Comunione. Quando l’amore diventa comunità
Dagli spesso trascurati
«sommari» degli Atti degli apostoli, il priore di Bose Enzo Bianchi coglie,
nella lectio magistralis che terrà al prossimo Festivalfilosofia di Modena, il
richiamo ai credenti affinché percepiscano la propria chiamata a «essere un
cuore solo e un’anima sola» nel vissuto quotidiano.
Avvenire, 13.9.09
La narrazione di come i credenti vivevano al tempo
degli apostoli indica come i cristiani dovrebbero sempre vivere la comunione
ecclesiale, al di là del mutamento di tempi e condizioni.
Il messaggio che ci giunge dalla Chiesa primitiva di Gerusalemme appare chiaro ed esigente per i cristiani di ogni epoca: chi ha ricevuto il dono dello Spirito santo e ha conosciuto l’irrompere della forza di Dio nella propria vita, è generato a vita nuova Tale novità deve esprimersi concretamente in una differenza che consiste soprattutto in quel tratto ben preciso che siamo venuti riscoprendo a partire dal concilio Vaticano II: la differenza della «koinonía», della comunione
Il messaggio che ci giunge dalla Chiesa primitiva di Gerusalemme appare chiaro ed esigente per i cristiani di ogni epoca: chi ha ricevuto il dono dello Spirito santo e ha conosciuto l’irrompere della forza di Dio nella propria vita, è generato a vita nuova Tale novità deve esprimersi concretamente in una differenza che consiste soprattutto in quel tratto ben preciso che siamo venuti riscoprendo a partire dal concilio Vaticano II: la differenza della «koinonía», della comunione
«I credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune… Erano un cuore solo e un’anima sola… Nessuno diceva suo quello che gli apparteneva, ma tra loro tutto era comune… Nessuno tra loro era bisognoso» (At 2,42-45; 4,32-35): sono affermazioni di forte impatto che, fino alla pax costantiniana, hanno conosciuto un’interpretazione mirante a rinvenirvi la forma primitivae ecclesiae , dunque un autentico modello per il rinnovamento della comunione intraecclesiale. Cessate le persecuzioni, questi stessi testi hanno conosciuto grande fortuna presso i padri monastici, Pacomio e Basilio su tutti, che vi hanno trovato una fonte d’ispirazione decisiva per la vita delle loro comunità. In seguito, sono stati oggetto delle più svariate letture etico-sociali, che vi hanno ravvisato l’ideale cristiano della condivisione dei beni, le esigenze della giustizia sociale, e molto altro ancora, così come hanno conosciuto, per contro, congiure di silenzio e sono stati disattesi nel vissuto quotidiano della Chiesa.
Ma questi testi degli Atti possono ispirare ancora oggi lakoinonía, la comunione ecclesiale? La narrazione di come i credenti vivevano al tempo degli apostoli può fornire indicazioni su come i cristiani dovrebbero sempre vivere la comunione ecclesiale, al di là del mutamento di tempi e condizioni? E, in particolare, la stagione ecclesiale e civile che stiamo vivendo può ancora trovare ispirazione e stimolo nella vita di una comunità cristiana così lontana nel tempo? Il messaggio che ci giunge dalla Chiesa primitiva di Gerusalemme appare chiaro ed esigente per i cristiani di ogni epoca: chi ha ricevuto il dono dello Spirito santo e ha conosciuto l’irrompere della forza di Dio nella propria vita, è generato a vita nuova.
Tale novità deve esprimersi concretamente nella differenza cristiana, «differenza» rispetto al proprio passato da non credente, differenza rispetto a chi non è credente, una differenza che consiste soprattutto in un «bel comportamento» (1Pt 2,12), rivelato da un tratto ben preciso che siamo venuti riscoprendo a partire dal concilio Vaticano II: la differenza della koinonía , della comunione.
Infatti a partire dall’assise conciliare i cristiani sono tornati a porre al centro della loro prassi e della loro riflessione l’ecclesiologia di comunione, tesi a riscoprire nella Chiesa, situata nella compagnia degli uomini, la sua dimensione di «casa e scuola di comunione», secondo la profetica intuizione di Giovanni Paolo II.
