“FARE
DESERTO”
L’espressione
è divenuta nota all’interno della spiritualità cattolica ed indica un tempo di
ritiro interiore, una esperienza personale di dialogo con sé stesso e con Dio.
Ne
parla un maestro di spiritualità, Fr. Carlo Carretto, oggi
ultracentenario (è nato nel 1910) Piccolo Fratello di Gesù, autore di molti
saggi religiosi. Ne proponiamo un brano tratto da un suo famoso libro, Lettere
dal deserto del 1967:
“Quando
si parla di deserto all'anima, quando si dice che il deserto deve essere
presente nella tua vita, non devi intendere solo la possibilità di andare nel
Sahara o in altri luoghi desertici. (…) E se tu non potrai andare nel deserto,
devi però "fare il deserto" nella tua vita.
Fare
un po' di deserto, lasciare di tanto in tanto gli uomini, cercare la solitudine
per rifare nel silenzio e nella preghiera prolungata il tessuto della tua
anima, questo è indispensabile, e questo è il significato del
"deserto" nella tua vita spirituale.
Un'ora
al giorno, un giorno al mese, otto giorni all'anno, per un periodo più lungo,
se necessario, devi abbandonare tutto e tutti e ritirarti solo con Dio. Se non
cerchi questo, se non ami questo, non illuderti; non arriverai alla preghiera
contemplativa; perché essere colpevole di non volersi - potendo - isolare per
gustare l'intimità con Dio, è un segno che manca l'elemento primo del rapporto
con l'Onnipotente: l'amore. E senza amore non c'è rivelazione possibile.
Ma
il deserto non è il luogo definitivo; è una tappa. Perché la nostra vocazione è
la contemplazione sulle strade. (…)
Devi
tornare tra gli uomini, devi mescolarti a loro, devi vivere la tua intimità con
Dio nel chiasso della loro città. Sarà più difficile; ma devi farlo. E non ti mancherà,
per questo, la Grazia di Dio. Ogni mattina prenderai la strada, dopo la S.
Messa e la Meditazione, e andrai a lavorare in una bottega, in un cantiere; e
quando tornerai la sera, stanco, come tutti gli uomini poveri costretti a
guadagnarsi il pane, entrerai nella Cappellina della fraternità e resterai
lungamente in adorazione; portando con te, alla preghiera, tutto quel mondo di
sofferenza, di oscurità e sovente di peccato in mezzo al quale hai vissuto
per otto ore, pagando la tua razione di pena e di fatica quotidiana.
Ne parla ampiamente anche Gisbert
Greshake in "Vivere nel mondo" (2009) nel capitolo "Il
deserto ne fa parte..." (p.119-151) da cui sono tratte le seguenti
riflessioni:
Negli
ultimi anni un numero via via crescente di persone ha riconosciuto e
sperimentato il significato e l'importanza del raccoglimento, della
contemplazione e della meditazione. Molti si rendono conto che il semplice
fare, agire e produrre offusca il loro io. Si rendono conto, spaventati, che,
lasciandosi trascinare dalla frenesia e dall'attività, non riflettono più su se
stessi, che perdono la loro "anima" nel rumore e nel trambusto delle
faccende quotidiane. Così, non pochi scoprono di aver bisogno del deserto per
poter vivere in modo umano. (p.125)
Il tuo deserto è nella tua città diceva Carlo Carretto:
Qui, nel deserto del nostro mondo concreto, i
cristiani e le comunità cristiane devono essere "oasi", in cui gli
esseri umani possono respirare e refrigerarsi: luoghi dell'ospitalità e della
comunicazione, dell'ascolto e della consolazione, del soccorso e dell'impegno
solidale e, non da ultimo, luoghi della preghiera intercedente, dove i fratelli
e le sorelle si presentano in rappresentanza di altri davanti a Dio e li
"prendono con sè" nel cammino verso Dio. (p.145)
Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per
un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999,
47-51
«L'esperienza del deserto è stata
per me dominante. Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda
diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non si consuma. Brucia
per se stessa, nel vuoto. L'esperienza del deserto è anche l'ascolto, l'estremo
ascolto» (Edmond Jabès). Forse è questo legame con l'ascolto che fa sì che
nella Bibbia il deserto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia
così importante. Certo, esso è anzitutto un luogo, e un luogo che nell'ebraico
biblico ha diversi nomi: aravah, luogo arido e incolto, che designa
la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba;chorbah,
designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato,
devastato, abitato da rovine dimenticate; jeshimon, luogo selvaggio
e di solitudine, senza piste, senz'acqua; ma soprattutto midbar,
luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non
crescono se non arbusti, rovi e cardi. Il deserto biblico non è quasi mai il
deserto di sabbia, ma è frutto dell'erosione del vento, dell'azione dell'acqua
dovuta alle piogge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni
termiche fra il giorno e la notte.
