Quella
torsione del pensiero chiamata CONVERSIONE
di Gianfranco Ravasi
"O Signore, dacci la serenità di accettare quello
che non si può cambiare, il coraggio di cambiare quello che va cambiato e la
saggezza per distinguere l'uno dall'altro". Così pregava il teologo
americano Reinhold Niebuhr, morto nel 1971, e questa invocazione potrebbe
essere l'epigrafe ideale per le pagine che sono ora di fronte a noi. Esse
ruotano, infatti, attorno a un verbo essenziale per la vita e per la
spiritualità: cambiare. Pensiamo solo a quanto radicale sia stato il
mutamento che abbiamo subito alle origini stesse della nostra esistenza, quando
siamo usciti dalla quiete e dall'oscurità del grembo materno per affacciarci
alla luce, alla libertà, all'ignoto. Su questo
fondamentale cambiamento strutturale la psicologia e la psicanalisi hanno
intrecciato quasi l'intera trama delle loro ricerche.
Scritto da un sacerdote che sa unire la finezza dell'analisi esegetica e della riflessione teologica con quella del servizio diplomatico per la Santa Sede, che intreccia l'acutezza e la limpidità del dettato con l'intensità e la profondità della sua proposta spirituale, destinata a tutti, questo suggestivo libro si propone quasi come una guida per il cammino, impegnativo e talora anche lacerante, del cambiamento. Usando una sua immagine, siamo invitati a lavare i piedi impolverati dai sentieri percorsi in passato per inoltrarci, liberi e spediti, sulle vie della trasformazione interiore, lasciando cadere inceppi e remore, catene e abitudini.
Non per nulla la prima "predica" di Gesù, riferita dai Vangeli, è fatta di poche ma incisive parole che si aprono con un imperativo, "convertitevi", che nell'originale greco metanòeitepresuppone un "cambiare mente", una vera e propria torsione del pensiero, della visione delle cose e della stessa esistenza per avviarsi su un sentiero d'altura che tende non a una vetta, ma all'infinito del cielo: "Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Matteo, 5, 48). È un percorso proposto al singolo e all'intera Chiesa, un cammino talora complesso e arduo, un itinerario necessario se non si vuole sentire il monito aspro di Cristo: "Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo" (Luca, 13, 3).
Monsignor Fortunatus ricorre - anche nello stile comunicativo proprio delle sue origini africane - a un linguaggio di straordinaria efficacia narrativa. Sulla scia della stessa predicazione di Gesù, ama la parabola, il racconto di un evento esemplare, il simbolo, rendendo così le sue pagine particolarmente vivide e fragranti. Ma soprattutto attinge a quel mirabile "grande codice" della nostra fede e della nostra cultura che è la Bibbia. E per questo che il cuore del suo libro è costituito da una sorta di trittico le cui tavole sono dipinte con i colori e con i soggetti desunti dalle Sacre Scritture. Vorremmo ora soltanto evocare queste tre scene di "cambiamento", lasciando poi al lettore di gustarle nella rappresentazione luminosa e intensa del testo. A venirci incontro è innanzitutto Mosè con l'esperienza del roveto ardente che ne trasformerà la vita. Tutto inizia con quella decisione indispensabile: ""Voglio avvicinarmi a vedere". Il Signore vide che si era avvicinato a vedere e Dio lo chiamò dal roveto" (Esodo, 3, 3-4). Nell'originale ebraico c'è un "voltarsi" che evoca la conversione e che sostiene il desiderio di "vedere". Ma l'attenzione è poi trasferita sul gesto dai tratti metaforici: "togliersi i sandali". Scavando all'interno di questo simbolo biblico, monsignor Fortunatus ne svela il significato profondo: "Dio chiede a Mosè di rinunciare a questo simbolo di possesso materiale, di diritto di proprietà, di dignità, di libertà, di protezione, di generale benessere, così da passare da uno stato di prosperità materiale a uno di povertà innanzi a Lui". In tal modo, i suoi piedi nudi e spogli, cioè la sua realtà umana purificata, possono entrare in contatto vivo con la "terra santa" dell'epifania divina, ricevendone l'energia vitale e salvifica: "Attraverso il contatto diretto e senza impedimento tra i suoi piedi e il suolo, Mosè è "caricato" e cambiato dalla corrente di santità proveniente da quella terra santa".
