce un bambino ma nella povertà di una stalla, nasce un bambino, figlio di una povera coppia di sposi, nasce un bambino cui è stata negata l’ospitalità. Il segno del Natale è tutto qui! Eppure, il bambino è proclamato Messia: Salvatore e Signore è un povero bambino, figlio di poveri, nato nella povertà!
Se i cristiani nella loro fede non mantenessero vivo il legame tra il bambino e il Signore, tra la povertà e la gloria, non capirebbero la verità del Natale. Purtroppo i cristiani sono sempre tentati di nascondere la nuda povertà del bambino e vorrebbero la sua gloria nella potenza e nel successo, ma l’icona autentica del Natale sconfessa questi loro desideri.
Forte di questa comprensione del mistero dell’incarnazione, così cantava la festività del Natale un inno cristiano del IV secolo:
“Mentre la notte fonda
buia e tranquilla
avvolgeva con il suo silenzio valli e colline
il Figlio di Dio nacque da una vergine
e obbediente alla volontà del Padre
iniziò la sua vita di uomo sulla terra”.
L’inizio di una vita di uomo sulla terra: forse è proprio per questa sua estrema semplicità che il messaggio del Natale è così universale. E’ infatti un messaggio semplice, alla portata di tutti, a cominciare dai poveri pastori di Betlemme, eppure è annuncio di un mistero grande, perché quel figlio d’uomo che nasce trascorrerà in modo assai ordinario la maggior parte della sua vita: passerà in mezzo agli altri uomini facendo il bene, compirà il miracolo grande della ritrovata comunione con Dio e con gli altri servendosi di segni e prodigi legati ai bisogni essenziali dell’uomo: il pane e il vino moltiplicati, la salute ridata, la natura nuovamente riconciliata con l’uomo, la fraternità ristabilita, la vita riaffermata come più forte della morte. Per questo l’apostolo Paolo dice che la manifestazione di Cristo nel mondo è finalizzata a “insegnarci a vivere in questo mondo” (cf. Tt 2,11-12).
A Natale i cristiani celebrano questo mistero già avvenuto – la venuta di Dio nella carne di Gesù – come promessa e garanzia di quanto ancora attendono: che Dio sia in tutta l’umanità e che l’umanità sia fatta Dio. Ma se questo è il fondamento della festa, allora la gioia che la abita non può essere soggetta ad alcuna “esclusiva”: è gioia “per tutto il popolo”, per l’intera umanità destinataria dell’amore di Dio. I cristiani non possono impossessarsi del Natale sottraendolo agli altri, non possono imprigionare la speranza che è anelito del cuore di tutti. Se in Gesù il Creatore si è fatto creatura, l’Eterno si è fatto mortale, l’Onnipotente si è fatto impotente, è perché l’uomo potesse diventare il Figlio stesso di Dio. Siamo di fronte a quel “admirabile commercium”, a quel “mirabile scambio” con cui i padri della chiesa dei primi secoli cercavano di spiegare ai loro contemporanei l’evento che aveva non tanto cambiato il corso della storia, ma piuttosto ridato alla storia il suo senso. E’ questa la radiosa speranza che i cristiani dovrebbero ancora oggi annunciare agli uomini e alle donne in mezzo ai quali vivono, così assetati di senso, così desiderosi di speranza, così abitati da un’attesa più grande del loro stesso cuore. Per i cristiani si tratta di andare, di stare in mezzo agli altri con la stessa gioia con cui Dio è venuto in mezzo a noi nel Figlio, l’Emmanuele, il Dio-con-noi che non può e non deve mai diventare il Dio-contro-gli-altri. Allora il Natale – non solo quello cristiano, ma anche quello “di tutti”, anche quel clima contagioso di bontà che vince l’ipocrisia di un melenso buonismo – non finirà bruciato nel consumarsi di poche ore e di molti beni, non si spegnerà con l’ultima luminaria, non conoscerà lo svilimento del “saldo” di fine stagione, ma si dilaterà moltiplicandosi nel vissuto quotidiano: sarà il pegno di una vita più umana, abitata da relazioni autentiche e da rispetto dell’altro, una vita ricca di senso, capace di esprimere in gesti e parole la bellezza e la luce, echi di quella luce che brillò nella notte fonda di Betlemme e che deve brillare anche oggi in ogni luogo avvolto dalle tenebre del dolore e del non-senso. I cristiani sanno per fede che Dio ha voluto compromettersi radicalmente con l’umanità facendosi uomo, sanno che è entrato nella storia per orientarla definitivamente verso un esito di salvezza, sanno che ha assunto la fragilità dell’uomo esposto alle offese del male proprio per vincere il male e la morte. E questa loro “conoscenza” sono chiamati a testimoniarla in un’assunzione quotidiana della povertà, dell’abbassamento per incontrare l’altro, nella consapevolezza che ciò che unisce gli uomini è più grande di ciò che li differenzia e li contrappone.
