Tra tutti i sacramenti della Chiesa, la riconciliazione o confessione è forse quello che ha subito più trasformazioni lungo i secoli. E questo non è senza motivo. Da una parte vi è la fede della chiesa che crede e insegna di aver avuto il potere di perdonare i peccati, dall’altra il peccatore concreto con la sua storia, quindi non semplicemente una dottrina da applicare, ma una persona da accogliere, una prassi da inventare.
Nel Nuovo Testamento la prima, vera e più importante, e per alcuni l’unica, remissione dei peccati è il Battesimo: «pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per il perdono dei vostri peccati» (Atti 2,38) dice l’apostolo Pietro nel suo discorso la mattina di pentecoste. Nella professione di fede che recitiamo nella messa domenicale, diciamo di credere «in un solo battesimo per la remissione dei peccati». È nel Battesimo, dunque, che muore l’uomo vecchio con i suoi peccati e le sue concupiscenze e nasce l’uomo nuovo creato secondo Dio.
Il Battesimo, però, non va inteso in senso quasi magico che assicuri la salvezza senza un concreto impegno del credente reso possibile dal Battesimo.
La prima comunità cristiana ha sperimentato subito la propria fragilità e la necessità di un perdono oltre il battesimo. Il ruolo della chiesa è ben espresso dal testo di Matteo 18,15-18: «se tuo fratello commette una colpa, va e ammoniscilo fra te e lui...» L’amara esperienza della vita, soprattutto durante le persecuzioni che durano a fasi alterne quasi tre secoli, mette davanti a necessità nuove. Non mancano, infatti, cristiani che rinnegano la fede, anzi in alcuni momenti sono anche molti, come nelle persecuzioni di Decio e di Diocleziano, e che poi pentiti desiderano ritornare nella comunità cristiana.
Cosa fare? Abbandonarli a se stessi e alla propria disperazione o riaccoglierli come Colui che riaccolse il figlio prodigo, che andò in cerca della pecora smarrita, che è venuto a chiamare i peccatori e non i giusti, che ordinò di perdonare fino a settanta volte sette, che diede agli Apostoli il mandato di rimettere i peccati…?
Più che il momento giuridico della istituzione di questo sacramento è importante riflettere e imparare dal modo di essere e di fare del Maestro e Signore, il vero Sacramento della nostra riconciliazione con il Padre. Dall’iniziale rigore per cui sembra che il perdono sia possibile solo una seconda volta (come uno è il battesimo, una è la penitenza), si passa ad elaborare un cammino penitenziale più possibilista, ma anche complesso.
Possiamo riassumere in tre momenti la celebrazione della penitenza e del perdono: la richiesta di perdono fatta al vescovo e l’ingresso nello stato dei Penitenti; un tempo di penitenza che può durare da pochi mesi a molti anni, o addirittura per tutta vita; la riconciliazione attraverso l’imposizione delle mani da parte del vescovo. Lo stato penitenziale era molto duro e impegnativo e molti iniziarono a rimandarlo fino all’età avanzata. Va anche notato che nella esperienza di peccato si sottolinea in particolare la ferita che questo produce nel corpo della Chiesa e la necessità di sanarla con medicine anche forti e amare. Ma la chiesa ha rischiato di costruire un edificio che rimane vuoto e ancora una volta la necessità della vita impone uno sviluppo.
Più che la confessione pubblica, era lo stato dei penitenti ad essere pubblico. San Leone Magno proibisce la confessione pubblica che dichiara illegittima e contraria alle norme apostoliche: «Noi proibiamo che in questa occasione venga letto pubblicamente uno scritto nel quale sono elencati nei particolari i loro peccati. È sufficiente infatti che le colpe vengano manifestate al solo vescovo, in un colloquio privato» (Lettera 168).
È in questo contesto che va letto il celebre decreto 21 del Concilio Lateranense IV (1215): «Ogni fedele dell’uno e dell’altro sesso, giunto all’età di ragione, confessi lealmente, da solo, tutti i suoi peccati al proprio parroco almeno una volta l’anno, e adempia la penitenza che gli è stata imposta secondo le sue possibilità... il sacerdote sia discreto e prudente, come un esperto medico versi vino e olio sulle piaghe del ferito, informandosi diligentemente sulla situazione del peccatore e sulle circostanze del peccato per capire con tutta prudenza quale consiglio dare e quale rimedio applicare…»
Da svariati secoli siamo esortati a confessarci spesso: dal medioevo monastico e con le sue riforme ecclesiali, e poi dall’età tridentina che la confessione è entrata a far parte del cammino ordinario di un cristiano consapevole della necessità della conversione e del perdono che è frutto non solo di scelte personali, ma soprattutto della grazia di Dio che ci raggiunge attraverso la mediazione della Chiesa.