Ma come ci viene presentata la realtà della koinonía nel Nuovo Testamento, la norma normans del cristianesimo di ogni epoca?
Innanzitutto la koinonía avviene solo grazie all’iniziativa di Dio: è la relazione di Dio Padre, Figlio e Spirito santo con il credente e con la comunità cristiana, resa possibile dall’umanizzazione di Dio; è l’inaudita possibilità di partecipare della vita divina, apertaci dal Padre, nella sua infinita misericordia, attraverso il Figlio. Di conseguenza, la koinonía è l’alleanza tra i credenti, che trova la sua fonte nella comunione intratrinitaria partecipata alla comunità cristiana: la Chiesa è koinonía di fratelli e sorelle, animata dalla comunione al corpo e al sangue di Cristo, segno della partecipazione del credente a tutta la vita del Figlio, riassunta nella sua passione, morte e resurrezione. In questo senso la koinonía è anche «comunione dello Spirito santo» (2Cor 13,13), attraverso la quale il cristiano si dispone ad abitare con Dio e a vivere come suo tempio.
Comprendiamo allora come sia stata possibile un’ulteriore accezione della koinonía che troviamo testimoniata negli scritti del Nuovo Testamento: la 'colletta' in favore di chi si trova nel bisogno. Siamo così ricondotti all’istanza della condivisione dei beni, che gli Atti testimoniano non come un ideale, bensì quale vera e propria necessitas per la Chiesa nascente. Essa non nasce da una valutazione pessimistica delle realtà terrene, non nasce dalla volontà di orgoglioso distacco rispetto ai beni del creato, e neppure da una spiritualità pauperistica: la sua unica fonte è la discesa dello Spirito santo che è agápe e, in quanto tale, esige che i cristiani si adoperino per eliminare il bisogno e la povertà. «Questo è il comandamento che abbiamo da Cristo: chi ama Dio, ami anche il suo fratello» (1Gv 4,21). Sì, la comunione con Dio non può essere vissuta senza un’attenzione reale per la comunità degli uomini, senza divenire comunione con i fratelli e le sorelle anche nei beni!
La vita del cristiano e della Chiesa deve perciò essere plasmata dalla comunione, la quale non è una tra le tante opzioni, bensì la forma ecclesiae fin dai primi passi compiuti dai discepoli all’indomani della resurrezione del Signore Gesù Cristo e della discesa dello Spirito santo: la Chiesa è comunione, ovvero, «la comunione incarna e manifesta l’essenza stessa del mistero della Chiesa» (Giovanni Paolo II).
Nella Chiesa non c’è posto per l’atteggiamento di sufficienza di chi afferma di non avere bisogno dell’altro; non c’è alcuna possibilità di dominare come fanno i grandi di questo mondo; non si può partecipare alla vita ecclesiale senza che un vero sensus ecclesiae sia anteposto all’appartenenza al gruppo o al movimento; nella Chiesa non è possibile contraddire quella comunione dei beni spirituali e materiali che il Signore ci ha chiesto come segno del nostro essere suoi discepoli.
Certo, la comunione dei cristiani tra loro e con Dio nel pellegrinaggio della Chiesa verso il Regno sarà sempre fragile, continuamente messa alla prova e sovente anche contraddetta; sarà una comunione che tende a essere piena ma che tale non sarà mai, se non nel Regno eterno. Ma questa fragilità, questa incompletezza non esonera le generazioni dei credenti dal percepire la propria chiamata a «essere un cuore solo e un’anima sola», nel vissuto quotidiano: le esigenze poste dai sommari degli Atti non hanno perso nulla della loro attualità e del loro valore normativo per la prassi cristiana. Se mai, occorrerebbe l’onestà di chiedersi per quale motivo oggi siamo così restii ad ascoltare queste parole, che suonano ormai come desuete agli orecchi della maggior parte dei cristiani: perché insistiamo tanto su alcuni aspetti dell’agire morale, mentre preferiamo tacere sulla necessità della condivisione materiale dei beni, via maestra per eliminare il bisogno e la povertà? È la nostra una stagione che mette a tacere e disattende questa esigenza ineludibile della 'buona notizia' cristiana?
