martedì 25 dicembre 2012

Elogio alla rovescia della Santa Famiglia (E.Biemmi)

fratel Enzo Biemmi
fratello della Santa Famiglia

Guardando i quadri e le immaginette che rappresentano una Santa Famiglia così serena, unita e perfetta non possiamo non misurare lo scarto tra questo ideale immaginato e dipinto e la realtà che ci viene comunicata dai vangeli dell’infanzia.
Ancora di più balza all’occhio la distanza tra questa idealizzazione e le nostre famiglie reali, anche le più fortunate, le più sane e le più unite.
Come augurio di Natale, tento un sguardo diverso sulla famiglia di Nazareth, anche se appena abbozzato. Le tolgo il titolo di “santa” o di “sacra” e provo a guardarla come guardo la mia famiglia e le famiglie che conosco. La chiamo per quello che è stata: la famiglia di Giuseppe e Miriam di Nazareth e del loro figlio Gesù.
Di questa famiglia intendo tessere un breve elogio alla rovescia, dicendo tre cose: la famiglia di Nazareth non è una famiglia ideale; non può essere di conseguenza l’ideale delle nostre famiglie; ma è una buona notizia per le famiglie.

1. Una famiglia non ideale

La famiglia di Nazareth non è una famiglia ideale. E’ attraversata da vicende così improbabili, sconvolgenti e rischiose da andare oltre ogni immaginario. Al tempo stesso, quello che succede in questa famiglia fa in qualche modo contatto con le storie ordinarie di tante famiglie del passato e del presente.
Osserviamo le tappe di questa famiglia così come ce le restituiscono i Vangeli dell’infanzia.

- Prima tappa: la gravidanza. I vangeli dell’infanzia di Luca e Matteo sono tutti concentrati a parlarci di Dio che ci viene incontro e sono avari nel descrivere i sentimenti di Miriam e di Giuseppe. Ma nulla ci impedisce di immaginare cosa accadde in loro, quando tutto cominciò, o meglio quando tutto crollò loro addosso: una ragazza da maritare incinta di una gravidanza non attesa, non cercata, non provocata, fuori dal matrimonio. Unica spiegazione: un messaggio venuto dal cielo. Senza spiegazioni da potersi dare l’uno di fronte all’altra; senza argomenti da dire di fronte al paese, alla comunità civile e religiosa di Nazareth. E nella morsa di una legge ebraica che non lascia scampo: Giuseppe deve ripudiare Miriam, Miriam deve essere lapidata.

«Glielo dissi il giorno stesso. Non potevo stare una notte con il segreto. Non trascorrerà intero il giorno sulla rottura della tua alleanza. Eravamo fidanzati. Nella nostra legge è come essere sposati, anche se non ancora nella stessa casa. Ed ecco che ero incinta […]
Il mio Josef, bello e compatto da baciarsi le dita, si stringeva le braccia contro il corpo, cercava di tenersi fermo, ripiegato come col mal di pancia. La notizia per lui era una tromba d’aria che scoperchiava il tetto […]
Quella notte sognò. Me lo ha raccontato in seguito. Sognò un angelo che gli ordinava il necessario. Al mattino riunì la famiglia e dichiarò la sua decisione; sposava Miriam alla data prevista di settembre, anche se era incinta. Sotto la tenda della cerimonia si sarebbe vista la mia gravidanza. Non ascoltò ragioni. Fu uno scandalo. Il villaggio era contro di lui. “Si è fatto abbindolare da Miriam, gli ha rifilato chissà che storia e lui se l’è bevuta” […]
Grandinavano gli insulti sulle sue spalle. Si stava facendo lapidare al posto mio [...]

«Le donne di Nazareth mi guardavano la pancia. “La svergognata gliel’ha data a bere ma con noi non la spunta”. “Guardate che aria da santarella”. “Voglio proprio vedere a chi somiglia il bastardo che porta nella pancia”. “Che frottola ha detto? Quella del Salvatore figlio dell’angelo? Sai che risate se nasce femmina”» (ERRI DE LUCA, In nome della madre, Feltrinelli, Milano 2007, 15-29 passim).

* Questa storia assolutamente unica fa però contatto a modo suo con le storie di tante famiglie, con ragazze madri, con madri abbandonate dai mariti, con figli senza padri, con l’arrivo di un figlio disabile, con famiglie chiamate a ridefinirsi, a ricomporre equilibri difficili, a gestire le mentalità moralistiche, a sanare ferite profonde. Famiglie normali, messe alla prova da una vita non attesa, non programmata. Famiglie giudicate, lasciate sole a vivere la loro sofferenza.