Riguardo alla confessione il Concilio Vaticano II afferma: «Quelli che si accostano al sacramento della penitenza, ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a Lui e insieme si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità, l’esempio e la preghiera». (L.G.11)
Tra tutti i sacramenti della Chiesa, la riconciliazione o confessione è forse quello che ha subito più trasformazioni lungo i secoli. E questo non è senza motivo. Da una parte vi è la fede della chiesa che crede e insegna di aver avuto il potere di perdonare i peccati, dall’altra il peccatore concreto con la sua storia, quindi non semplicemente una dottrina da applicare, ma una persona da accogliere, una prassi da inventare.
Nel Nuovo Testamento la prima, vera e più importante, e per alcuni l’unica, remissione dei peccati è il Battesimo: «pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per il perdono dei vostri peccati» (Atti 2,38) dice l’apostolo Pietro nel suo discorso la mattina di pentecoste. Nella professione di fede che recitiamo nella messa domenicale, diciamo di credere «in un solo battesimo per la remissione dei peccati». È nel Battesimo, dunque, che muore l’uomo vecchio con i suoi peccati e le sue concupiscenze e nasce l’uomo nuovo creato secondo Dio.
Il Battesimo, però, non va inteso in senso quasi magico che assicuri la salvezza senza un concreto impegno del credente reso possibile dal Battesimo.
Nel Nuovo Testamento la prima, vera e più importante, e per alcuni l’unica, remissione dei peccati è il Battesimo: «pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per il perdono dei vostri peccati» (Atti 2,38) dice l’apostolo Pietro nel suo discorso la mattina di pentecoste. Nella professione di fede che recitiamo nella messa domenicale, diciamo di credere «in un solo battesimo per la remissione dei peccati». È nel Battesimo, dunque, che muore l’uomo vecchio con i suoi peccati e le sue concupiscenze e nasce l’uomo nuovo creato secondo Dio.
Il Battesimo, però, non va inteso in senso quasi magico che assicuri la salvezza senza un concreto impegno del credente reso possibile dal Battesimo.
La prima comunità cristiana ha sperimentato subito la propria fragilità e la necessità di un perdono oltre il battesimo. Il ruolo della chiesa è ben espresso dal testo di Matteo 18,15-18: «se tuo fratello commette una colpa, va e ammoniscilo fra te e lui...» L’amara esperienza della vita, soprattutto durante le persecuzioni che durano a fasi alterne quasi tre secoli, mette davanti a necessità nuove. Non mancano, infatti, cristiani che rinnegano la fede, anzi in alcuni momenti sono anche molti, come nelle persecuzioni di Decio e di Diocleziano, e che poi pentiti desiderano ritornare nella comunità cristiana.
Cosa fare? Abbandonarli a se stessi e alla propria disperazione o riaccoglierli come Colui che riaccolse il figlio prodigo, che andò in cerca della pecora smarrita, che è venuto a chiamare i peccatori e non i giusti, che ordinò di perdonare fino a settanta volte sette, che diede agli Apostoli il mandato di rimettere i peccati…?
Cosa fare? Abbandonarli a se stessi e alla propria disperazione o riaccoglierli come Colui che riaccolse il figlio prodigo, che andò in cerca della pecora smarrita, che è venuto a chiamare i peccatori e non i giusti, che ordinò di perdonare fino a settanta volte sette, che diede agli Apostoli il mandato di rimettere i peccati…?
Più che il momento giuridico della istituzione di questo sacramento è importante riflettere e imparare dal modo di essere e di fare del Maestro e Signore, il vero Sacramento della nostra riconciliazione con il Padre. Dall’iniziale rigore per cui sembra che il perdono sia possibile solo una seconda volta (come uno è il battesimo, una è la penitenza), si passa ad elaborare un cammino penitenziale più possibilista, ma anche complesso.
