E poi l’11 ottobre del 1962 cominciò la grande svolta
Gian Franco Svidercoschi and
Aleteia
Era la fine degli anni Ottanta, al Sinodo i vescovi discutevano dei “christifideles laici”, e forse per questo il parroco mi aveva chiesto di parlare a un gruppo di giovani-adulti che si preparavano alla Cresima. A un certo punto, per sottolineare la responsabilità che essi si sarebbero assunti ricevendo quel sacramento, mi riferii al nuovo modo di partecipazione alla Messa: una partecipazione più attiva, piena, comunitaria. “
Vedete? Ora voi pregate in italiano, ascoltate brani della S. Scrittura. Il sacerdote celebra di fronte a voi, e di fronte a voi consacra il pane e il vino…”.
Mi guardavano come se fossi un alieno, e con un’aria quasi divertita. Non capivo, e non capiva neanche l’amico parroco. Ci mettemmo un bel po’ a scoprirlo. Quei giovani non sapevano nulla del Concilio, della riforma liturgica.
La prima volta che erano entrati in chiesa, la Messa era già così. Non avevano mai visto quella di prima. Quando il prete, protagonista assoluto, celebrava in latino con le spalle all’assemblea.
E l’assemblea restava muta, passiva, salvo rispondere con un Amen alle preghiere che il sacerdote rivolgeva a un Dio, con il quale lui soltanto sembrava essere in confidenza. E intanto le vecchiette, noncuranti di tutto, recitavano per conto loro il rosario.
Ma non era solo questa, la Chiesa, prima del Concilio Vaticano II. Era una Chiesa che si portava ancora dietro i “residui” di un passato difficile, tormentato.
La Chiesa della cosiddetta “epoca costantiniana”, e cioè di quando i Pontefici erano diventati detentori di un potere temporale.
La Chiesa che, della Controriforma, aveva finito con l’accentuarne un certo spirito negativo, difensivo, e soprattutto gli aspetti giuridici, clericali. La Chiesa che dall’inizio del XX secolo, in reazione alle minacce da fuori e ai pericoli interni, si era caratterizzata per
una eccessiva uniformità sul piano del governo, su quello liturgico e pastorale.