- Seconda tappa: il parto. La storia di questa famiglia si snoda dentro un contesto sociale e politico di oppressione e di guerra. Giuseppe, Maria e Gesù vivono in un paese sotto dominio. I Romani fanno sentire il loro potere. Ordinano il censimento, vogliono conoscere ognuno per nome, per imporre il peso delle loro tasse. In un contesto di non libertà, avviene un viaggio d’inverno al nono mese, nessuna casa in cui essere ospitati, il parto senza assistenza, Maria da sola perché agli uomini è proibito assistere. Dopo una gravidanza fuori da ogni norma, un parto fuori da ogni sicurezza, in un clima di oppressione, in un contesto straniero ed ostile. La precarietà più assoluta.

«Josef mi lasciò insieme all’asina fuori di città e partì di corsa. C’era odore di vino. Le cantine di certo avevano anticipato il travaso per averne da vendere ai viandanti. Ero arrivata al giorno, si stavano aprendo le mie acque. Tornò dopo due ore, desolato. Niente, non aveva trovato niente. Nato a Bet Lèhem, era partito bambino per la Galilea. Non aveva un familiare al quale rivolgersi. La città era sottosopra per il ritorno delle famiglie da censire. Ogni casa ospitava parenti venuti da lontano. Si torceva le mani. Aveva implorato, offerto anche l’asina per un letto, niente. C’era solo una minuscola stalla dove c’era un bue. La bestia, almeno lei, accolse bene gli intrusi, io e l’asina» (In nome della madre, 58-59).

* Eppure questa storia fa contatto a modo suo con famiglie di bambini nati in condizioni di povertà estrema, di mancanza di igiene, senza assistenza. Storie di parti difficili, di madri morte durante il parto. Di bimbi morti prima di venire alla luce. Di famiglie in paesi del mondo sotto l’oppressione di tiranni, costrette a fuggire, senza una casa in cui rifugiarsi. Storie di bimbi e genitori venuti al mondo in tempi difficili, chiamati a vivere la propria vita in condizioni politiche, sociali, economiche di oppressione e di povertà.

- Terza tappa: la minaccia della vita e l’esilio. Il Vangelo di Matteo ci racconta la strage degli innocenti.  Erode, beffato dai tre magi, nella sua ossessione di potere vuole eliminare ogni possibile concorrente. La famiglia di Nazareth si trova con un bambino minacciato di morte, costretta a fuggire, ad affrontare l’esilio in un paese straniero e storicamente nemico. Perdita del lavoro, della casa, del contesto degli affetti, dei riferimenti religiosi, delle radici, delle tradizioni.

* Questa vicenda, così unica, a modo suo fa contatto con infinite storie di famiglie emigrate, fuggite da situazioni di morte, perite in viaggio, catapultate in situazioni ostili, sradicate e senza riferimenti. Famiglie senza lavoro, senza contesti affettivi a cui aggrapparsi. Storie di milioni di famiglie.

Quarta tappa: la perdita del figlio. Luca racconta l’episodio dello smarrimento di Gesù al tempio. Lo perdono per strada, lo cercano, pensano di averlo trovato e si rendono conto di averlo perso per sempre: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49). Giuseppe per la seconda volta perde un figlio che non è mai stato suo. Maria, come lo aveva accolto senza averlo cercato, così lo lascia andare dopo averlo atteso e amato.

* Questa vicenda, certo unica, fa contatto con le vicende di tutte le famiglie che perdono i figli, per incidente, per malattia, per droga, o più semplicemente perché il figlio non viene fuori come lo si è immaginato, sognato, educato. Storie di cordoni ombelicali tagliati per la seconda volta con dolore, alcune volte definitivamente. Storie di figli non lasciati mai andare, o al rovescio di figli che non se ne vanno mai. Storie educative fallite, anche se portate avanti con cura. Storie di figli abbandonati, storie di figli che abbandonano. Storie di delusioni per quanto i genitori trasmettono e sembra non sia andato a frutto. Storie di figli che prendono strade senza ritorni.

Quinta tappa: la perdita del padre. Vale la pena accennare a un silenzio del Vangelo, quello sulla sparizione di Giuseppe. Dopo l’episodio del tempio, di lui non si sa più niente. Entra in scena in modo discreto eppure determinante, dando il nome e inserendolo nella discendenza di Davide, impedendo che sia figlio di nessuno. Poi esce di scena, con la stessa discrezione. «Una paternità non ricevuta in dote di natura, ma conquistata sul campo e lì perduta, all’uscita del figlio da casa» (Erri De Luca). Alla perdita del figlio, questa famiglia aggiunge la perdita del padre.

