Una cavalcata attraverso l’ispirazione delle voci italiane mostra come il rapporto con l’Eterno sia spesso stato un nodo cruciale dell’elaborazione poetica contemporanea e della cultura popolare.
Nella grande musica (dalla polifonia medioevale all’Ottocento), Dio è stato celebrato con afflati e trasporti spirituali che sfiorano il sublime (si pensi a Monteverdi, a Palestrina, ad alcune insuperate romanze) ma ne è venuto fuori sempre un Dio astratto, lontano, temuto e adorato, incapace di interagire col mondo, alto e inaccessibile. (…) Il Dio dei cantautori non è immenso, non è irraggiungibile, al contrario è un Dio con cui si parla, si litiga, si chiede perdono a tu per tu. Un Dio che arriva nella canzone d’autore coi grandi autori di fine anni ’60, primi ’70: De André, Guccini, Gaber. Nel ’65 Guccini scrive Dio è morto. Nello stesso anno, con tutt’altro piglio, Celentano interpreta Pregherò , che si può dire il perfetto opposto del buio gucciniano. Pregherò è una canzone immediata, facile e anche furba di fede. «Non puoi odiare Dio perché non puoi vederlo, ma c’è». (…) L’escamotage religioso di Celentano è elementare: io con il mio amore ti farò vedere Dio. Differente anni luce è l’impatto di Guccini con Dio è morto: in lui Dio è metafora del dolore immenso che sconquassa il mondo, della perdita dei valori, delle guerre, della fame, della miseria... Non è quindi Dio in sé ad essere morto, bensì la società tutta che confonde il male con il bene, non conosce più limiti, non ha più nessuna pietà.
A dare voce allo scontento e all’incertezza umana arriva nel ’67 De André (con Spiritual e Si chiamava Gesù) col suo Dio-uomo da una parte e il suo uomo incolpevole dall’altra, temi che tre anni dopo esprimerà in senso più ampio ne La buona novella . L’afflato di Fabrizio è fortemente terreno, è l’uomo il centro morale, il valore primo dell’universo. (…) Ma De André crede in Dio? Parrebbe di no. Dio è invenzione del potere per avere la scusa di comandare in suo nome e giustificare a suo nome ogni bassezza. La splendida Preghiera in gennaio (dedicata al suicidio di Tenco) è una specie di sommario delle certezze di De André, che non sono così «laiche». Per lui non esiste l’inferno, Dio accoglie chi ha sofferto (anche i peccatori) e, fondamentale, Dio ascolta gli uomini per aiutare gli uomini. Non solo Preghiera in gennaio è un capolavoro, ma mi pare nel suo sfondo eretico un atto di fede ancor più forte di mille lodi al creatore. È evidente che De André fosse affascinato dal sospetto dell’esistenza di Dio, ma lo immaginò uguale identico al suo sentire, senza stare a seguire bibbie e vangeli. E infatti nemmeno i Vangeli canonici seguì. Nella Buona novella a De André non interessa celebrare la venuta di Dio sulla terra. A lui preme dimostrare come un uomo straordinario abbia insegnato al mondo la pietà, non il perdono. Si perdona infatti solo chi ha colpa e se ne pente, ma nell’universo di Fabrizio, l’uomo non è responsabile del male, o ci nasce in mezzo o se ne difende, come nel sublime Testamento di Tito. Contestuale anche se fortemente politico, caustico, graffiante è il Gaber dell’80 (Io se fossi Dio), che stila un panorama definitivo delle bassezze di questo mondo, augurandosi l’avvento di un Dio vendicativo e punitore. Gaber rivolgendosi direttamente al creatore aveva già scritto nel ’70 una bellissima 'preghiera', il cui tema (guardar giù anche tra gli scontenti, i disgraziati, gli operai) riprenderà De André in Smisurata preghiera e si era divertito (e qui l’ironia è tutto) in una bizzarra Madonnina dei dolori del ’72 fuori dalla norma perché ai grandi problemi metafisici oppone le sue minuscole fastidiosissime disgrazie di uomo comune. Io se fossi Dio è una valanga di citazioni, un torrente di invettive, di gridi liberatori, di offese, un mix alla Savonarola, insomma. Ovviamente anche qui Dio è una scusante, una maschera, ma a differenza di De André, Gaber a Dio ci crede eccome, e sotto sotto spera che prima o poi intervenga per punire questo letamaio. Tra le righe si evince che forse è così che deve andare: l’altro Dio quello vero, permette tutto quello che lui non permetterebbe ma avrà bene le sue ragioni anche se inarrivabili e oscure. Negli anni ’70 non possiamo fare a meno di citare l’altra storia del mondo, così minuziosamente complessa, fascinosamente darwiniana