Refrattario alla presenza umana e
ostile alla vita (Numeri 20,5), il deserto, questo luogo di morte, rappresenta
nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l'iniziazione attraverso cui
la massa di schiavi usciti dall'Egitto diviene il popolo di Dio. È in sostanza
luogo di rinascita. E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non
avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra
segnata da mancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il
cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era
spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi
2,4b5) diviene il giardino apprestato per l'uomo nell'opera creazionale (Genesi
2,815). E la nuova creazione, l'era messianica, non sarà forse un far fiorire
il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà
la steppa, fiorirà come fiore di narciso» (Isaia 35,12). Ma tra prima creazione
e nuova creazione si stende l'opera di creatio continua,
l'intervento salvifico di Dio nella storia. Ed è in quella storia che il
deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar(deserto),
dice il Talmud, Dio si fa sentire come medabber (colui che
parla). È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve la rivelazione
del Nome (Esodo 3,114); è nel deserto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo
incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 1924); è nel deserto che colma di
doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l'acqua dalla roccia); è nel deserto
che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è
nel deserto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa Israele dopo il
tradimento di quest'ultima (Osea 2,16) per rinnovare l'alleanza nuziale...
Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la
fondamentale bipolarità semantica del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre
grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il
cammino. Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra promessa; tempo
lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un'attesa, di una
speranza; cammino faticoso, duro, tra un'uscita da un grembo di schiavitù e
l'ingresso in una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il
deserto dell'esodo! La spazialità arida, monotona, fatta silenzio, del deserto
si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come tentazione.
Valeva la pena l'esodo? Non era meglio rimanere in Egitto? Che salvezza è mai
quella in cui si patiscono la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote
agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il
deserto sia parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta
Dio, e il luogo desertico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore
di ciò che abita il cuore umano. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore
tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per
umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore»
(Deuteronomio 8,2). Il deserto è un'educazione alla conoscenza di sé, e forse
il viaggio intrapreso dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all'invito di
Dio «Va' verso te stesso!» (Genesi 12,1), coglie il senso spirituale del
viaggio nel deserto. Il deserto è il luogo delle ribellioni a Dio, delle
mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,1112; 15,24; 16,2-3.20.27;
17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5). Anche Gesù vivrà il
deserto come noviziato essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il
potere dell'illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in
Gesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11). Fortificato
dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico!
Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci
si installa nel deserto, lo si traversa. Quaranta anni; quaranta giorni: è il
tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù.
Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l'attesa, la
perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E, forse, l'immensità
del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il
deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito
«disertare», ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare
indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio
dell'avventura della libertà. Una libertà che non è situata al termine del
cammino, ma che si vive nel cammino. Però per compiere questo cammino occorre
essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l'essenzialità, è
apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fede:
esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell'uomo un vigilante, un uomo
dall'occhio penetrante. L'uomo del deserto può così riconoscere la presenza di
Dio e denunciare l'idolatria. Giovanni Battista, uomo del deserto per
eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida
chiedendo conversione, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e
discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa
cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia
40,3). Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso
diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo
l'economia di diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come
luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l'amico dello sposo che sta
accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce.
Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il
deserto biblico, e, così esso diviene cifra dell'ambivalenza della vita umana,
dell'esperienza quotidiana del credente, della stessa contraddittoria
esperienza di Dio. Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è
nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio».
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