Perché la Chiesa è così intransigente verso qualunque forma di aborto? Qualche volta la vittima più sofferente è proprio la donna che chiede di abortire. Perché infierire ancora su di lei con una condanna?
E’ una domanda raccolta dal settimanale Famiglia Cristiana, una delle tante che vengono poste alla Chiesa criticata per la sua condanna così ferma e forte contro l’aborto tanto da scomunicare chi lo procura. La risposta è affidata al teologo Giordano Muraro che mette prima in chiaro il significato della parola:
“Possiamo essere d’accordo che l’aborto è la soppressione di un essere vivente e vitale. Vivente, perché le cellule che formano lo zigote e l’embrione sono realtà vive, e vitale perché sono animate da una energia viva, aperta a un ulteriore sviluppo”.
La questione successiva è quella nodale: “Ma si può affermare che appartiene all’umano?"
Certamente, perché il suo Dna è specificamente umano, distinto da ogni altro Dna. Si può dire che è una persona umana, per cui la sua soppressione è la soppressione di una persona? Qui i pareri si diversificano. Alcuni sostengono che è già un essere umano, altri che è semplicemente un progetto di uomo. E c’è una bella differenza tra la distruzione di un progetto (anche se è sempre spiacevole, specialmente se è un progetto importante), e la realtà rappresentata dal progetto. Una cosa è distruggere il progetto di un palazzo, altra cosa è distruggere un palazzo.
Qui si equivoca sul termine progetto. Se io lascio il progetto di un palazzo nel cassetto di un architetto, dopo nove mesi non trovo un palazzo, ma continuo a trovare delle linee sulla carta e null’altro. Ma se io lascio la realtà concepita nel seno della madre e non intervengo per distruggerla, dopo nove mesi trovo un bambino vivente con una grande voglia di vivere.
Per questo devo concludere che l’aborto distrugge non solo la realtà che in quel momento esiste, ma distrugge anche il potenziale di vita che già esiste in quella realtà e che la muove a essere prima un embrione, poi un feto, poi un nato, poi un bimbo, poi un adolescente, poi un uomo maturo che a sua volta è capace di iniziare e portare a termine delle vite umane”.
Per questo devo concludere che l’aborto distrugge non solo la realtà che in quel momento esiste, ma distrugge anche il potenziale di vita che già esiste in quella realtà e che la muove a essere prima un embrione, poi un feto, poi un nato, poi un bimbo, poi un adolescente, poi un uomo maturo che a sua volta è capace di iniziare e portare a termine delle vite umane”.
L’embrione è dunque un essere umano a tutti gli effetti in quanto dotato di un proprio patrimonio genetico diverso da quello dei genitori e di un sistema nervoso centrale, ritenuto sede della coscienza. Lo sviluppo dell'embrione/feto è uno sviluppo continuo e graduale nel quale non c'è alcuna soluzione di continuità, nemmeno nel momento della nascita. Pertanto il feto è una persona umana avente gli stessi diritti della madre. Né la legge né il singolo ha dunque il diritto di decidere sulla vita della nuova creatura. Quest'azione è da considerarsi quindi alla stregua di un omicidio, e quindi una pratica disumana da vietare. Ovviamente la questione è relativa all’aborto procurato (o di Interruzione Volontaria della Gravidanza, IVG) e non a quello spontaneo.
Come possiamo giustificare il fatto, sancito dalla legge (in Italia la n.194 del 1978) che è possibile abortire entro 3 mesi dalla fecondazione (mentre tra il 4° e il 5° mese è possibile abortire solo per motivi di natura terapeutica)? Perché l’embrione sarebbe una persona da difendere solo dopo il 90° giorno? Cosa scatta in quel momento che prima non sia presente? Si parla di mancanza dell' "autonomia vitale" nel feto, considerazioni portate avanti da molti sostenitori dell'aborto. Ma lo stesso bambino appena nato muore se abbandonato a sé stesso, vecchi e malati terminali muoiono pure facilmente quando non ricevono attenzione adeguata.
Torniamo alle argomentazioni di Giordano Muraro: “C’è un secondo problema. Cosa produce (l’aborto) nella vita della madre?
La risposta non è semplice, perché dipende dalla sensibilità umana della madre stessa e dalle circostanze che sta vivendo. Troviamo donne che usano l’aborto come un contraccettivo e non sembra che soffrano né psicologicamente, né moralmente. Altre invece decidono di abortire, premute da difficoltà che ritengono insormontabili, ma soffrono questa decisione. Atre ancora sono incerte e cercano un appoggio e la forza per non arrivare all’aborto. Per questo l’aiuto che si può dare alle donne incinte con i ragionamenti e con gli interventi concreti sono talora determinanti per la decisione che esse prendono”.