L’esigenza della koinonía materiale non rappresenta un’istanza di fondamentalismo arcaizzante, né una riedizione delle ideologie pauperistiche: no, rimettere al centro della nostra attenzione la koinonía significa riandare alle sorgenti dell’esperienza cristiana per riscoprire che il vero nome della povertà cristiana è condivisione fraterna, praticata nelle forme e nei modi che volta per volta si discerne come buoni. In questo senso anche lo stile di vita dei singoli e delle comunità cristiane deve essere eloquente e manifestare che si ama la semplicità, la povertà bella, e che questa è sempre garantita e rinnovata ogni giorno dalla condivisione con gli altri, con i poveri. Il cristiano è colui che si adopera per eliminare la situazione di bisogno che fa soffrire il suo fratello: questo avvenne nelle diverse forme di condivisione praticate dalle comunità primitive, questo è avvenuto lungo tutta la storia della Chiesa, questo deve avvenire ancora oggi. Il cristiano infatti sa bene che, come amava ripetere Giovanni Crisostomo, «il 'mio' e il 'tuo' non sono altro che parole prive di fondamento reale. Se dici che la casa è tua, dici parole inconsistenti, perché l’aria, la terra, la materia sono del Creatore, come pure tu che l’hai costruita, e così tutto il resto». Il cristiano sa che nel giorno del giudizio la sua fedeltà al Signore, che ha condiviso la nostra condizione umana, verrà pesata anche su questa condivisione fraterna, che è il nome comunitario dell’amore.
L’esigenza della comunione materiale non rappresenta un’istanza di fondamentalismo arcaizzante, né una riedizione delle ideologie pauperistiche: no, rimettere al centro della nostra attenzione la «koinonía» significa riandare alle sorgenti dell’esperienza cristiana per riscoprire che il vero nome della povertà cristiana è condivisione fraterna.
___________
Una comunità a servizio degli uomini
Tratto da: Jean Vanier, La comunità luogo del perdono e della
festa.
Gesù ha iniziato la sua missione chiamando a sé degli uomini e
delle donne ai quali ha detto: “Lascia tutto, vieni e seguimi”. Li ha scelti,
li ha amati e li ha inviati a diventare suoi amici. È così che tutto è
cominciato: con una relazione personale con Gesù, una comunione con lui.
Poi, ha riunito i dodici che aveva chiamato a diventare
suoi amici e ha iniziato a vivere in comunità. È chiaro che questo non è sempre
stato facile. Ben presto hanno incominciato a discutere per sapere chi era il
primo. La vita in comunità ha rivelato tutte le paure e le gelosie che
portavano in loro.
In seguito Gesù li ha inviati per compiere un servizio,
una missione: annunciare la buona novella ai poveri, guarire i malati e
liberare la gente, scacciando i demoni. dopo averli tenuti solo un po’ di tempo
con sé, li ha inviati in missione. Quando delle persone si trovano insieme e
imparano a volersi bene, il loro amore trabocca all’esterno ... Il primo
servizio di una comunità è essere fonte di vita per gli altri, cioè di dare
loro una nuova speranza, un senso nuovo alla loro vita. il servizio primo nei
confronti dell’altro è quello di rivelare loro la loro bellezza fondamentale,
il valore e l’importanza che hanno nell’universo, la loro capacità di amare, di
crescere, di fare cose belle e di incontrare Dio. È dare loro una nuova
speranza e una libertà interiore più grande; è aprire le porte del loro essere
perché sgorghino nuove energie; è togliere dalle loro spalle il giogo di paura
e di colpevolezza che li opprime. Dare la vita agli altri significa rivelare
loro che sono amati da Dio così come sono, con questo miscuglio di bene e di
male, di luce e di tenebre che è in loro; significa dire loro che la pietra che
soffoca la vita che è dentro di loro sarà rotolata via come la pietra che è
stata fatta rotolare all’entrata della tomba di Gesù il servizio, la missione
vanno esercitati in primo luogo verso i membri della comunità. Inizia con loro.