Sì, se a Natale i cristiani sono nella gioia non è un privilegio a loro riservato, un dono che la condivisione vanificherebbe: al contrario, non è loro consentito di impadronirsene in esclusiva perché non possono sottrarre Cristo all’umanità cui è stato inviato dal Padre: il Natale è invito alla speranza, e questa speranza è offerta a tutti.
Il rispetto e la speranza
di
Claudio Magris sul Corriere della Sera del 24.12.2011
Il Natale - quella nascita e quella notte che tagliano
la Storia e fanno balenare la promessa o almeno l’esigenza che questa possa
essere anche Storia della salvezza - non è cosa da family day. Quel neonato
concepito fuori del matrimonio è irregolare, illegittimo secondo le regole del
mondo. Proprio per questo è un figlio per eccellenza, accettato e voluto
nonostante le difficoltà, anziché casualmente subito come talora accade pure
nelle migliori famiglie. Il suo diritto alla vita, calpestato nelle forme più
varie sotto tutti i cieli - negato dalla fame, dalla guerra, dalle malattie e
dalla stessa debolezza dell’individuo, che nelle fasi iniziali della sua
esistenza gli impedisce di rivendicarlo esplicitamente - è stato garantito dal
coraggio della donna che lo sta allattando.
Quando Maria riceve l’annuncio della sua maternità,
non sa ancora quale sarà l’atteggiamento di Giuseppe ed è decisa ad affrontare
tutte le conseguenze della sua accettazione, anche il disonore e la vergogna
che marchiano una ragazza madre; è pronta ad assumere sulle sue spalle l’infame
peso della colpa e dell’emarginazione iniquamente messo in carico soltanto alla
donna. Maria, che nella sua solitudine dice sì, è una donna, non quell’idolo di
gesso o quel fantasma in cui più tardi una superstizione idolatrica degraderà
spesso la sua immagine. Il suo compagno si comporterà come un vero uomo,
virile e libero da tutte le prepotenze, convenzioni e insicurezze maschili. (…)
A quella capanna, a festeggiare il neonato, non arriva
alcun parentado, arrivano alcuni pastori. Sono loro, in quel momento, la
famiglia di quel bambino. Anche da adulto egli ribadirà, pure con durezza, il
primato dei legami nati da libera scelta e affinità spirituali su quelli di
sangue, dicendo che i suoi fratelli e le sue sorelle sono coloro che ascoltano
e condividono la sua parola e chiedendo perfino bruscamente alla madre, dinanzi
a una sua interferenza, cosa vi sia fra loro due. Dopo i pastori arriveranno,
secondo la tradizione, i Magi, seguaci e maestri di un’alta religione -
quella di Zoroastro, la prima a proclamare l’immortalità dell’anima
individuale. Quella capanna è un tempio di tre grandi religioni mondiali; la
quarta, che arriverà secoli dopo, l’Islam, si richiamerà ad esse e soprattutto
alla prima, quella ebraica. (…)
Quel bambino non è venuto a fondare una nuova
religione, di cui non c’era bisogno perché ce n’erano già forse troppe. È
venuto a cambiare la vita, cosa ben più importante di ogni Chiesa.
