martedì 2 aprile 2013

Tagore, una voce in mano a Dio


Gianfranco Ravasi, Il Sole 24ore, 1.5.11

«Ho ricevuto il mio invito alla festa di questo mondo; la mia vita è stata benedetta. I miei occhi hanno veduto, le mie orecchie hanno ascoltato. In questa festa dovevo solo suonare il mio strumento musicale: ho eseguito come meglio potevo la parte che mi era stata assegnata. Ora ti chiedo, Signore: è venuto il momento di entrare e di vedere il tuo volto?». Era ormai al tramonto della vita quando Rabindranath Tagore scriveva questa sorta di testamento, convinto però che la morte non era una soglia spalancata sull'abisso del nulla, ma un portale aperto sull'infinito e sull'eterno, per un incontro ultimo e definitivo con Dio: «Là le vecchie parole muoiono e nuove melodie sgorgano dal cuore, i vecchi sentieri si perdono e appare un nuovo paese meraviglioso». Il 7 agosto 1941 nella cittadella dello spirito da lui fondata a Santiniketan in Bengala, moriva questo celebre poeta e guru o maestro spirituale, che era nato a Calcutta, il 6 maggio 1861.
Personaggio popolarissimo anche in Occidente: in verità, è quasi impossibile, valicare l'oceano testuale che ha lasciato dietro di sé, una distesa di 150.000 versi, 300.000 righe di prosa, 3.000 canti musicali, senza contare articoli e discorsi. Infatti, egli ha scritto romanzi e racconti, migliaia di poesie, drammi e testi teatrali, saggi di filosofia e di teologia e persino un'autobiografia.
Discepolo di una comunità teistica per l'adorazione di Dio (Brahma-Samaj), fondò a sua volta una corrente mistico-sociale, fu riformatore agrario, originale pedagogista, combattente politico, creatore di università, edificatore di ponti ideali tra
Occidente e Oriente, messaggero instancabile in viaggio in tutto il mondo. Non è neppure facile raccogliere spunti tematici dai suoi versi perché essi sono una efflorescenza inesauribile di simboli, immagini, intuizioni, emozioni; talora egli s'avvia sui percorsi d'altura della contemplazione e dell'astrazione, altre volte scende nelle piazze impolverate della tradizione popolare; non di rado cede alla tentazione dell'erudizione e della maniera, spesso opta invece per la trasparenza luminosa dell'essenzialità e della folgorazione mistica.
«Dio si stanca dei grandi regni, mai dei piccoli fiori», scriveva, evocando le teofanie silenziose: «Oggi lungo i sentieri nascosti, / attraverso l'ombrosa selva / invisibile a tutti, / silenzioso come la notte sei venuto, Signore... », così cantava in una delle sue opere più celebri, Gitanjali del 1913-14 (tradotta in italiano come Canti di offerta, San Paolo Edizioni 1993). Purtroppo, però, l'uomo «affonda nelle sabbie mobili della noia... / intristito in pareti strette, senza cielo aperto... / perso nelle molte strade / tra grattacieli di inutili cose». E invece dovrebbe abbandonarsi all'abbraccio divino, come egli invoca: «Lasciami solo quel poco con cui possa chiamarti il mio tutto. / Lasciami solo quel poco con cui possa sentirti in ogni luogo / e offrirti il mio amore in ogni momento». E ancora la temperie mistica di questa «piccola canna di flauto» suonata da Dio – come ama definirsi Tagore, che era anche musicista – affiora in un'altra confessione di lode: «Hai fatto prigioniero il mio cuore / nelle infinite reti / del tuo canto, o mio Signore».
Eppure la sua religiosità non si astrae dalla quotidianità che gronda di sofferenze e di ingiustizie. Citatissima è la preghiera, sempre del suo capolavoro Gitanjali, che suona così nel suo centro tematico: «
Dammi la forza, o Signore, di non rinnegare mai il povero, / di non piegare le ginocchia di fronte al l'insolenza dei potenti». Esemplare è la parabola dell'aspirante asceta che decide di lasciare la sua famiglia per l'eremo e che si chiede: «Chi mi trattenne a lungo nell'illusione della vita familiare?». Dio gli sussurra: Io! «Ma l'uomo aveva le orecchie turate. Col suo bimbo addormentato al seno, la moglie dormiva placidamente. L'uomo disse: Chi siete voi che mi ingannate coi sentimenti? Una voce misteriosa mormorò: Essi sono Dio! Ma egli non intese. Allora Dio comandò: Fermati, sciocco, non abbandonare la tua casa! Ma l'aspirante asceta ancora non udì. Dio, allora, tristemente sospirando disse: Perché il mio servo mi abbandona per andare in cerca di me?».
Scriveva, infatti, Tagore: «
Sognavo che la vita fosse gioia. Mi svegliai: la vita è servizio. Ho, allora, servito e nel servizio ho trovato la gioia». L'incontro con l'altro è fondamentale per ritrovare se stessi: «Il nostro vero valore è in noi stessi, ma è sparso in tutte le persone del mondo. Dobbiamo camminare per unirci, altrimenti non ritroviamo noi stessi». Questa "incarnazione" della fede ha fatto sì che il poeta si avvicinasse a Cristo, non di rado evocato nelle sue pagine al punto tale che un suo studioso, il missionario saveriano Marino Rigon ha raccolto tutte queste testimonianze cristologiche in un volume Il Cristo secondo Tagore (Paoline 1993). Scriveva: «Dal giorno che Cristo offrì la sua vita immortale nel calice della morte per i disprezzati e i dimenticati sono passate centinaia d'anni. Eppure egli oggi scende ancora dalle dimore immortali a quelle mortali. Vede l'uomo fustigato dal peccato, colpito da frecce e lance. S'affilano lame, nuove e più tremende armi di morte sono pronte per essere impugnate dalle mani dell'uomo omicida. Cristo si stringe le mani al petto: ha capito che non è finito il momento perenne della sua morte».
Ecco la sua riflessione sull'Incarnazione: «Cristo ha sopportato tutte le ingiurie dalle mani dell'uomo e le sue sofferenze risuonano alla radice del peccato umano. Il Dio degli uomini è dentro l'uomo, opporsi a lui è peccato, unirsi a lui è cancellare il peccato. Quel grande Uomo, offrendo continuamente la sua vita, ha dato vita al piccolo uomo». Siamo partiti con un suo ideale testamento alle soglie della morte, concludiamo con una replica tematica desunta da un'altra sua celebre raccolta, Il Giardiniere (1913): «Pace, cuor mio, che il tempo del l'addio sia dolce. / Che non sia morte ma pienezza. / Che l'amore si sciolga nel ricordo e il dolore in canzone... / Fermati un istante, o Bellissima Fine, / e in silenzio dimmi le tue ultime parole».