Possiamo riassumere in tre momenti la celebrazione della penitenza e del perdono: la richiesta di perdono fatta al vescovo e l’ingresso nello stato dei Penitenti; un tempo di penitenza che può durare da pochi mesi a molti anni, o addirittura per tutta vita; la riconciliazione attraverso l’imposizione delle mani da parte del vescovo. Lo stato penitenziale era molto duro e impegnativo e molti iniziarono a rimandarlo fino all’età avanzata. Va anche notato che nella esperienza di peccato si sottolinea in particolare la ferita che questo produce nel corpo della Chiesa e la necessità di sanarla con medicine anche forti e amare. Ma la chiesa ha rischiato di costruire un edificio che rimane vuoto e ancora una volta la necessità della vita impone uno sviluppo.
Più che la confessione pubblica, era lo stato dei penitenti ad essere pubblico. San Leone Magno proibisce la confessione pubblica che dichiara illegittima e contraria alle norme apostoliche: «Noi proibiamo che in questa occasione venga letto pubblicamente uno scritto nel quale sono elencati nei particolari i loro peccati. È sufficiente infatti che le colpe vengano manifestate al solo vescovo, in un colloquio privato» (Lettera 168).
Possiamo riassumere in tre momenti la celebrazione della penitenza e del perdono: la richiesta di perdono fatta al vescovo e l’ingresso nello stato dei Penitenti; un tempo di penitenza che può durare da pochi mesi a molti anni, o addirittura per tutta vita; la riconciliazione attraverso l’imposizione delle mani da parte del vescovo. Lo stato penitenziale era molto duro e impegnativo e molti iniziarono a rimandarlo fino all’età avanzata. Va anche notato che nella esperienza di peccato si sottolinea in particolare la ferita che questo produce nel corpo della Chiesa e la necessità di sanarla con medicine anche forti e amare. Ma la chiesa ha rischiato di costruire un edificio che rimane vuoto e ancora una volta la necessità della vita impone uno sviluppo.
Più che la confessione pubblica, era lo stato dei penitenti ad essere pubblico. San Leone Magno proibisce la confessione pubblica che dichiara illegittima e contraria alle norme apostoliche: «Noi proibiamo che in questa occasione venga letto pubblicamente uno scritto nel quale sono elencati nei particolari i loro peccati. È sufficiente infatti che le colpe vengano manifestate al solo vescovo, in un colloquio privato» (Lettera 168).
È in questo contesto che va letto il celebre decreto 21 del Concilio Lateranense IV (1215): «Ogni fedele dell’uno e dell’altro sesso, giunto all’età di ragione, confessi lealmente, da solo, tutti i suoi peccati al proprio parroco almeno una volta l’anno, e adempia la penitenza che gli è stata imposta secondo le sue possibilità... il sacerdote sia discreto e prudente, come un esperto medico versi vino e olio sulle piaghe del ferito, informandosi diligentemente sulla situazione del peccatore e sulle circostanze del peccato per capire con tutta prudenza quale consiglio dare e quale rimedio applicare…»
Da svariati secoli siamo esortati a confessarci spesso: dal medioevo monastico e con le sue riforme ecclesiali, e poi dall’età tridentina che la confessione è entrata a far parte del cammino ordinario di un cristiano consapevole della necessità della conversione e del perdono che è frutto non solo di scelte personali, ma soprattutto della grazia di Dio che ci raggiunge attraverso la mediazione della Chiesa.
Riguardo alla confessione il Concilio Vaticano II afferma: «Quelli che si accostano al sacramento della penitenza, ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a Lui e insieme si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità, l’esempio e la preghiera». (L.G.11)
Da svariati secoli siamo esortati a confessarci spesso: dal medioevo monastico e con le sue riforme ecclesiali, e poi dall’età tridentina che la confessione è entrata a far parte del cammino ordinario di un cristiano consapevole della necessità della conversione e del perdono che è frutto non solo di scelte personali, ma soprattutto della grazia di Dio che ci raggiunge attraverso la mediazione della Chiesa.
Riguardo alla confessione il Concilio Vaticano II afferma: «Quelli che si accostano al sacramento della penitenza, ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a Lui e insieme si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità, l’esempio e la preghiera». (L.G.11)
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