Indubbiamente la promessa di pace, annunciata in quella notte, è stata e
continua ad essere clamorosamente smentita. È difficile dire se, in questo
senso, quel neonato abbia finora vinto o perso la sua partita. Ma è indubbio
che egli abbia posto per sempre, nel nostro cuore, nella nostra mente e nelle
nostre vene, l’esigenza insopprimibiledi quella salvezza. (…) Ma proprio perché
nel mondo c’è tanta sofferenza e ingiustizia e il male così spesso trionfa,
ammoniva Kant, è necessaria l’accanita e lucida speranza, che vede quanto
sciaguratamente vanno le cose ma si rifiuta di credere che non possano andare
altrimenti.
Pure quel bambino di Betlemme è nato per morire.
Morirà anzi presto e fra angoscia e tormento, che la resurrezione non cancella
in alcun facile lieto fine. Gesù ha scelto la morte perché, pur amando
la vita, sapeva che essa non è il bene supremo e che talora si può essere
chiamati a perderla per amore degli altri. (…) Un uomo che ha
fede, ha scritto il teologo Wiener Thiede, non artiglia spasmodicamente quel
pezzetto di vita che gli è stato assegnato; le sue mani, non contratte
dall’ansia, possono aprirsi e lasciare la presa. (…)
Il proprietario dispone delle cose che possiede;
posseggo un’automobile e posso venderla o demolirla a mio arbitrio, essa è in
mio potere. Ma il mio io - i miei pensieri, sentimenti, sogni, timori - è in
mio potere, come la mia automobile? Posso ordinarmi di innamorarmi, di credere
in Dio, di cambiare fede politica, di capire la meccanica quantistica? Ogni io
è tutt’al più un condominio, costituito come tutti i condomîni da vicini litigiosi;
forse ogni io non è neanche questo, bensì piuttosto un agglomerato di inquilini
provvisori che nemmeno posseggono le due camere e cucina e il
riscaldamento centrale per cui litigano. Quando ci innamoriamo, votiamo,
preghiamo, lavoriamo, ci divertiamo, possiamo e dobbiamo cercare di essere
liberi nel nostro agire, ma senza alcuna presunzione di essere proprietari
della vita, neanche della nostra, perché in quel caso saremmo come quei padroni
delle commedie, cui i servi rubano tutto sotto il naso. Anche il diritto di
morire può affidarsi solo alla libertà e al senso del sacro, non all’arroganza
di un inesistente padronato di se stessi. La vita è sempre sacra, quando la si
riceve e quando la sirestituisce. (…)
Se l’amore è una grazia troppo alta possiamo chiedere
almeno un’altra virtù fondamentale, il rispetto, che per Kant è la premessa di
ogni altra virtù e che sembra sempre più latitante. (…) Rispetto per ognuno,
anche per l’avversario e per il nemico, anche per chi crediamo di dover
combattere duramente, anche per chi va giustamente e pure pesantemente punito
per un reato commesso. È questo rispetto, nient’affatto incompatibile con la
severità, che manca sempre più, ovunque: nella lotta politica, nella violazione
di ogni intimità, nell’arrogante negazione dell’altro.
Non chiediamo di essere perfetti, ma almeno di non
essere crudeli e indecenti; di vivere in un mondo in cui si perseguono
inesorabilmente i crimini ma si riconosce anche nel volto del criminale
giustamente punito senza indulgenza il volto del Cristo o più semplicemente
dell’uomo; in cui nessun colpevole - terrorista, pedofilo, mafioso, stupratore,
assassino - venga trattato ignominiosamente come ad esempio quel sacerdote,
verosimilmente pedofilo e dunque da punire, che si è gettato sotto il treno
dopo essere stato insidiato da un falso penitente - inviato da una petulante
trasmissione televisiva pretesamente spiritosa - che, in confessione, si è
finto tentato dall’omosessualità per adescarlo e scoprirlo, colpendolo in un
punto colpevole, debole e tormentato della sua personalità. Vorremmo chiedere,
quale dono di Natale, che persone come quel sacerdote finiscano in carcere, se
viene appurato un loro crimine, ma non sotto un treno. Una trasmissione
televisiva non può diventare un plotone d’esecuzione.