che ci presenta Lucio Dalla in Com’è profondo il mare. Il tema di fondo è la storia del pensiero libero umano soffocato dall’ignoranza e dalla prevaricazione evidenti nelle ultime due strofe dove chi comanda, non potendo eliminare il male (metafora del progresso popolare) lo brucia lo uccide lo umilia. Non erano tempi quelli di salamelecchi e sviolinate, oggi a distanza di trent’anni Dalla, come molti d’altronde, si è chiamato fuori, ha sepolto nel passato la sua vena contestatrice e provocatoria e si è trovato a consacrare e legittimare la presenza e le ragioni di Dio nel mondo (come nel brano Inri). D’altronde questo rendez-vous con la fede pare che oggi sia una tappa quasi obbligatoria per molti cantautori, da Baglioni a Jannacci a me stesso, quasi che «tirare i remi in barca» abbia bisogno di una giustificazione, di un alibi che faccia da solido contrappeso. Bisogna considerare che una gran parte di cantautori crede in Dio ma non sopporta l’istituzione terrena che lo rappresenta.
E se Bennato se la prende con il papa cattolico (Affacciati affacciati, contro Paolo VI), Franco Battiato (’79) punta in ben altra direzione. A un suo immaginifico e totale spiritualismo che va oltre la riduttività e il particolarismo culturale appunto di qualsiasi rivelazione. Gli piace giocare con un universo non contenibile nel ristretto cerchio della carità cristiana, ma individuabile e decifrabile (in un mare di simboli) in un contesto ben più ampio dove egli si muove e si esplica tra misticismi orientali e nozioni sufi, con vaghe parentele nel mondo musulmano e arabo in genere. Agli inizi degli anni ’80 si torna per così dire alla tradizione con Renato Zero e Vasco Rossi, appena prima del grande silenzio che durerà fino agli anni ’90. Vasco in Portatemi Dio (dell’83) è già uguale a se stesso coerente con il suo personaggio provocatorio e blasfemo, crudo, granitico, cialtrone e coraggioso. E siccome è Vasco Rossi fa quel che nessuno aveva mai tentato, se la prende direttamente con Dio quasi che costui fosse un divertito torturatore delle sue creature, intimandogli senza pudori di presentarsi in giudizio e attribuendosi il potere di giudicarlo. Vasco non se la prende con Dio per le ingiustizie e i dolori dell’umanità, bensì solo per le colpe che il Signore avrebbe nei suoi confronti («Gli devo raccontare la vita che ho vissuto e che non ho capito a cosa sia servito») che è poi una tacita scusante ai suoi eccessi. Zero (che canta Potrebbe essere Dio , si badi bene al condizionale) ritaglia un brano intenso e profondo senza andare a cercare metafore alate e volando basso e convincente con esempi di tutti i giorni. L’assunto in fondo è lo stesso in cui ci siamo più volte imbattuti, ovvero l’erronea propensione degli esseri umani a mitizzare piaceri fuggevoli, a mercificarsi, a ritenere indispensabili e imperdibili oggetti di tutti i tipi, false immagini di illusoria felicità. Gli anni ’80 sono muti con Dio, a meno che non adombri qualcosa quel Ci vuole un’altra vita di Battiato del 1986. I motivi di questo silenzio sono ovviamente culturali. Sono anni in cui parecchi cantautori, anche storici, cambiano faccia o si rivolgono ad altro; molti di nuovi si affacciano sulla scena, ma non hanno ancora né la voglia né il carisma per misurarsi in tal senso. Negli anni Novanta, invece, parlar di Dio sarà sempre più frequente. Meglio se in dialogo a due con il Creatore. Negli anni ’90 e ancor più nei 2000 si invertirà la percentuale tra invettive e preghiere a favore di queste ultime. Una delle più belle pagine di ricerca lessicale e letteraria resta sicuramente Qui Dio non c’è di Baglioni da Oltre del ’90. Vi si affronta mancanza (e il bisogno) della fede. Nasce un filone nuovo, al quale appartengono anche brani 'minori' come Dio c’è del ’92 di Mia Martini e il suo esatto contrario Dio non c’è di Marco Masini del ’93. Il 1993 è anche l’anno di un’intensa Ave Maria, portata al Festival di Sanremo da Renato Zero. Da rilevare che quando la Madonna appare in canzone fa sempre figure superlative: la sua immagine è accompagnata da un senso di rispetto generale quasi fosse un’icona intoccabile, da non mettere in discussione, al contrario di Dio. Tutto ciò fa parte di un transfert spiegabilissimo. La Madonna non comanda e non impone, è l’eterna madre e quindi la dolcezza del mondo e nel mondo.