Rabindranath Tagore nacque a Calcutta il 6 maggio 1861 e morì a Santiniketan il
7 agosto 1941. Personalità poliedrica, fu scrittore, poeta, drammaturgo e filosofo. Figlio di un ricco Bramino, studiò in Inghilterra per poi tornare in India e dedicarsi alle arti e alle sue terre. Con le sue opere cercò di fare da ponte tra la cultura orientale e quella occidentale. Nel 1913 l'accademia di Svezia di assegnò il premio Nobel per la letteratura. Tagore è stato tradotto praticamente in tutte le lingue europee. Oltre alle arti, si impegnò a costruire strade, ospedali e anche una scuola, che oggi è università.
«Cristo ha sopportato tutte le ingiurie dalle mani dell'uomo e le sue sofferenze risuonano alla radice del peccato umano. Il Dio degli uomini è dentro l'uomo, opporsi a lui è peccato, unirsi a lui è cancellare il peccato. Quel grande Uomo, offrendo continuamente la sua vita, ha dato vita al piccolo uomo».
Siamo partiti con un suo ideale testamento alle soglie della morte, concludiamo con una replica tematica desunta da un'altra sua celebre raccolta, Il Giardiniere (1913): «Pace, cuor mio, che il tempo del l'addio sia dolce. / Che non sia morte ma pienezza. / Che l'amore si sciolga nel ricordo e il dolore in canzone... / Fermati un istante, o Bellissima Fine, / e in silenzio dimmi le tue ultime parole».
TAGORE

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