Dare la vita, amare è la missione generale di ogni comunità e di ogni persona,
ma ogni comunità, ogni gruppo ha la sua missione particolare, il suo modo
proprio di dare la vita. Una comunità diventa realmente radiosa quando tutti i
membri sentono l’urgenza della loro missione. Nel mondo ci sono troppe persone
senza speranza, troppe grida lasciate senza risposta, troppe persone che
muoiono nella solitudine. i membri vivono realmente la comunità quando si
rendono conto che non sono lì per se stessi né per la loro piccola
santificazione personale, ma per accogliere il dono di dio e perché Dio venga a
dissetare i loro cuori inariditi, attraverso la loro preghiera, il loro amore,
il loro spirito di servizio. Una comunità è chiamata a essere luce in un mondo
di tenebre, sorgente rinfrescante per la chiesa e per gli uomini. Se diventa
tiepida, il mondo morirà di sete; se non porta frutto, i poveri moriranno di
fame. Ma questo senso di urgenza nel servizio non vuole dire che si deve essere
iperattivi, nervosi, angosciati. Non è in contraddizione con un sentimento di abbandono,
di fiducia, di pace e di gioia. Prendiamo coscienza della sofferenza e del male
nel mondo, ma nello stesso tempo della profondità dell’ampiezza della Buona
notizia.
Alcuni vogliono
stare insieme senza sapere troppo bene il perché. Vogliono soltanto stare
insieme. Se gli scopi specifici o il “perché” di una vita in comunità non sono
molto chiari, ben presto ci saranno conflitti e tutto crollerà. Questo implica
che ogni comunità deve avere una carta o un progetto di vita che specifica
chiaramente perché si vive insieme e che cosa ci si aspetta da ognuno. Bruno
Bettelheim scrive: “Sono convinto che la vita comunitaria può fiorire solo se
la comunità esiste per uno scopo al di fuori di essa. È possibile solo come
conseguenza di un impegno profondo verso un’altra realtà al di là di quella di
essere una comunità”.
Comunione.
Le parole della spiritualità
Nella rivelazione cristiana la comunione
è anzitutto realtà teologale. Dio nel suo essere è comunione, lo
Spirito è Spirito di comunione e Cristo è persona corporativa, è il capo del
corpo che è la chiesa. Comunione è la vita trinitaria divina, vita fatta di ascolto,
scambio e donazione reciproche
fra le persone divine. Essendo costitutivo della vita divina, la comunione è
essenziale anche alla chiesa: se non plasma il suo volto nella storia come
volto di comunione, la chiesa si riduce a organizzazione sociologica e non è
più la chiesa di Dio. Mandato della chiesa è di essere luogo del superamento di
tutte le barriere e le discriminazioni culturali e sociali, politiche ed
etniche, della diversità riconciliata, delle differenze compaginate in
comunione: così essa non solo è riflesso della comunione dinamica delle persone
trinitarie, ma è icona dell'umanità riconciliata, immagine del cosmo redento,
profezia del Regno. E questo è appunto ciò che ogni eucaristia, cuore della
comunione, deve manifestare. E' sulla comunione che la chiesa gioca
l'obbedienza alla propria vocazione ricevuta da Dio e l'adempimento della
propria testimonianza e missione nel mondo.
Come profondità della vita divina, la
comunione viene trasmessa agli uomini in un processo di impoverimento, di
svuotamento e di abbassamento di Dio motivato dall'amore, dal suo desiderio di
comunione con l'umanità. "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo
Figlio unigenito perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna'' (Giovanni
3,16); "Poiché i figlihanno
in comune la carne e
il sangue, anche il Cristo ne èdivenuto
partecipe'' (Ebrei 2,14): fonte della comunione è l'amore, suo
mezzo ne è lo scambio verso il basso per cui colui che era in forma di Dio
svuotò se stesso assumendo forma d'uomo e condividendo la condizione umana fino
alla morte, anzi, "alla morte di croce'' (Filippesi 2,8). Insomma, forma
e fondamento della
comunione cristiana è la croce come mistero e passione di amore. Dire
questo significa affermare che la comunione all'interno della chiesa, tra le
chiese, tra la chiesa e gli uomini tutti, è dono di Dio! Essa non è
programmabile e raggiungibile come obiettivo di una strategia di politica
ecclesiastica, ma deve essere accolta come grazia predisponendo l'obbedienza
radicale all'Evangelo e mettendosi all'ascolto dell'altro: il fratello con cui
si vive quotidianamente, l'altra confessione cristiana, gli uomini appartenenti
ad altre religioni e culture, coloro che si professano non-credenti.