Su questa lunghezza d’onda troviamo la Madre dolcissima di Zucchero che è una sintesi dedotta e modernizzata dalla versione canonica degli Aquero. Nel 1994 resta da segnalare una inusuale incursione di Gino Paoli nell’ambito religioso. Già dal titolo Il Dio distratto si desume l’argomento: le cose non vanno bene perché Dio non è molto attento. Qui Dio non è cattivo o sadico, e non è neppure uno che non deve spiegarci niente perché lui sa e noi no. Dio è solo distratto, il che ci riconduce ad un Paoli illuminista e voltairiano, Dio è il grande orologiaio. Al dialogo diretto col Supremo appartengono Un giorno un sogno di Antonacci e Hai un momento Dio di Ligabue. Il dialogo con Dio diretto a botta e risposta è cosa impervia e rischiosa. L’ escamotage per renderla credibile sta nell’abbassare Dio a livello umano, farlo parlare e agire come un uomo, altrimenti tutto diventa grottesco. Il brano di Antonacci parte bene e poi si sfilaccia, finisce cioè nello stereotipo della donna che non torna e si deprezza ancor più con due versi finali a tarallucci e vino. Ligabue, nella sua semplicità, mi sembra invece più consistente. L’approccio all’Eterno è più immediato e consequenziale, molto discreto, riverente e la domanda non è poi di quelle che ci vogliono anni e pagine per rispondere: «Io sono un bravo ragazzo, vuoi incontrarmi almeno per un attimo?».
Su questa lunghezza d’onda troviamo la Madre dolcissima di Zucchero che è una sintesi dedotta e modernizzata dalla versione canonica degli Aquero. Nel 1994 resta da segnalare una inusuale incursione di Gino Paoli nell’ambito religioso. Già dal titolo Il Dio distratto si desume l’argomento: le cose non vanno bene perché Dio non è molto attento. Qui Dio non è cattivo o sadico, e non è neppure uno che non deve spiegarci niente perché lui sa e noi no. Dio è solo distratto, il che ci riconduce ad un Paoli illuminista e voltairiano, Dio è il grande orologiaio. Al dialogo diretto col Supremo appartengono Un giorno un sogno di Antonacci e Hai un momento Dio di Ligabue. Il dialogo con Dio diretto a botta e risposta è cosa impervia e rischiosa. L’ escamotage per renderla credibile sta nell’abbassare Dio a livello umano, farlo parlare e agire come un uomo, altrimenti tutto diventa grottesco. Il brano di Antonacci parte bene e poi si sfilaccia, finisce cioè nello stereotipo della donna che non torna e si deprezza ancor più con due versi finali a tarallucci e vino. Ligabue, nella sua semplicità, mi sembra invece più consistente. L’approccio all’Eterno è più immediato e consequenziale, molto discreto, riverente e la domanda non è poi di quelle che ci vogliono anni e pagine per rispondere: «Io sono un bravo ragazzo, vuoi incontrarmi almeno per un attimo?».
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