La seconda tavola del trittico ha al centro un cieco, uno dei tanti malati che Gesù incontra nei Vangeli, ma che è qui identificato con un nome proprio: Bartimeo (Marco, 10, 46). Al suo grido risponde alla fine la voce stessa di Gesù, per tre volte in un solo versetto l'evangelista introduce il verbo "chiamare", fonèin in greco, ossia la voce: "Gesù si fermò e disse: "Chiamatelo!". Chiamarono il cieco dicendogli: "Coraggio! Alzati, ti chiama!"" (v. 49). A questo appello e alla guarigione subentra il cambiamento di esistenza di quell'uomo che ha ora come simbolo il mantello, segno di possesso, di identità, di personalità.
Scrive don Fortunatus: "Come Mosè toglie i suoi calzari innanzi al Signore nel roveto ardente, così il nostro mendicante cieco getta ora il suo mantello. È il mantello da lui usato sia per coprirsi sia per ricevere l'elemosina dei passanti. In esso era l'intera sua esistenza concreta, quella per la quale la gente lo conosceva - il cieco, mendicante lungo la strada. Gettandolo via, egli ora abbandona il suo precedente modo di vivere. Non vuole più stare seduto lungo la strada". E infatti adesso Bartimeo non solo "riacquista la vista", ma anche "prende a seguire Gesù lungo la strada"; una nuova vita per una nuova creatura. E la strada è anche al centro della terza scena del nostro trittico. Essa vede snodarsi la storia di quel figlio difficile e pentito che noi abbiamo tradizionalmente definito come "figlio prodigo". E la celebre parabola di Luca che ha appunto in filigrana una via, prima di perversione e poi di conversione. Non per nulla nel linguaggio anticotestamentario "convertirsi" èshuv, che letteralmente significa "ritornare" sulla pista che si era abbandonata perdendoci lungo le distese del deserto dell'esistenza.
Commenta così l'autore il cuore della narrazione di Luca con la scelta del figlio di cambiare vita: "La sua decisione implica tre azioni: alzarsi, andare dal padre e parlargli. Il suo alzarsi, come quello del mendicante cieco, Bartimeo, nel suo incontro con Gesù, è presentato come una dnàstasis, una risurrezione, un ritorno alla vita. Questo comporta un cambio di posizione, dalla postura orizzontale della morte (disteso, seduto e accovacciato) alla posizione verticale o eretta della vita. Implica anche abbandonare la "tomba", il luogo della morte, con la sua soffocante mancanza di aria e la sua grigia assenza di luce, oltre naturalmente ai primi sintomi di putrefazione. Perciò, appena il giovane rompe con il sepolcro della sua vita passata, prova la sensazione di un'improvvisa corrente di aria nuova, di luce e libertà, di freschezza e di rinascita. Il padre del giovane più tardi avrebbe dichiarato: "Perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato" (Luca, 15, 24)". Lasciamo ora ai lettori di percorrere con la guida di monsignor Fortunatus la strada del cambiamento che è conversione. Tanti sono gli squarci che egli aprirà davanti ai nostri occhi per svelare le molteplici iridescenze di questa esperienza spirituale e umana d'importanza capitale, ammonendoci anche sulle fatiche, le lotte, il rigore che la trasformazione interiore esige. Ma, come diceva lo scrittore cattolico francese Julien Green, "finché si è inquieti, si può stare tranquilli". Finché in noi c'è il fremito del cambiamento, è segno che siamo spiritualmente vivi e vitali. E ciò che alla fine ci attende è un abbraccio di pace e di felicità, come quello che si scambiano il padre e il figlio pentito della parabola di Luca e come quello che fiorisce nella dolce e appassionata preghiera poetica con cui si chiude questo volume.
(©L'Osservatore Romano - 16 luglio 2009)
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