Alberto Moravia (1907-1990) in un suo scritto comparava il
Natale dei nostri tempi a «quelle anfore romane che ogni tanto i
pescatori tirano fuori del mare con le loro reti, tutte ricoperte di conchiglie
e di incrostazioni marine che le rendono irriconoscibili. Per ritrovarne la
forma, bisogna togliere tutte le incrostazioni. Così il Natale. Per ritrovarne
il significato autentico, bisognerebbe liberarlo da tutte le incrostazioni
consumistiche, festaiole, abitudinarie…». Ed egli suggeriva anche una via,
quella della meditazione, dello stare un po’ da soli, con la propria coscienza,
liberandosi della rete delle incrostazioni, cioè delle chiacchiere, delle
sguaiataggini, della superficialità, così da ritrovare se stessi, per
interrogarsi sul senso profondo della vita.
Sia il “Gentile” sia il credente possono
condividere il consiglio di Moravia: «Per ritrovare un’idea dell’uomo, ossia
una vera fonte di energia, bisogna che gli uomini ritrovino il gusto della
contemplazione. La contemplazione è la diga che fa risalire l’acqua nel bacino.
Essa permette agli uomini di accumulare di nuovo l’energia di cui l’azione li
ha privati». Ecco, dunque, un “Natale dei Gentili” che, in realtà, li
potrebbe unire anche ai cristiani; un Natale di amore fraterno, di ascolto di
una voce forte e potente com’è quella di Gesù di Nazaret, imprescindibile
presenza nella nostra storia e cultura, e infine un Natale con qualche chiazza
di silenzio, di riflessione, di serena
contemplazione.
Gianfranco Ravasi,
3.1.12
_________
Una serie fortunata di imprevisti (Buon Natale)
Il
cristianesimo si poggia sua una serie fortunata di imprevisti. Il primo è la nascita
di un bambino in una sperduta regione della Giudea. Nascere al tempo di Gesù
era un gran rischio...
E' il rischio che corrono ancora oggi tutti quei bambini che vengono al mondo in quelle regioni della terra dove la globalizzazione ha solo tolto le risorse ma non ha lasciato nessun confort e nessun segno di quella che noi oggi chiamiamo civilizzazione. I bambini poveri nascono non nelle cliniche, ma dove capita. Vengono al mondo per espulsione della natura e non per decisione di qualche parto cesareo. Gesù nasce così. Nasce povero, in uno sperduto villaggio della Giudea di nome Betlemme. E questo bambino non solo fin da subito combatte per restare in vita, nonostante sia nato in una stalla e adagiato in una mangiatoia. Questo bambino nasce già con addosso la taglia dei potenti del tempo. Erode fin da subito manda il suo esercito a sterminarlo, e per sicurezza fa ammazzare tutti i bambini del contado dove si dice sia venuto al mondo. Ma "imprevedibilmente" si salva.
Già "imprevedibilmente" era nato da una fanciulla Vergine. Poi "imprevedibilmente", protetto dalla dedizione di un uomo che credeva ancora al valore dei "sogni", Giuseppe, riesce ad espatriare, divenendo ancora piccolo, profugo. Oggi si chiamerebbe "rifugiato politico", ma alla gente piace chiamarli extracomunitari.
L'Onnipotente ha un Figlio. E questo figlio è un bambino debole, povero e profugo. E' improbabile che possa compiere quello per cui è venuto al mondo. Eppure "imprevedibilmente" ce la fa.