E qui va ricordato che la comunione
cristiana, discendente dalla Trinità, plasmata dalla croce e costantemente
vivificata dallo Spirito santo, esige il rigetto, da parte del cristiano e
della chiesa, sia della domanda de-responsabilizzante "Chi è il mio
prossimo?'' (Luca 10,29) che dell'affermazione di autosufficienza "Io non
ho bisogno di te'' (1 Lettera ai Corinti 12,21). Al tempo stesso, la comunione
intra-ecclesiale non può nutrirsi solamente di questo principio orizzontale di
attenzione all'altro o di bisogno dell'altro. All'interno di un'ottica centrata
solamente sull'altro la chiesa rischia il corto circuito della comunità affettiva,
della chiusura autosufficiente del gruppo su di sé, della gratificazione di un
rapporto "io-tu'' che diviene esclusivo. Oppure può scivolare nell'ottica
della rivalità e della contrapposizione, dell’ "io contro l'altro'', dando
vita a una missione che diviene imposizione e assumendo le sembianze di una
setta aggressiva verso il mondo. O ancora può finire col porsi come soggetto di
carità, come benefattrice, come ente filantropico. Nel primo caso la comunione
si atrofizza e si isterilisce, nel secondo viene tradita e misconosciuta, nel
terzo viene ridotta ad attivismo caritativo. Non basta "l'altro'', ma
occorre "il Terzo'' e la sua trascendenza, e dunque si deve aver chiaro
che l'altro, nell'ottica cristiana, è rimando al Terzo che è il Signore, il Creatore
di tutti, Colui che in ogni uomo ha impresso la propria immagine.
Insomma, non sono tanto le nostre parole
che plasmano lakoinonía,
la comunione, ma la Parola di Dio che purifica le nostre parole, che ordina la
nostra comunicazione, che presiede alle nostre relazioni. Karl Barth ha potuto
scrivere: "La chiesa è la comunione sempre rinnovata di uomini e donne che
ascoltano e testimoniano la Parola di Dio''. La Parola di Dio convoca e raduna
i credenti legandoli in un solo corpo e questo è il centro sorgivo e
dinamizzante della chiesa e della comunione ecclesiale. Questa la comunione che
cercano di edificare anche i segni sacramentali del battesimo e
dell'eucaristia. Infatti "siamo stati battezzati in un solo Spirito per
formare un solo corpo'' (1 Lettera ai Corinzi 12,13) e "poiché c'è un solo
pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo
dell'unico pane'' (1 Lettera ai Corinzi 10,17). Sì, i cristiani sono communicantes
in Unum, nell'unico Dio, il Padre, per mezzo dell'unico Signore,
Gesù Cristo, grazie all'unico Spirito (cf. Efesini 4,4-6), e in questa
comunione con colui che è all'origine di ogni santità essi, che già vivono la solidarietà
con i peccatori, possono anche conoscere la communio
sanctorum, la comunione con i santi del cielo, con coloro che già
vivono per sempre in Dio. Solo allora la chiesa è colta nella pienezza del suo
mistero di comunione.
ENZO
BIANCHI
Le parole della spiritualità
Rizzoli, 1999 pp.189-192
Le parole della spiritualità
Rizzoli, 1999 pp.189-192
Durante l'era glaciale, molti animali
morivano a causa del freddo.
I porcospini, percependo la situazione, decisero di unirsi in gruppi, così si coprivano e si proteggevano vicendevolmente, però le spine di ognuno ferivano i compagni più vicini, giustamente quelli che offrivano più caldo.
Per quel motivo alcuni decisero di allontanarsi dagli altri ma cominciarono di nuovo a morire congelati.
A quel punto le cose erano due dovevano decidere: sparire dalla Terra o accettare le spine dei compagni?