2. Una famiglia che non è l’ideale della famiglia

La famiglia di Nazareth non è una famiglia ideale, quella delle immaginette, dei santini. La famiglia nella quale le cose vanno bene, regna la concordia, la pace e la serenità. Una gravidanza non attesa e fuori dalle regole; il difficile (impossibile?) chiarimento interno alla coppia per un’accoglienza basata sulla sola fiducia, sull’amore; il giudizio della gente; una nascita dentro un contesto di violenza e di precarietà; la minaccia sulla vita nascente; l’esperienza dello sradicamento e dell’esilio; un figlio “diverso”, imprevedibile, che non sta alle attese; la perdita del padre.

Come è possibile imitare una famiglia così?  Non è semplice dover preparare l’omelia della festa della Santa Famiglia e altrettanto difficile doverla ascoltare. Dipingere una famiglia ideale a famiglie sempre più in crisi e sentirsela proporre come ideale per le nostre famiglie, delle quali solo noi conosciamo fino in fondo le fatiche, non raramente i drammi.
Non c’è famiglia religiosa femminile o maschile che ha come riferimento la Santa Famiglia che non abbia nella sua tradizione l’elenco delle virtù da imitare in questa famiglia. La mia famiglia religiosa, dei Fratelli della Sacra Famiglia, nella sua tradizione elenca le 5 grandi virtù che animavano Gesù, Maria e Giuseppe sia nelle loro relazioni reciproche che nella loro relazione con Dio: l’umiltà, la semplicità, l’obbedienza, l’unione e l’abnegazione reciproca. A queste 5 segue l’elenco delle “piccole virtù nazarene” che le rinforzano: la cortesia, l’affabilità e condiscendenza, la dissimulazione caritatevole delle mancanze dell’altro, l’indulgenza e la pazienza, la stabilità di carattere e la santa gioia, la compassione e l’attenzione nel servizio. Si tratta di un elenco (di fatto è molto più lungo di questo) in cui viene presentata la mappa degli atteggiamenti positivi vissuti dalla Sacra Famiglia. Questo quadro lascia ammirati, ma anche frustrati. 
In questo gioco di idealizzazione della Santa Famiglia e di demoralizzazione di noi stessi, noi facciamo un torto al Vangelo. La Famiglia di Nazareth non può essere un ideale per le nostre famiglie, semplicemente perché la distanza storica e culturale è talmente grande che ogni esercizio di imitazione è improponibile.

3. La Famiglia di Nazareth: una buona notizia per le famiglie

Eppure accade qualcosa in quella famiglia, così unica e tribolata, che è diventa buona notizia per tutte le famiglie. Così vanno letti i testi di questo tempo di Natale. Una buona notizia per le nostre famiglie. Di questa buona notizia sottolineo tre aspetti.

1. Nella famiglia di Nazareth è nato per tutti un bambino, l’Emmanuele, la presenza di Dio tra noi. Egli è ormai dentro ogni cuore, dentro ogni famiglia, dentro ogni situazione. Questo bimbo, come si vede bene dai testi natalizi, ha già i titoli pasquali, è il Salvatore, il Signore morto e risorto per noi, il Vivente e a tutti disponibile. Non c’è ormai storia familiare, anche la più difficile e dolorosa, che non sia misteriosamente custodita e salvata da Dio. Non c’è donna, bambino, uomo che non gli stia a cuore e che non possa vivere la sua umanità nella speranza. Più che da imitare, questa famiglia va ringraziata. Va contemplata con gioia e gratitudine, perché ci annuncia che possiamo vivere nella speranza tutto quello che accade nelle nostre famiglie. E lo vive sulla sua pelle.

2. Il secondo regalo che la Famiglia di Nazareth ci fa è di farci vedere come si fa a fare spazio per accogliere il dono della presenza dell’Emmanuele. Ogni cosa che accade a Maria e Giuseppe è una vicenda di scombussolamento dei loro piani, di imprevisto, e ogni volta essi accettano il cammino della riformulazione, si rimettono a disposizione, si fidano delle possibilità della vita e delle promesse di Dio. Nel testo dell’annuncio a Maria e in quello dell’annuncio a Giuseppe noi possiamo vedere questo modo di stare nella vita, possibile anche per noi. La gravidanza inattesa di Maria porta Giuseppe, uomo giusto, a decidere di ripudiarla in segreto. Nel sogno durante il sonno (l’ascolto nella passività, nella disponibilità al non controllo delle situazioni), Giuseppe si riformula, si rimette diversamente in gioco, prende con sé Maria e dà il nome a Gesù. La mappa delle loro relazioni, apparentemente finita, si riconfigura su un nuovo spazio di vita. Così una storia familiare apparentemente chiusa, si riapre. Le storie delle nostre famiglie, ci dice la famiglia di Nazareth, non le possiamo dominare, far divenire quello che noi vogliamo. Non sono neppure sottratte alla nostra libertà. Possono essere storie familiari sempre aperte, contando sulla risorsa delle presenza di Dio e sulla nostra disponibilità a rimetterci ogni volta in cammino.
E’ questa la seconda buona notizia della Santa Famiglia. Nessuna storia familiare è ormai definitivamente chiusa. La disponibilità a Lui, “chiave della case di Davide” (IS 22,22), riapre imprevedibilmente ogni cammino.

