Luciano Manicardi, Monaco di Bose
Le radici degli atteggiamenti cristiani verso la sofferenza si trovano nella Bibbia. Dico “atteggiamenti” al plurale perché in realtà il riferimento alla vita e alla persona di Cristo, e anche alla sua sofferenza e morte simboleggiate dalla “croce”, hanno dato vita nella storia a comportamenti e atteggiamenti diversi, talvolta contraddittori, di fronte a sofferenza e morte. Nel primo millennio cristiano ha prevalso nelle chiese il riferimento al Gesù medico, al Gesù che ha incontrato tanti malati e sofferenti nel corpo e nella psiche e che ha sempre lottato contro il dolore che disumanizza e stravolge la vita di una persona. Ha prevalso l’immagine del Gesù che, incontrando i malati, non predica mai rassegnazione, non ha atteggiamenti fatalistici, non afferma mai che la sofferenza avvicini maggiormente a Dio, non chiede mai di offrire la sofferenza a Dio, non nutre mai atteggiamenti doloristici, perché sa che non la sofferenza, ma l’amore salva. Per questo Gesù “si prende cura” di chi è nella sofferenza, mostra empatia nei suoi confronti, e a volte anche opera guarigioni. Nel secondo millennio si è venuto progressivamente accentuando un atteggiamento di imitazione o di identificazione nel Cristo sofferente e crocifisso che, sa da un lato ha potuto a volte consentire di rendere sopportabile la sofferenza che non passa, ha tuttavia dato origine a spiritualità doloristiche, a vere e proprie esaltazioni del soffrire come via di salvezza, che non avevano nulla in comune con lo spirito del Vangelo e con un atteggiamento semplicemente “umano”. Si tratta di quelle “ideologie” spirituali che qualcuno ha posto sotto il nome di “masochismo cristiano” (ma si potrebbe parlare anche di sadismo).
Tuttavia, alcuni punti fondanti possono oggi essere sottolineati circa l’atteggiamento ispirato dai testi fondatori del cristianesimo. Il primo punto che proviene dalle Scritture è che non esiste il male o la sofferenza in astratto, ma sempre e solo nel contesto di relazioni storiche e di vicende esistenziali concrete. Il male e la sofferenza sono sempre situati, connessi a un corpo, a un volto. È fuori luogo cercare nella Bibbia una trattazione sistematica, dottrinale, sul male e sulla sofferenza, e questo dovrebbe anche orientare ed educare le domande che noi poniamo alla Bibbia su questi temi. Tutta la Bibbia e in particolare Gesù Cristo non si interessano speculativamente al mondo del male ma al male del mondo, al male incarnato nella malattia, nella sofferenza che devasta i corpi, sfigura i volti, lacera la psiche e sconvolge lo spirito di uomini e donne concreti. Il male e la sofferenza non li si incontra in astratto, ma in persone precise che ne sono vittime.
Per la Bibbia, poi, la sofferenza è e rimane una questione, una domanda. La stessa pluralità di risposte che la Bibbia abbozza di fronte al soffrire, mostra che di fronte a esso è fondamentale continuare a domandare, a interrogarsi, al di là delle risposte o piste di risposta che si possono dare. Tra queste risposte troviamo la teoria della retribuzione terrena (per cui i giusti, prima o poi, conoscono la felicità e i malvagi, invece, vanno in rovina), la concezione del valore pedagogico della sofferenza (attestata in alcuni capitoli del libro di Giobbe: 32-37), il modello della responsabilità collettiva (le colpe dei padri cadono anche sui figli: qui la sventura è sempre pena in rapporto a un peccato ha turbato l’armonia dell’alleanza, e la pena va espiata), il modello della responsabilità personale (attestata in profeti come Ezechiele e Geremia).
Certamente il tentativo di risposta contenuto nei capitoli iniziali della Genesi (2-3) è il più noto anche grazie a una lettura “storica” che ha isolato il capitolo 3 facendone il “racconto della caduta” di Adamo, contemplandovi il primo peccato del primo uomo da cui sarebbero derivati tutti i guasti dell’umanità (morte, fatica, dolore...) e che avrebbe comportato la perdita dei "dona praeternaturalia" di cui avrebbe goduto l’uomo nell’Eden.
L’"homo religiosus" (per cui il mondo è impensabile senza Dio) che si esprime nella Bibbia, ha connesso la sofferenza, la malattia, il dolore, la morte, al peccato, a una trasgressione dell’ordine voluto da Dio. Si tratta in realtà di un dato culturale diffuso in molti ambienti vicini a Israele e che, se ha potuto conoscere declinazioni a volte grossolane nel senso della sofferenza come automatica punizione del peccato, era in realtà una maniera per rendere tollerabile l’intollerabile, sopportabile l’assurdo, e addirittura per mettere in atto un tentativo di lotta contro la sofferenza altrimenti enigmatica: se il mondo non è senza Dio e se nel mondo c’è anche il male e la sofferenza, Dio, creatore del mondo e più forte del male, mi consente di rivolgermi a lui, con il pentimento e la preghiera, per sperare la guarigione. Il libro di Giobbe, presentando la sofferenza innocente, la sofferenza del giusto e la protesta del sofferente, rende caduche le affermazioni teologiche che violentavano la realtà umana cercando sempre di giustificare Dio. Per quanto riguarda i capitoli iniziali del libro della Genesi, si tratta di testi sapienziali che non narrano ciò che è avvenuto in un mitico periodo delle origini, ma che intendono spiegareciò che avviene quotidianamente tra gli umani. E il messaggio è che la trasgressione, il rapportarsi al mondo e agli altri con la modalità del consumo, della brama, del desiderio di potere e di sapere, nasce dalla paura della morte. Morte che è realtà da subito presente nel parlare di Dio all’uomo, nel primo comando che Dio dà all’uomo. Morte che va intesa non in senso fisico, ma spirituale, come incrinatura e lacerazione di relazioni.