Molte volte la nostra vita, ci suggerisce che forse è improbabile che ci sia davvero un senso a tutto. Che esista davvero qualcosa che ci renderà felici. Che esista giustizia per tutti gli oppressi della storia. Consolazione per chi soffre in maniera innocente. Pace per chi vive l'inquietudine delle cose brutte. Eppure la nostra fede ci ricorda che "imprevedibilmente" questo può accadere. Ecco perchè il Natale è una festa di immensa speranza, perchè ci fa attendere a occhi spalancati l'arrivo di quell "imprevisto" che cambia il finale di una partita quasi persa. Ma questo imprevisto non viene nella "gloria", ma nella "fragilità" e nella "povertà" della nostra condizione umana. Per questo auguro a me e a tutti di tener sempre da conto la nostra umanità, anche se fragile, anche se ferita, anche se debole, anche se a volte indegna, perchè in essa Cristo è voluto nascere.
Buon Natale. don Luigi Maria Epicoco
E' il rischio che corrono ancora oggi tutti quei bambini che vengono al mondo in quelle regioni della terra dove la globalizzazione ha solo tolto le risorse ma non ha lasciato nessun confort e nessun segno di quella che noi oggi chiamiamo civilizzazione. I bambini poveri nascono non nelle cliniche, ma dove capita. Vengono al mondo per espulsione della natura e non per decisione di qualche parto cesareo. Gesù nasce così. Nasce povero, in uno sperduto villaggio della Giudea di nome Betlemme. E questo bambino non solo fin da subito combatte per restare in vita, nonostante sia nato in una stalla e adagiato in una mangiatoia. Questo bambino nasce già con addosso la taglia dei potenti del tempo. Erode fin da subito manda il suo esercito a sterminarlo, e per sicurezza fa ammazzare tutti i bambini del contado dove si dice sia venuto al mondo. Ma "imprevedibilmente" si salva.
Già "imprevedibilmente" era nato da una fanciulla Vergine. Poi "imprevedibilmente", protetto dalla dedizione di un uomo che credeva ancora al valore dei "sogni", Giuseppe, riesce ad espatriare, divenendo ancora piccolo, profugo. Oggi si chiamerebbe "rifugiato politico", ma alla gente piace chiamarli extracomunitari.
L'Onnipotente ha un Figlio. E questo figlio è un bambino debole, povero e profugo. E' improbabile che possa compiere quello per cui è venuto al mondo. Eppure "imprevedibilmente" ce la fa.
Molte volte la nostra vita, ci suggerisce che forse è improbabile che ci sia davvero un senso a tutto. Che esista davvero qualcosa che ci renderà felici. Che esista giustizia per tutti gli oppressi della storia. Consolazione per chi soffre in maniera innocente. Pace per chi vive l'inquietudine delle cose brutte. Eppure la nostra fede ci ricorda che "imprevedibilmente" questo può accadere. Ecco perchè il Natale è una festa di immensa speranza, perchè ci fa attendere a occhi spalancati l'arrivo di quell "imprevisto" che cambia il finale di una partita quasi persa. Ma questo imprevisto non viene nella "gloria", ma nella "fragilità" e nella "povertà" della nostra condizione umana. Per questo auguro a me e a tutti di tener sempre da conto la nostra umanità, anche se fragile, anche se ferita, anche se debole, anche se a volte indegna, perchè in essa Cristo è voluto nascere.
Buon Natale. don Luigi Maria Epicoco
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Benedetto XVI e il Natale: non è una festa da consumare, ma una verità da ripetere al mondo
Se non cerchiamo Cristo, non lo troveremo. Se non lo desideriamo, non lo incontreremo. Così ha detto ieri mattina Benedetto XVI, nell’ultimo Angelus prima del Natale.
Sul significato dell’attesa di Gesù, il magistero del Pontefice si è arricchito negli anni di espressioni di grande densità spirituale. Alessandro De Carolis ne ricorda alcune in questo servizio:
Benedetto XVI e il Natale: non è una festa da consumare, ma una verità da ripetere al mondo
Se non cerchiamo Cristo, non lo troveremo. Se non lo desideriamo, non lo incontreremo. Così ha detto ieri mattina Benedetto XVI, nell’ultimo Angelus prima del Natale.