Con saggezza, decisero di tornare a stare insieme.
Impararono così a convivere con le piccole ferite che la relazione con un simile molto prossimo può causare, poiché la cosa più importante era il caldo dell'altro.
E così sopravvissero.
I porcospini, percependo la situazione, decisero di unirsi in gruppi, così si coprivano e si proteggevano vicendevolmente, però le spine di ognuno ferivano i compagni più vicini, giustamente quelli che offrivano più caldo.
Per quel motivo alcuni decisero di allontanarsi dagli altri ma cominciarono di nuovo a morire congelati.
A quel punto le cose erano due dovevano decidere: sparire dalla Terra o accettare le spine dei compagni?
Con saggezza, decisero di tornare a stare insieme.
Impararono così a convivere con le piccole ferite che la relazione con un simile molto prossimo può causare, poiché la cosa più importante era il caldo dell'altro.
E così sopravvissero.
Morale della favola
La migliore relazione non è quella che unisce persone perfette, è quella dove ognuno impara a convivere coi difetti degli altri, ad ammirare le sue qualità ed ad avere bisogno sempre del suo fianco.
La Chiesa, abbraccio di diversità
Chi ha conosciuto il postconcilio
ricorda certo le forti tentazioni, cui a volte si è anche ceduto, di
contestazione e di contraddizione della comunione ecclesiale, ma ricorda anche
il coraggio, la passione, la volontà di esercitare la propria responsabilità
nella vita ecclesiale. A quella stagione, segnata anche dalla conflittualità, è
subentrato non un vissuto di comunione più profondo e praticato nel quotidiano,
ma un appiattimento, una stanchezza che a volte lascia spazio alla tentazione
di non partecipare più al cammino ecclesiale. […] Ma una chiesa che pretende di
comunicare, di dialogare con i non cattolici e non si mostra capace di avere
dialogo al proprio interno non è credibile: è una questione di semplice
coerenza. Paolo VI, quando affrontò il tema del dialogo, lo considerò non una
strategia alla ricerca di maggiore efficacia, ma un problema di fondo, di
identità della chiesa stessa. Se una parola deve essere dialogo e confronto con
chi non è cattolico, questa parola deve esserlo già all’interno del corpo,
dell’organismo che vuole dialogare e comunicare: per poter allargare i cerchi
del dialogo, è necessario promuoverlo innanzitutto nello spazio ecclesiale,
all’interno della chiesa cattolica, tra i suoi figli. Saper ascoltare tutti,
dare la parola a tutti e, quindi, parlare è ciò che caratterizza uno spazio in
cui è possibile il formarsi di un’opinione pubblica, il recupero di quella
parresia, di quella franchezza e libertà di parola che fa parte dello statuto
cristiano. […] Una chiesa veramente “comunionale” è anche quella in cui la
libertà è vissuta e assunta responsabilmente dal cristiano, il quale percepisce
come auspicata la propria voce, anche qualora risuonasse differente.
Non credo di essere il solo a sognare
delle comunità e delle chiese in cui, senza scadere nella divisione, senza
essere preda del detestabile spirito della contestazione e del più attestato
spirito della mormorazione, si abbia il coraggio e la libertà di esprimere
anche un “dissenso leale” là dove non è richiesta l’unità della fede. La chiesa
non ha nulla da perdere ma tutto da guadagnare se riesce a mostrare che il
prendere la parola, prima di essere un rischio, è una responsabilità, cioè un
rispondere a un corpo di cui si fa parte, a una comunione plurale costruita
giorno dopo giorno.
I vincoli di comunione che devono essere
rispettati all’interno della comunità cristiana chiedono anche la pratica
dell’obbedienza ai pastori, ma non escludono mai confronto e dialogo: quando si
afferma che la vita della chiesa non è riducibile a una “democrazia non si
vuole affermare che essa è autocrazia o monarchia, bensì che si tratta di una
realtà teologale in cui la presenza dello Spirito crea il “senso della fede” e
dà la possibilità del discernimento nella saldezza e nell’unità dell’intero
corpo ecclesiale.
(Da Enzo Bianchi, “La differenza cristiana”)
Nessun commento:
Posta un commento