Il Cristo, apparso per liberare quegli uomini che “erano schiavi tutta la vita per paura della morte” (Ebrei 2,15), non fornisce alcuna spiegazione sull’origine del male, ma cerca sempre e solo di reintegrare l’umano offeso, diminuito, sofferente delle precise creature che egli incontra nel suo vivere. E lo fa anzitutto trovando come senso al suo vivere l’amore, ciò che gli consente di assumere anche la sofferenza non voluta, indesiderata, e perfino la morte di croce da cui ha pregato di essere liberato. Dal Vangelo non deriva una “dottrina” sulla sofferenza, ma una prassi di prossimità, riconoscimento, ospitalità, solidarietà. Una prassi di umanizzazione.
Tuttavia, alcuni punti fondanti possono oggi essere sottolineati circa l’atteggiamento ispirato dai testi fondatori del cristianesimo. Il primo punto che proviene dalle Scritture è che non esiste il male o la sofferenza in astratto, ma sempre e solo nel contesto di relazioni storiche e di vicende esistenziali concrete. Il male e la sofferenza sono sempre situati, connessi a un corpo, a un volto. È fuori luogo cercare nella Bibbia una trattazione sistematica, dottrinale, sul male e sulla sofferenza, e questo dovrebbe anche orientare ed educare le domande che noi poniamo alla Bibbia su questi temi. Tutta la Bibbia e in particolare Gesù Cristo non si interessano speculativamente al mondo del male ma al male del mondo, al male incarnato nella malattia, nella sofferenza che devasta i corpi, sfigura i volti, lacera la psiche e sconvolge lo spirito di uomini e donne concreti. Il male e la sofferenza non li si incontra in astratto, ma in persone precise che ne sono vittime.
Per la Bibbia, poi, la sofferenza è e rimane una questione, una domanda. La stessa pluralità di risposte che la Bibbia abbozza di fronte al soffrire, mostra che di fronte a esso è fondamentale continuare a domandare, a interrogarsi, al di là delle risposte o piste di risposta che si possono dare. Tra queste risposte troviamo la teoria della retribuzione terrena (per cui i giusti, prima o poi, conoscono la felicità e i malvagi, invece, vanno in rovina), la concezione del valore pedagogico della sofferenza (attestata in alcuni capitoli del libro di Giobbe: 32-37), il modello della responsabilità collettiva (le colpe dei padri cadono anche sui figli: qui la sventura è sempre pena in rapporto a un peccato ha turbato l’armonia dell’alleanza, e la pena va espiata), il modello della responsabilità personale (attestata in profeti come Ezechiele e Geremia).
Certamente il tentativo di risposta contenuto nei capitoli iniziali della Genesi (2-3) è il più noto anche grazie a una lettura “storica” che ha isolato il capitolo 3 facendone il “racconto della caduta” di Adamo, contemplandovi il primo peccato del primo uomo da cui sarebbero derivati tutti i guasti dell’umanità (morte, fatica, dolore...) e che avrebbe comportato la perdita dei "dona praeternaturalia" di cui avrebbe goduto l’uomo nell’Eden.
L’"homo religiosus" (per cui il mondo è impensabile senza Dio) che si esprime nella Bibbia, ha connesso la sofferenza, la malattia, il dolore, la morte, al peccato, a una trasgressione dell’ordine voluto da Dio. Si tratta in realtà di un dato culturale diffuso in molti ambienti vicini a Israele e che, se ha potuto conoscere declinazioni a volte grossolane nel senso della sofferenza come automatica punizione del peccato, era in realtà una maniera per rendere tollerabile l’intollerabile, sopportabile l’assurdo, e addirittura per mettere in atto un tentativo di lotta contro la sofferenza altrimenti enigmatica: se il mondo non è senza Dio e se nel mondo c’è anche il male e la sofferenza, Dio, creatore del mondo e più forte del male, mi consente di rivolgermi a lui, con il pentimento e la preghiera, per sperare la guarigione. Il libro di Giobbe, presentando la sofferenza innocente, la sofferenza del giusto e la protesta del sofferente, rende caduche le affermazioni teologiche che violentavano la realtà umana cercando sempre di giustificare Dio. Per quanto riguarda i capitoli iniziali del libro della Genesi, si tratta di testi sapienziali che non narrano ciò che è avvenuto in un mitico periodo delle origini, ma che intendono spiegareciò che avviene quotidianamente tra gli umani. E il messaggio è che la trasgressione, il rapportarsi al mondo e agli altri con la modalità del consumo, della brama, del desiderio di potere e di sapere, nasce dalla paura della morte. Morte che è realtà da subito presente nel parlare di Dio all’uomo, nel primo comando che Dio dà all’uomo. Morte che va intesa non in senso fisico, ma spirituale, come incrinatura e lacerazione di relazioni.
Il Cristo, apparso per liberare quegli uomini che “erano schiavi tutta la vita per paura della morte” (Ebrei 2,15), non fornisce alcuna spiegazione sull’origine del male, ma cerca sempre e solo di reintegrare l’umano offeso, diminuito, sofferente delle precise creature che egli incontra nel suo vivere. E lo fa anzitutto trovando come senso al suo vivere l’amore, ciò che gli consente di assumere anche la sofferenza non voluta, indesiderata, e perfino la morte di croce da cui ha pregato di essere liberato. Dal Vangelo non deriva una “dottrina” sulla sofferenza, ma una prassi di prossimità, riconoscimento, ospitalità, solidarietà. Una prassi di umanizzazione.
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