3. Una presenza su cui puntare (quella dell’Emmanuele), la disponibilità a rimettersi sempre in gioco con fiducia mantenendo aperte le nostre storie familiari, e infine il segreto per fare delle nostre famiglie dei luoghi dove sperimentare la grazia del Vangelo. Questo segreto è contenuto nel versetto di Luca: «Scese con loro e venne a Nazareth e stava loro sottomesso» (Lc 2,51). Il verbo greco è “upotassein”. Il più grande tra loro si fa il più piccolo, si mette a loro servizio. E’ una famiglia dalle logiche capovolte. Vengono capovolte le gerarchie, o meglio viene inserita nei rapporti familiari una nuova logica, quella dell’obbedienza reciproca, del servizio vicendevole, dove nessuno è più grande dell’altro, perché il più grande di tutti stava loro sottomesso. Ci ricordiamo le parole che Gesù dirà poi da adulto ai suoi discepoli: «Tra voi non sia così… Il più grande tra voi sarà vostro servo» (Mt 23,11). Parlava di sé, del suo modo di essere tra di loro, di essere ormai sempre in mezzo a noi. Paolo, nella sua esortazione alle famiglie, nel capitolo 5 della lettera agli Efesini, riprende lo stesso verbo: upotassein. «Nel timore di Cristo siate sottomessi gli uni agli altri». Riesce così a fare una cosa straordinaria: rispettando una concezione familiare ancora patriarcale, centrata sui maschi, con la presenza di padroni e di schiavi, introduce nella famiglia un principio che fa totalmente esplodere la sua struttura piramidale. «Le mogli siano sottomesse ai mariti, come al Signore… Voi mariti amate le mogli come anche Cristo… Figli obbediti ai vostri genitori nel Signore… Voi padri non esasperate i vostri figli ma fateli crescere negli insegnamenti del Signore… Schiavi obbedite ai vostri padroni terreni come Cristo… Anche voi padroni comportatevi allo stesso modo verso di loro, sapendo che il Signore, loro e vostro, è nei cieli e in lui non c’è preferenza di persone» (Ef 5-6 passim). Alla fine tutti sono sottomessi a tutti, come il Signore a noi.
E’ proprio questo quello che la Famiglia di Nazareth ci indica come via di umanizzazione delle nostre famiglie: la via della reciproca sottomissione, dell’essere gli uni a servizio della vita degli altri. Questo può reggere a tutte le situazioni e può essere la bussola in tutte le vicende.
È questa la terza buona notizia della Santa Famiglia. La riuscita delle nostre famiglia non è legata al fatto che le cose vadano bene, che al loro interno non si vivano difficoltà, fatiche, errori e anche drammi. La riuscita delle nostre famiglie sta nel fatto che ognuno, nelle vicende positive e in quelle negative, impegni la sua vita per promuovere la vita degli altri.

La Famiglia di Nazareth non è una famiglia ideale, non è neppure un ideale da imitare, perché in se stessa unica e inimitabile. E’ però la buona notizia di Dio per noi: ci conferma che la famiglia ideale non c’è, che per tutti c’è una storia complessa da vivere; che non siamo soli, un bimbo è nato nelle nostre famiglie: prendendoci cura di lui, lui si prende cura di noi; possiamo fare di meglio che dominare la vita o pensare che essa ci schiacci: possiamo servirla rimettendoci ogni volta in gioco (sia che succedano cose belle, sia che succedano cose brutte), perché possiamo appoggiarci su una speranza affidabile; ci è indicata la strada del dono di sé reciproco come accoglienza e fecondità del dono di Dio e come via di umanizzazione e di salvezza delle nostre famiglie.

L’augurio di Natale per tutte le nostre famiglie sia dunque proprio questo: accogliamo la buona notizia della famiglia di Nazareth e nella gratitudine viviamo nella speranza le nostre storie familiari.

Buon Natale!

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