Sul significato dell’attesa di Gesù, il magistero del Pontefice si è arricchito negli anni di espressioni di grande densità spirituale. Alessandro De Carolis ne ricorda alcune in questo servizio:
Il Natale non è un paese per balocchi, la festa in cui officiare il rito di panettoni più o meno cinematografici, esibire gastronomie tradizionali o innovative. Tutto questo – pur ridimensionato dai morsi della crisi – si è accumulato come una lenta frana davanti all’ingresso di quella Grotta illuminata da una stella, fino a offuscare – e in molti casi a ostruire del tutto – l’unica, vera “prima visione” della storia, quella del Bambino venuto a portare il solo dono che veramente conta, la pace agli uomini di buona volontà. Se dunque i cristiani per primi, ha osservato anni fa il Papa, non recuperano gli occhi dei pastori e il loro stupore semplice davanti alla mangiatoia, il Natale continuerà a essere per tanti un bene di consumo e non il Bene sommo:
“Se non si riconosce che Dio si è fatto uomo, che senso ha festeggiare il Natale? Si svuota tutto. Dobbiamo innanzitutto noi cristiani riaffermare con convinzione profonda e sentita la verità del Natale di Cristo per testimoniare di fronte a tutti la consapevolezza di un dono inaudito che è ricchezza non solo per noi, ma per tutti”. (Udienza generale, 19 dicembre 2007)
Benedetto XVI non fa sconti. Un po’ come tanta paccottiglia che in questi giorni passa spesso di mano imbellita da grosse coccarde colorate, si fa strada nel mondo – ha affermato il Pontefice con vari accenti – la propaganda di coloro che offrono una “salvezza a basso prezzo”. Ma ce n’è un’altra conquistata a prezzo ben più alto, iniziata in una notte di Betlemme e che da quella notte ha bisogno dell’eco di cuori disponibili:
“Nascendo fra noi, Gesù Bambino non ci trovi distratti o impegnati semplicemente ad abbellire con le luminarie le nostre case. Allestiamo piuttosto nel nostro animo e nelle nostre famiglie una degna dimora dove Egli si senta accolto con fede e amore”. (Udienza generale, 20 dicembre 2006)
Fede e amore, queste sono le “coperte” di cui ha bisogno Gesù Bambino. Coperte sotto le quali offrire riparo a quei tanti convinti, per vari motivi, che questa notte per loro non nascerà nessuno:
“Le difficoltà, le incertezze e la stessa crisi economica che in questi mesi stanno vivendo tantissime famiglie, e che tocca l’intera umanità, possono essere uno stimolo a riscoprire il calore della semplicità, dell’amicizia e della solidarietà, valori tipici del Natale. Spogliato delle incrostazioni consumistiche e materialistiche, il Natale può diventare così un’occasione per accogliere, come regalo personale, il messaggio di speranza che promana dal mistero della nascita di Cristo”. (Udienza generale, 17 dicembre 2008)
Molte volte, ha affermato Benedetto XVI, qualche uomo ha cercato di diventare dio per covare personali disegni di gloria. L’unica certezza è che invece un giorno Dio è diventato uomo, nella gloria di una stalla. E che il suo è un disegno d’amore per tutti:
“Sì, Dio si è incamminato verso di noi. Da soli non potremmo giungere fino a Lui. La via supera le nostre forze. Ma Dio è disceso. Egli ci viene incontro. Egli ha percorso la parte più lunga del cammino. Ora ci chiede: Venite e vedete quanto vi amo. Venite e vedete che io sono qui”. (Messa di Natale, 24 dicembre 2009)
© Copyright Radio Vaticana http://it.radiovaticana.va/articolo.asp?c=650257
Il significato dell'albero di Natale secondo Benedetto XVI
Il Papa: simbolo, col presepe, della vita e della
pace che vengono da Dio.