Ed è in questo caso da rilevare il fallimento della legge che dovrebbe, nelle intenzioni, garantire il diritto alla vita e stabilisce l’istituzione di consultori con il compito di offrire possibili soluzioni agli eventuali problemi sociali, familiari o economici che hanno portato alla decisione di abortire. La legge prevede inoltre che lo Stato promuova la prevenzione dell’aborto attraverso campagne informative sulla contraccezione. Tutto ciò è stato in gran parte disatteso. Così come è negli effetti sconosciuta la possibilità della madre di non riconoscere il neonato e di affidarlo così a una delle tante coppie che ne facciano richiesta e ne siano state considerate idonee.
“C’è un terzo problema” conclude Muraro “la reazione della società di fronte all’aborto. Sembra logico pensare che la società debba difendere quelli che non hanno voce per difendersi, e che debba seguire il principio di precauzione, il quale afferma che in caso di dubbio è doveroso astenersi dall’azione della quale si dubita che possa essere dannosa.
La società italiana e tante altre società danno invece la possibilità di abortire in casi precisati dalla legge. Il fatto che la legge tolleri o autorizzi l’aborto non significa che l’aborto non sia un male; significa solo che lo Stato non lo punisce o addirittura lo autorizza per evitare mali peggiori.
Però, il fatto che la donna non lo avverta come un male come pure il fatto che la società lo tolleri o lo autorizzi con una legge, non toglie all’aborto la sua verità: la soppressione di un essere umano vivente al quale si impedisce di vivere e di svilupparsi nella linea di quello che è, fino a diventare una persona umana adulta”.
“C’è un terzo problema” conclude Muraro “la reazione della società di fronte all’aborto. Sembra logico pensare che la società debba difendere quelli che non hanno voce per difendersi, e che debba seguire il principio di precauzione, il quale afferma che in caso di dubbio è doveroso astenersi dall’azione della quale si dubita che possa essere dannosa.
La società italiana e tante altre società danno invece la possibilità di abortire in casi precisati dalla legge. Il fatto che la legge tolleri o autorizzi l’aborto non significa che l’aborto non sia un male; significa solo che lo Stato non lo punisce o addirittura lo autorizza per evitare mali peggiori.
Però, il fatto che la donna non lo avverta come un male come pure il fatto che la società lo tolleri o lo autorizzi con una legge, non toglie all’aborto la sua verità: la soppressione di un essere umano vivente al quale si impedisce di vivere e di svilupparsi nella linea di quello che è, fino a diventare una persona umana adulta”.
Per questo la Chiesa arriva a scomunicare chi procura l’aborto (compresi i medici invitati a fare obiezione di coscienza): mette così in evidenza la gravità del crimine commesso, il danno irreparabile causato all'innocente ucciso, ai suoi genitori e a tutta la società.
E in caso di malformazioni? “Praticare l’aborto quando il bambino presenta un handicap è comunque un grave delitto, anche quando deriva dall’intenzione di risparmiare della sofferenza a questa persona”. (Da: Youcat, n.384)
Vale a proposito ascoltare il racconto del grande cantante cieco Andrea Bocelli:
“I dottori le misero del ghiaccio sulla pancia e poi, quando il trattamento era finito, le dissero che avrebbe fatto meglio ad abortire. Che era la soluzione migliore, perché il bambino sarebbe venuto al mondo con qualche forma di disabilità. Ma la giovane e coraggiosa sposa decise di non interrompere la gravidanza e il bambino nacque. Quella signora era mia madre, e il bambino ero io”.
IL FILM: BELLA
Consigliabile/poetico
Diretto nel 2006 dal regista messicano Alejandro Gomez Monteverde, interpretato da un altro messicano, Eduardo Verástegui già eroe delle soap-opera latinoamericane e al centro di una straordinaria storia di conversione adulta, Bella è certamente una storia d’amore fra il lui e la lei di turno, ma c’è anche un pizzico di più.
Dal Messico, il protagonista José, fuoriclasse del pallone con un futuro tutto dietro le spalle, arriva negli Stati Uniti e s’impiega come cuoco in un ristorante della brulicante Manhattan. Pure Nina lavora lì come cameriera. Quando viene licenziata per l’ennesimo ritardo, José si propone di aiutarla, visto tra l’altro che il padrone che l’ha cacciata è suo fratello. Nina confida a José di essere incinta. E di voler abortire, visto che non si sente pronta alla maternità. Il ragazzo le rivela allora di essere stato due anni in galera per guida pericolosa dopo avere ucciso sul colpo, in un incidente, una bimba. Una volta uscito, ha cercato più volte di mettersi in contatto con la madre della piccola vittima, ma la donna non lo ha mai perdonato.
Per il mondo pro-life la pellicola è diventata subito una bandiera giacché offre «un messaggio positivo a favore della vita» e tratta di quei «temi, perdono di sé, riconciliazione e redenzione, che dovrebbero risuonare nel profondo».
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