mercoledì 17 aprile 2013

Enzo Bianchi e la comunità monastica di Bose


Enzo Bianchi, una vita da priore
di Riccardo Barlaam , 27.3.11

La campana a Bose suona alle 5.30. Prima un tocco, sospeso nel vuoto. E poi altri, con le campane che diventano due, a rincorrersi, veloci. È tempo di svegliarsi. I monaci svegli lo sono già, da un'ora. Accendono la lampada alle 4.30 e cominciano la giornata con una lectio divina: leggono, meditano, pregano, scrivono, studiano, ridono o piangono nel segreto delle loro celle.
Nei loro abiti bianchi i monaci siedono nella navata sinistra della chiesa. Le monache con gli stessi abiti e il cappuccio sul capo siedono dall'altro lato. Sono un'ottantina. Al centro c'è un leggio con una bibbia aperta. In fondo il crocifisso e il tabernacolo. Sopra, dalle finestre, si intravedono nel buio i contorni innevati dei monti del biellese.
Bose è un gruppo di case di campagna, un tempo abbandonate, sulle colline piemontesi, tra campi chiazzati, filari di larici, betulle, un bosco di abeti e di cipressi.
Alle 8 del mattino, dopo la fine di quello che qui chiamano il Grande silenzio – inizia la sera prima alle 20 dopo la cena – ognuno comincia la propria attività. Tutti hanno un lavoro da svolgere. E lo fanno con cura, con un ordine che sembra prestabilito. Nessuna cosa viene imposta. C'è un senso di libertà e di quiete. «
Se vai in capo al mondo, trovi le tracce di Dio. Se scendi nel tuo profondo, trovi lo stesso Dio» è scritto nel foglio del monastero che accoglie gli ospiti.
Enzo Bianchi, 68 anni, per tutti qui "il priore", ha uno sguardo profondo, la barba lunga bianca su un corpo di quercia. «
Sono un figlio della cultura contadina» del Monferrato e delle Langhe. Il suo ultimo libro Ogni cosa alla sua stagione (Einaudi, 130 pagine 17 euro) ha venduto in poche settimane oltre 130mila copie. Parla di ricordi, di terra, di spiritualità nascosta nelle persone semplici, di vecchiaia, di vita monastica e di ascesi. Successo editoriale curioso, in un paese come l'Italia dove si legge poco e il volume in cima alle classifiche di vendita è un manuale di ricette di cucina. «Ha stupito anche me questo successo. C'è un forte bisogno di profondità, di cose vere».
Il suo rapporto con la scrittura è strettamente legato alla vita monastica. «La mia scrittura nasce dal silenzio. Ho una cella nel bosco dove regna un grande silenzio e questo mi aiuta molto a dosare le parole, a discernere e a capire... Se non avessi ore e ore di silenzio sarei incapace di parlare e di scrivere».

Enzo Bianchi: vita fraterna
antidoto a una Chiesa depressadi VITTORIA PRISCIANDARO, Jesus, settembre 2011

Enzo Bianchi, il monaco che tanti non credenti tengono da conto con rispetto, che preti e laici stimano, qualche monsignore guarda ancora con sospetto, gli editori corteggiano e gli amici apprezzano per la simpatia e la raffinatezza dell'arte culinaria («la cucina è modo di dare qualcosa di sé agli altri»), è diventato in questi decenni una delle rare voci cattoliche "significative" del panorama italiano. I talk show farebbero carte false per ospitarlo nei loro studi, le richieste di interviste e conferenze si sprecano. Enzo però cerca di centellinare la sua presenza: «Da qualche anno ho deciso di fare un massimo di due interventi in televisione all'anno. Ma vorrei essere ancora più nascosto. Per strada mi hanno fermato dicendo: "L'ho vista, lei è padre Bose". Insomma, in televisione ho paura che conti di più la mia faccia che quello che dico. Preferisco la radio e la carta stampata. A parte qualche appuntamento cui sono fedele, come Jesus, qualche intervento su La Stampa, e in Francia Panorama, cerco di non essere troppo presente. Ho paura del "personaggio". Se avessi voluto avere "successo", bastava che accettassi di essere ordinato sacedote e avrei potuto far carriera ecclesiastica. Quando ho deciso di essere un semplice monaco, ho scelto di non fare carriera...».  Era partito da solo, poco più di quarant'anni fa. Oggi si ritrova una comunità di 80 monaci, che ha dato vita ad altre fondazioni ed è indubbiamente considerata un punto di riferimento nella Chiesa italiana e all'estero. Come vive questa situazione? «La reazione iniziale, quando ci penso, è di stupore, quasi di sorpresa. Ma devo anche dire che mi sento fortunato, perché si è realizzato quello che intravedevo già con chiarezza nella mia mente più di quarant'anni fa: una comunità monastica che avesse al cuore la Parola di Dio in tutto, nella liturgia, nella nostra vita con la lectio divina, nella proposta agli ospiti. Così come oggi è effettivamente.  La sorpresa mi viene invece dal fatto che Bose è diventata una realtà molto più grande di quello che pensavo. Pregavo sovente, soprattutto tra il 1966 e il 1968, che il Signore mi concedesse qualche fratello: "Sei-sette sono più che sufficienti", pensavo. Usavo una formula presa in prestito da dom Colombàs, un monaco che aveva scritto un piccolo opuscolo intitolato Per un monastero semplice e attuale. Nella mia ingenuità pensavo a un monastero semplice, che fosse fedele nei contenuti alla tradizione e che rispondesse alla novità del Concilio Vaticano II. Era la nostra vita come la facciamo ora, ma non ne supponevo la dimensione, oggi assai più grande di quella che pensavo e che desideravo. Da un lato c'è dunque una conferma dell'intuizione iniziale, d'altro lato la sorpresa, ma anche lo spavento. A volte nel mio intimo quasi non riconosco la Comunità e mi domando se in futuro riusciremo a rimanere fedeli ad alcune cose che abbiamo scelto e che finora sono confermate: la vita semplice fra di noi, l'accoglienza semplice con gli ospiti, una vita di lavoro che tuttora facciamo... Conosco abbastanza la storia del monachesimo per nutrire queste paure».

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