Più volte, nel corso del suo Pontificato, ha ricordato il significato spirituale dell’albero di Natale: un evidente “simbolo del Natale di Cristo, perché con le sue foglie sempre verdi richiama la vita che non muore”:
“L’albero e il presepio sono elementi di quel clima tipico del Natale che fa parte del patrimonio spirituale delle nostre comunità. E’ un clima soffuso di religiosità e di intimità familiare, che dobbiamo conservare anche nelle odierne società, dove talora sembrano prevalere la corsa al consumismo e la ricerca dei soli beni materiali”. (Discorso alla delegazione della Val Badia, 14 dicembre 2007)
Il Papa ricorda che nel bosco gli alberi crescono vicini creando un luogo ombreggiato, a volte oscuro. L’abete in Piazza San Pietro sarà addobbato con luminose decorazioni che sono come tanti frutti meravigliosi. “Lasciando il suo abito scuro per una lucentezza scintillante – ha osservato - si trasfigura, diventa portatore di una luce che non è sua, ma che rende testimonianza alla vera Luce che viene in questo mondo”. Anche noi – sottolinea il Papa – “siamo chiamati a dare buoni frutti per dimostrare che il mondo è stato veramente visitato e redento dal Signore”:
“L’albero di Natale arricchisce il valore simbolico del presepe, che è un messaggio di fraternità e di amicizia; un invito all’unità e alla pace; un invito a far posto, nella nostra vita e nella società, a Dio, il quale ci offre il suo amore onnipotente attraverso la fragile figura di un Bimbo, perché vuole che al suo amore rispondiamo liberamente con il nostro amore". (Discorso alla delegazione del Sud Tirolo, 17 dicembre 2010)
Più volte, nel corso del suo Pontificato, ha ricordato il significato spirituale dell’albero di Natale: un evidente “simbolo del Natale di Cristo, perché con le sue foglie sempre verdi richiama la vita che non muore”:
“L’albero e il presepio sono elementi di quel clima tipico del Natale che fa parte del patrimonio spirituale delle nostre comunità. E’ un clima soffuso di religiosità e di intimità familiare, che dobbiamo conservare anche nelle odierne società, dove talora sembrano prevalere la corsa al consumismo e la ricerca dei soli beni materiali”. (Discorso alla delegazione della Val Badia, 14 dicembre 2007)
Il Papa ricorda che nel bosco gli alberi crescono vicini creando un luogo ombreggiato, a volte oscuro. L’abete in Piazza San Pietro sarà addobbato con luminose decorazioni che sono come tanti frutti meravigliosi. “Lasciando il suo abito scuro per una lucentezza scintillante – ha osservato - si trasfigura, diventa portatore di una luce che non è sua, ma che rende testimonianza alla vera Luce che viene in questo mondo”. Anche noi – sottolinea il Papa – “siamo chiamati a dare buoni frutti per dimostrare che il mondo è stato veramente visitato e redento dal Signore”:
“L’albero di Natale arricchisce il valore simbolico del presepe, che è un messaggio di fraternità e di amicizia; un invito all’unità e alla pace; un invito a far posto, nella nostra vita e nella società, a Dio, il quale ci offre il suo amore onnipotente attraverso la fragile figura di un Bimbo, perché vuole che al suo amore rispondiamo liberamente con il nostro amore". (Discorso alla delegazione del Sud Tirolo, 17 dicembre 2010)
14 dicembre 2012: Benedetto XVI: l’albero di Natale è segno della luce di Cristo. Chi tenta di spegnerla rende il mondo buio
Nonostante il tentativo di cancellare il nome di Dio dalla storia, la sua luce continua a risplendere sull’umanità attraverso Cristo. Lo ha affermato questa mattina Benedetto XVI, nel ricevere in udienza la delegazione del piccolo paese molisano di Pescopennataro, che quest’anno ha donato al Papa l’abete natalizio di Piazza San Pietro. Nel pomeriggio, alle 16.30, il monumentale abete sarà illuminato nel corso di una cerimonia, alla presenza di mons. Giuseppe Sciacca, segretario generale del Governatorato.
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